Primo embargo dall’illusione

PRIMO EMBARGO DALL’ILLUSIONE

Quando gli aeroplani prendono velocità sulla pista, fanno un rumore assordante. Se stai dentro, cinturato a dovere, la forza della propulsione ti schiaccia contro il sedile, come se una grossa mano ti stesse spingendo sul petto. La pressione è forte, i polmoni si svuotano e lo stomaco si intorcina su se stesso. Poi l’aereo decolla e tutto passa lentamente, la pressione si allenta, i polmoni si rigonfiano, leggermente affannati e lo stomaco riprende il posto che madre Natura gli ha assegnato, dandoti un leggero solletichio sul ventre. Io sono fuori invece, a bordo pista, appena dietro la rete di protezione. Poco distanti da me decine di appassionati, con tanto di macchina fotografica professionale, sperano di immortalare il “momento perfetto”, che è il loro, diverso per ognuno. Alcuni cercano di catturare l’istante esatto in cui il carrello davanti si stacca dalla pista, quando, con le ruote posteriori ancora poggiate sull’asfalto, l’aereo sembra una motocicletta impennata da qualche imprudente giovanotto. Ce ne sono altri, al contrario, che aspettano ancora qualche istante prima di scattare. Stanno posizionati con l’obiettivo verso l’alto, aspettando la virata, per immortalare il velivolo per intero nel cielo, senza lo spettro delle costruzioni urbane come sfondo. Se ce la fai sembra che l’aereo sia piatto e che perda di tridimensionalità, come una sagoma ritagliata e appiccicata a un soffitto azzurro; almeno così mi ha detto un tipo che ci prova da tempo e con buoni risultati, a sentir lui. Io sto qui per altri motivi, non sono un appassionato di fotografia e tantomeno di aeroplani. Il mio è un motivo più intimo che mi spinge, ormai da un paio di settimane, a venire ai cancelli dell’aeroporto tutti i pomeriggi, intorno all’ora del tè. Il mio è un conto alla rovescia, nient’altro. Conto i giorno che passano, conto quelli che mancano. Oggi sono tredici, mancano tredici giorni alla mia partenza. Tra tredici giorni esatti proverò anch’io le sensazioni del decollo. Non è la paura, o il bisogno di prepararmi al volo che mi portano ad aggrapparmi a questa rete. Il motivo che mi spinge a venire qui tutti i giorni è il senso di colpa. Mi sento in colpa perché ho deciso di lasciare, di non crederci più, di cedere il testimone a qualcun altro e di andarmene. Non ci credo più, quindi è inutile per me rimanere qui a marcire, abulico. Ci ho creduto fino al limite, mi sono impegnato investendoci tutte le mie energie, mi sono battuto e nulla è cambiato. Come me, prima di me, molti se ne sono andati a cercare fortuna all’estero. «L’Italia è ormai alla frutta», mi disse un caro amico abbracciandomi forte. «Vattene anche tu, prima che sia troppo tardi!», continuò a ripetermi salendo gli scalini verso il gate d’imbarco. Ma io non gli risposi e con il pugno al cielo, mi girai senza più voltarmi indietro. Questo però è successo due anni fa, oggi è tutto diverso. I progetti culturali, le iniziative per ripartire e creare un momento concreto di cambiamento, sono crollati come castelli di sabbia esposti a tramontana. Sbriciolati senza lasciare traccia, se non nella memoria. Io non sono un campanilista e tantomeno un nazionalista, anzi è il concetto di internazionalismo che mi ha sempre caratterizzato e condizionato nel profondo. Però amo la mia terra, dal grigio nord, che ha visto i miei natali, fino al profondo sud, che da colore al mio sangue. Amo il mio paese, che è un non paese. Un paese costruito a tavolino, per le esigenze di pochi e sulle spalle di molti. Un paese fatto di più culture differenti che si sfregano l’una contro l’altra, logorandosi e incattivendosi. Ma è la mia terra e per me posto più bello non c’è. E allora sto qui, aggrappato a una rete che ne ha visti di addii, che ne ha contate di lacrime. Provo rabbia, detonante e impaziente, per questa terra. Una terra fatta di gente che gioisce se la razione di cioccolata passa da cento a centoventicinque grammi a testa e non dice niente, invece, se il diritto all’esistenza viene calpestato e deriso. Ma non eravamo il paese dell’arte e della cultura? Non eravamo la culla della civiltà? E allora, dove sono finite? Forse sono stramazzate al suolo sotto i colpi di pistola e le manganellate genovesi e partenopee, oppure sono state inghiottite dalla nuova realtà, quella subliminale e mediatica, che ci hanno disegnato addosso e che ci impongono. Pensavo proprio a queste cose, quella mattina che l’inattesa lettera faceva capolino dalla casella della posta. Come sempre, in ritardo e trafelato, l’ho presa al volo senza guardarla, l’ho infilata nella tasca del cappotto e mi sono lanciato verso l’autobus in fuga. Più tardi, in facoltà, dopo ore di dimenticanza mi è ricapitata in mano, mentre cercavo nelle tasche le sigarette. Università di Città del Messico, diceva l’intestazione in alto a sinistra. Era indirizzata proprio a me, c’era il mio nome scritto in maiuscoletto. La gola mi si stringe, le mani mi sudano e le tempie fanno il verso al cuore, pulsando in controtempo. Hanno accettato la mia domanda di dottorato, non ci pensavo nemmeno più. L’avevo inviata in un periodo di sconforto, quando i miei settecento euro mensili, di borsa di studio, mi erano volati via in un quarto d’ora. Era circa quattro mesi fa. Allora, assalito al petto dal bisogno strenuo di una vita dignitosa , avevo inviato la domanda, certo di non essere preso, solo per alleviare l’ansia. Invece eccola qui, con un’offerta di dottorato per tre anni a duemila euro al mese. Volto la testa dall’altra parte, senza riuscire di leggerla per intero. È arrivato il mio momento, ci sono io adesso al bivio e devo scegliere. O dentro, o fuori. Non posso rinunciare, ovviamente, mi sento in dovere di accettare. Devo per me, per la mia famiglia e per cercare di realizzare quello che ho sempre desiderato. Non è giusto rimanere attaccato a qualcosa di moribondo, di agonizzante e perire lentamente anch’io. Allora ripiego la lettera con cura, chiudo l’uscio di casa a chiave e vengo qui all’aeroporto a guardare la gente partire, per cercare di espiare la colpa di questa scelta, assordandomi con i rombi dei propulsori, per intontirmi e lenire il senso di colpa.

Cristian Giodice

* Continua tra una settimana…

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