Lotta di classe
novembre 10, 2009 7 commenti
Scena 1 [Pisa, esterno notte]
Riccardo esce dalla redazione del Tirreno e si accende una sigaretta. L’aria della sera promette dolcezze notturne ma nasconde un retrogusto amaro.
“Stronzi” sussurra lui aspirando la camel. Non lo pagano da quasi due mesi e intanto gli hanno commissionato un altro articolo per il giorno dopo. Non ne può più di lavorare per la gloria. Meno male che c’è la casa editrice a pagargli i conti: meglio passare le notti a rovinarsi gli occhi sulle ambizioni di gloria di qualche idiota che tornare a Massarosa con la coda tra le gambe.
Il cellulare suona e Riccardo reprime una bestemmia.
“Sì Lauro sono io, dimmi. Tremila battute, ho capito. Sì lo so dov’è, ci sono già stato l’anno scorso, non ti ricordi? Sì, tranquillo, buonanotte”
Riccardo respira profondamente e scorre la rubrica del telefonino.
“Vale ciao, che fai? Sei a casa? Ci vediamo tra cinque minuti”
I pensieri si affastellano come polvere sotto il divano e Riccardo si concentra sulle cosce di Valentina. Sono bianchissime e sode, ma non troppo magre. Da donna, anche se lei è solo una ragazzina. Ma lo adora e lui si è invaghito di quest’adorazione, ne è ormai dipendente.
“Dovrei mollare tutto e andare a Roma da Gianni” pensa Riccardo mentre percorre in trance le strade di Pisa. Si conosce: non riuscirà mai a mollare questa città e le sue sicurezze precarie, ma sapere di poterlo fare lo consola.
Si sporge dalle spallette dell’Arno e guarda la cicca volare giù lentamente.
Le facciate dei palazzi colorano l’acqua di luci e da lontano – come un miraggio – spunta l’odore del mare.
Riccardo stringe i pugni dentro la giacca di velluto e immagina le labbra di Valentina. Non lo eccitano neppure un po’: è solo l’idea di un pompino fatto per bene a risvegliare i suoi sensi.
Un uomo deve pure tenersi stretto quello che ha, anche se sono solo fantasie da porno amatoriale.
Scena 2 [Massarosa, interno giorno]
“Ma ancora stai dietro alle cazzate che ti racconta?”
“Che ne sai tu di come campa Riccardo…”
“Oh se lo so! Fanno tutti i letterati del cazzo, questa è la verità, ma nessuno si mantiene da solo, fidati. Uffici stampa, correzione di bozze, collaborazioni con giornali, se mettono insieme 400 euro al mese è oro che cola. E il resto lo sgancia il papi!”
“Allora è meglio vivere come facciamo noi, secondo te?”
“Non è meglio né peggio: è necessario e basta. I miei non vogliono aiutarmi, i tuoi non possono. Punto. Non è questo il problema. Lavorare non mi ha mai pesato”
“Allora cos’è? Dai ammettilo Manuele, sei invidioso”
“No cazzo, non è invidia. È la loro spocchia che non sopporto. Maledetti figli di puttana. Io voglio un po’ di rispetto. E poi parlano di precariato! Con il loro precariato intellettuale mi ci pulisco il culo. Non lo sanno che tu fai le pulizie con una cooperativa e che sei assunta con l’interinale? Mi fanno schifo”
Mara scuote la testa e si versa un altro bicchiere di birra. La domenica è agli sgoccioli e la sua pazienza pure.
Manuele ha ragione ma non può capirla. Quello che a lei manca, quello che invidia a Riccardo, è solo la capacità di coltivare un sogno.
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Complimenti Ilaria, nel tuo racconto evidenzi un punto nevralgico della condizione precaria, che è proprio nell’evaporarsi del concetto di classe, che porta i precari a mettersi l’uno contro l’altro anziché riconoscersi nell’esigenza di una lotta comune (con tutte le differenze che comportano diverse condizioni, come in questo caso tra precariato “intellettuale” e “manovale”).
“La capacità di coltivare un sogno” è l’unica cosa che può portarci avanti nel grigiore dei giorni costellati da un’umanità dispersa…
la capacità di evolversi, migliorarsi, nutrire l’anima.
Un’amica mi ha ricordato una frase di Gandhi
“SIETE VOI IL CAMBIAMENTO CHE VOLETE INTRAVEDERE NEGLI ALTRI”.
Grazie Simone. L’idea da cui sono partita è proprio la mancanza di una solidarietà comune tra i lavoratori della nostra generazione, che a parer mio è la risultante di diversi fattori ma che porta allo stesso risultato: il depotenziamento di un qualunque tipo di potere (contrattuale, politico, sociale).
Secondo me la differenza che l’autrice vuole marcare non è solo quella tra precariato manuale ed intellettuale, ma anche quella tra precari “obbligati” (i due della seconda scena) e i precari che, invece, possono permettersi di fare lavori intellettuali, anche se sottopagati, perché hanno un sostegno familiare, pecuniario o materiale (vivono ancora con i genitori).
A Ilaria_M: è una differenza che salta subito all’occhio e contribuisce appunto a creare quelle divisioni di cui parlavo prima. Si tratta in realtà di un finto problema, perché tanto il precario ‘obbligato’ che l’altro si trovano comunque a subire una situazione negativa che non possono cambiare con le loro sole forze. Ciascuno di loro sta rinunciando a qualcosa (le proprie aspirazioni uno, l’indipendenza economica l’altro) senza ottenere con certezza niente. Insomma: sono nella stessa merda ma non se ne rendono conto.
Be’, direi che della merda se ne rendono anche conto. E’ abbastanza comune provare invidia o disprezzo per chi ha fatto l’altra scelta, perché sostanzialmente sia nell’una che nell’altra situazione si è infelici. Però quell’ultima frase, quella del sogno, non la sottovaluterei, e credo che anche in quella seconda situazione, se si ha la forza e la voglia per farlo, si possa coltivarlo il sogno (io conosco un sacco di persone che lo fanno, comprese quelle che stanno qua dentro 🙂
C.
p.s. visto che sono una “spammona”, ricordo a chi non lo avesse ancora letto il romanzo di Ilaria, qua: http://www.intermezzieditore.it/facciamo_finta_che_sia_per_sempre.php.
Scusate eh, ma sono anch’io una precaria intellettuale 😛