Troppo poco
settembre 18, 2009 Lascia un commento
Il buio è ovunque.
Le stringe il braccio. Dapprima carezza sulla pelle. Poi le dita intensificano la morsa, ancora e ancora. Lei respira piano, stringe i denti, abbassa le palpebre. Lo sente arrivare, il fischio è inesorabile. Le dita diventano ferro rovente. La carne inizia a fremere, s’increspa. Dal braccio il calore è irradiante, ha lingue infuocate che si disperdono verso la spalle e all’opposto informicolano le dita.
Il dolore.
E’ qualcosa che respira in lei. Aumenta, taglia, affonda tra ossa e muscoli.
Piega la testa, la inclina a cercare qualcosa che non c’è, l’aria dai polmoni volteggia singhiozzando. Quel male che sente, penetra in profondità, le contrae la faccia.
Nessun rumore. Solo in-spirare, e-spirare, respirare. Respirare.
Lui fissa il male riflesso negli occhi e l’energia, che come onde gonfie gli si infrangono contro, lo sommerge rimbalzando. Vanno e vengono, le onde affamate, e lui insiste, le osserva il corpo piegato in avanti, dove il braccio che stringe ne è nuovo epicentro. Schiaccia ancora, e gli pulsa tra la pelle rovente un cuore.
Ordina alla mano di aprirsi. Improvvisamente le dita si scollano, la tensione risale attraverso muscoli e nervi.
Il braccio ferito si abbassa di poco, l’ematoma è in arrivo, lo sanno entrambi. Gli occhi le si sono riempiti. Sudore. Lacrime. Liquidi trattenuti ma scivolosi. Che sfuggono al controllo. Che rifiutano.
Il male. La sta ancora succhiando, la pressione si è assottigliata ma la carne resta rattrappita. Lo stomaco accartocciato. Le spalle dure, granito con venature irregolari che allungano frammenti maligni verso l’alto. Verso la testa pesante, stordita.
Ancora, e già se lo vede vagamente gonfio, l’ematoma, dalla forma allungata e tozza, scuro miscuglio di ferocia e piacere. Gioco di resistenze. Fuga dal buio.
Lui si avvicina, un passo verso ma lontano dalla ferita, ha il corpo legnoso, incerto. La afferra per le spalle e se la spinge contro. Sente il braccio che penzola, abbandonato, radiazione accecante. Con una mano le tiene il collo, la vuole addosso, quella carne che è prolungamento, gli si è tenacemente conficcata, quella carne sanguinante trasmette. Ne ha bisogno.
Ancora, insiste. La voce inclinata da equazioni confuse. Ho ancora male, gli sussurra, toglimelo.
E lui sa, sente, che non è capriccio. Che la lesione è dentro e aspetta di guarire fuori, di sputare veleno e grumi. Che il corpo chiede, i loro corpi urlano, di provare, avere, liberarsi.
Abbassa il braccio sinistro, inverte la direzione e crea una simmetria distorta afferrandole la parte alta della coscia, poco sotto i glutei. Se la tiene stretta, schiacciata, carne su carne. La bocca sfiora una guancia fermandosi sull’orecchio.
Anch’io. Lo sai. Ed è fermo, il tono, basso ma preciso. Lei si passa la lingua sulle labbra, se le trattiene tra i denti il tempo di un lungo respiro. Annuisce a se stessa mentre alza la mano destra, quasi sfiora la sua che le tiene saldamente
la coscia, e la poggia sul fianco nudo sfiorando i boxer ruvidi. Sposta il volto, si guardano sospesi, tra buio e silenzio. Immobili.
Chiude la mano afferrandogli carne e pelle, tra le dita la morbidezza è disarmante. Stringe. Mentre la coscia inizia a scaldarsi, sotto l’altra stretta gemella, intensa.
Schiacciano, premono. Lo sforzo si schianta tra i tessuti, passa da palmi a epidermide conosciuta seppur estranea. Un vago tremolio invade cellule, si fa largo all’interno.
Il dolore si propaga, è forza selvaggia. E’ disperazione, fondale invisibile, patina che spezza, cancella. L’istinto preme, vorrebbe scansarlo questo male irrequieto, che vaga rinforzandosi, non lascia ossigeno, non si ribella pretendendo remissione.
Male, male, male.
I corpi ondeggiano, sussultano insieme e crepano, si incrinano l’uno sull’altro, l’altro nell’uno entro un’irradiazione potente, fondissima.
Le contrazioni interrompono la corsa quando le fronti poggiano sulle spalle. Le dita informicolate restano sospese a mezz’aria, molli dopo lo sforzo. Rantolano sottovoce, sudano appiccicati, doloranti.
Aspettano di calmarsi, si reggono su un epicentro invisibile che sono le loro masse assemblate in dis-equilibrio precario. La mano di lui risale e le alza il mento. Aspetta, e lo sbircia. Il fuoco le (trat)tiene la gamba, se la succhia con calma e fa lo stesso sul fianco che lui non si è nemmeno guardato. Sa. Che il male sta risalendo, galleggia sottopelle prima di riversale melma formando quell’essere deformato, schizzato, che nel buio s’ingrassa tra carne e superficie.
Ma il bacio, le labbra che da incerte, affaticate, si afferrano violente. Ma quel contatto intimo, denso e anch’esso doloroso, graffiante. Sono accettazione. Trasparente, scintillante, animale accettazione. Che cercando il male lo si può attraversare. Che nel dolore c’è sollievo, liberazione. Che i corpi ondeggianti insieme arretrano e si contorcono entro un’unica massa mutevole. Sono. Amalgama sfasciata ma viva.
Le labbra si succhiano. Le lingue giocano. La saliva scorre.
Le strette, governate da braccia che frenetiche cercano appigli, spingono la carne alla tensione, verso pulsioni che fanno e restituiscono male.
Male, male, male.
Troppo?
Troppo poco.
No.
Impareremo.
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