Deserto Americano

Deserto Americano (Nutrimenti, 2009)

di Percival Everett

Mettete di essere un professore di inglese antico e affini alla University of Southern California che non ha mai pubblicato nulla, né in ambito accademico e né come scrittore. Mettete di essere quantomeno imbarazzati dalle battutine dei vostri colleghi e comunque frustrati dall’arrivo di belle docenti che prenderanno senza remore il vostro posto.

Aggiungete al vostro status, di cui però non vi lagnate affatto se non qualche volta inter vos ma in maniera molto, molto pacata, una famiglia con due figli e una moglie che sostiene, supporta, (sopporta forse) la vostra vita e il vostro lavoro.

Cercate di immaginare una relazione con una vostra studentessa con una lingua super dotata, giovane e sensuale fino al vostro smarrimento coniugale che all’inizio si fa dare lezioni private nel vostro studio, poi a casa sua e alla fine dice di essere innamorata di voi. Rincarate la dose con lei che si presenta nello stesso luogo in cui avete deciso di passare una giornata con i vostri cari accodandosi alla comitiva e “minacciando” di dire a vostra moglie che è perdutamente afflitta dal più sconcertante sentimento nei vostri confronti.

Non basta. Aggravate la vostra condizione ritrovandovi, per forza di cose e non per coraggio (visto che forse nella vostra meschinità non ne avete mai avuto) nel bagno con la vostra metà ufficiale a dirle della vostra scappatella per poi ricominciare la vostra vita da criceto nella ruota.

Fin qui avete vissuto Theodore Street. Ma ecco un colpo di scena: Ted, capisce la sua condizione di inetto e decide di farla finita affogandosi. Si mette in macchina. Parte. Autostrada. Un furgone Ups che sbanda, lo prende in pieno e lo decapita. Ecco fatto.

Comincia così il nuovo Percival Everett, autore di Glifo, Ferito, La cura dell’acqua (tutte pubblicate in Italia dalla Nutrimenti), un romanzo diverso dai precedenti che si caratterizzavano per i giochi linguistici, i divertissement letterari e i temi gelidi. Deserto Americano è forse più pop, ma di certo non perde la carica stilistica di uno scrittore in grado di stupire ad ogni pagina scoprendo anche un inaspettato umorismo.

Ted Street si trova a fare i conti con sé stesso, dall’inizio alla fine, con le proprie paure e quelle di una società che è ingorda di vigliaccheria, di arrivismo camuffato da ambizione e voyeurismo mimetizzato da informazione. Che c’entra la società con Theodore Strett, illustre professore sconosciuto? Chiedetelo ai partecipanti al suo funerale che lo hanno visto alzarsi dalla bara, prendere la famiglia e dirigersi verso casa.

Alex Pietrogiacomi

Qui e qui le due interviste a Percival Everett pubblicate su SP.

Pubblicità

La banda dello stivale, ovvero la Seconda Unità d’Italia – 14

[continua da qui]

Insomma, i cinque arrivarono a Milano carichi come una bomba a orologeria, pronti a esplodere da un momento all’altro, magari proprio nell’ora dell’aperitivo, in mezzo al brulichio e al cicaleccio di certi personaggi azzimati e impomatati che sembrano usciti fuori da una pubblicità di qualche analcolico on the rocks.

Da testimoni attendibili risulta che i sedicenti scrittori alloggiarono in periferia, presso una cugina di primo grado in dolce attesa, e che vi giunsero soltanto in quattro, ma piuttosto trafelati e puzzolenti e ancora carichi di scatoloni di libri rimasti invenduti. Dal qual particolare si evince una volta di più che destava interesse il loro fenomeno, l’esser dei saltimbanchi, o dei pagliacci se preferite, piuttosto che la sostanza delle loro idee, la scrittura vera e propria.

La riunione si realizzò poche ore dopo sulla scalinata del Duomo, un po’ ingrigita e impallinata dai piccioni, ma pur sempre affascinante sotto quel cielo incredibilmente terso e romantico, come documentato dalla foto traditrice, che riprende un abbraccio in bianco e nero tra i nostri, mentre tutt’intorno la piazza pullula di poliziotti col pastore tedesco al guinzaglio e di turisti all’oscuro del fatidico disegno.

È ovvio, a questo punto, che i fatti precedentemente riportati siano tutti quanti viziati da un madornale errore di fondo, alla luce del quale dovremmo rivedere l’interpretazione vigente. Chiediamoci quindi il perché di questa macchinazione, partorita dalle menti di chi si è voluto dipingere in pubblico come puro artista, come animo intonso ancorché impegnato, e del ruolo rivestito infine da questo fantomatico quinto componente. Quale doveva essere la sua funzione, se non quella di coordinare da una torre di controllo le scriteriate gesta dei suo compari, inficiando così la teoria del piano improvvisato sul momento? Ecco allora spiegata la natura guerrigliera di costui, il suo impegno nelle arti marziali e il ruolo strategico di ufficio stampa alle dipendenze di un editore noto da tempo come sovversivo e sobillatore.

Ed è a questo punto, cari i miei lettori, che mi ritrovo, dopo tanto peregrinare tra scartoffie, interviste e dichiarazioni varie, a esser costretto a prendermi anch’io qualche licenza poetica, ad azzardare qualche ipotesi che non potrà mai essere tanto inverosimile quanto la realtà riportata nei commenti dei nostri protagonisti.

Dopo tanti giorni passati chino sui fogli o con le orecchie attente ad auscultare le intercettazioni ambientali, posso affermare di aver fallito nella ricostruzione dettagliata del piano (ed è questo il dubbio che più mi arrovella, poiché questa pecca giustificherebbe ancora l’ipotesi di un colpo di testa, di una bravata improvvisata), ma di aver compreso alcune cose affatto secondarie sulla psicologia di questi scrittori ributtanti e rivoltosi.

La prima è che non avevano una, non dico due o tre, ma un’idea che fosse una di letteratura, la qual cosa si deduce dall’uso sproporzionato di aggettivi indecenti e deleteri quali carino e interessante, con cui infarcivano le loro riflessioni di bassa lega. Hai letto quel mio lavoro?, chiedeva loro qualcuno, e giù a dire che sì, che era carino, interessante, ma che c’era qualcosa che non andava, che non convinceva fino in fondo. Ecco, di questo qualcosa, che immagino costituisse proprio l’irriducibile sostrato letterario della questione, essi non sapevano darne una definizione precisa. Arrancavano, come i più che oggi si buttano a scrivere in mancanza d’altro e che per lo stesso presupposto, quasi che siano spinti da forza d’inerzia, finiscono persino con l’accettare l’obolo del pagamento pur di vedere pubblicate le loro elucubrazioni da quattro soldi. Loro cinque si dichiaravano però contrari a questa forma masochista di letteratura, per quanto poi non si vergognassero di fare la questua a questo o a quell’altro personaggio famoso pur di ottenere un minimo di spazio e di visibilità.

Insomma, se proprio posso permettermi anch’io un poco di licenza poetica, direi che la storia del nostro glorioso paese doveva ancora conoscere dei simili gigolò della letteratura, che forse non sarebbero dispiaciuti al D’Annunzio, se non fosse che questi non avevano neanche l’ardire di rischiare la propria vita per la patria.

Altro che rivoluzionari della parola!, essi miravano né più e né meno all’effimera gloria, al caduco successo, quello stesso che avrebbero raggiunto con più facilità in uno studio televisivo che nell’impervio mare di carta che s’eran prefissati d’attraversare…

Simone Ghelli

Il bambino dimenticato

Il mio nuovo racconto si svolgeva nei giardini Margherita di Bologna. Fra tutti i parchi d’Italia avevo scelto quello perché il tema superficiale della narrazione (la maternità) aveva risvegliato in me, in maniera del tutto automatica, un ricordo d’infanzia confuso nei contenuti ma netto nel contorno: quando ero bambino, nel corso di una visita organizzata da mia nonna per passare in rivista il distaccamento emiliano di biscugini e prozie, si era fatto tappa in quei giardini.

A seguito di rapida documentazione, avevo appreso che Margherita era stata sì Regina amatissima, filantropa, benefica, dispensatrice di doni, ottima moglie a onta delle avventure galanti dell’infausto Re che accompagnò già dal primo di tre attentati – l’ultimo fatale, sullo scoccare del XX secolo; e ancor più prodiga e munifica (con devozione e modestia) era stata come vedova, e nondimeno ancor più amata, adorata quasi, da destra e da sinistra, in democrazia come in dittatura, fino all’apoteosi del funerale; sì, era stata ottima regina.

Ma pessima madre. La sua prole: un unigenito nanesco, bilioso, ottuso, la cui nauseante longevità servì solo a permettergli di manifestarsi appieno in tutta la pochezza di cui era capace.

Una mattina di fine luglio montai dunque sul Regionale, valicai gli Appennini, e da Bologna Centrale saltai sul 33, l’autobus della circonvallazione – ma quello sbagliato, che viaggia in senso antiorario invece che orario –, e seduto su un seggiolino rovente, dopo venti minuti di vedute panoramiche di viali non trafficati, scesi a Porta Santo Stefano e varcai il cancello nordorientale dei giardini.

Del luogo che ricordavo non c’era traccia. Io ricordavo: un pratone in salita (un’erta salita) pieno di margherite, animazione, chiasso, ragazzi con i pattini, sentieri che si perdevano nella foresta, e naturalmente mia nonna. Invece ora non c’erano né foreste né prati scoscesi né ragazzi intenti in acrobazie. Delle margherite restavano milioni di mozziconi color tabacco bruciati dall’estate. Come diceva il cartello all’ingresso, il giardino aveva “evidenti legami con il giardino all’inglese o romantico”: un tessuto ampio e disteso di viali asfaltati dal percorso ondulato, inframmezzati da prati e boschetti (soprattutto, sempre secondo il cartello, di “cedri, pini, ippocastani, platani, cipressi calvi, farnie, una sequoia”). Su tutto incombevano il caldo meticoloso della pianura e l’eco inesauribile delle cicale. Siccome il mio racconto si svolgeva su una panchina, dovevo anzitutto esplorare il parco e scegliere la panchina più appropriata. L’esplorazione fu istruttiva: scoprii che il parco era assai ameno, che le strade erano dedicate a eroi della Resistenza, e che faceva troppo caldo perché qualsiasi madre avesse l’incoscienza di portare il suo bambino al parco (poco male: non avevo necessità di modelli, avendo già precisa idea dei personaggi del racconto).

Trovai tre luoghi adatti: il primo era Piazzale Mario Jacchia (“caduto per la libertà”), uno slargo sul lato orientale del parco, un centinaio di metri dopo la statua equestre di Vittorio Emanuele II. Era un piazzalotto inutilmente ampio, triste, percorso dal vento che vi menava ondate di foglie. Vi si affacciava lo “Chalet restaurant”, una palazzina liberty in ottimo stato ma in disuso, tanto lugubre ora quanto gradevole un tempo, specialmente a causa dell’effetto tombale delle saracinesche turchese che sbarravano il triplo ingresso e le due doppie finestre al piano terra. Al lato opposto del piazzale, sormontata da conifere notturne e maestose, c’era un’insenatura dello scalino separante l’asfalto dal terreno, nel cui spazio trapezoidale si raccoglievano tre panchine. In quell’accenno di alcova, pensai, avrei potuto ambientare il racconto, sfruttando i tratti di malinconico abbandono dell’ambientazione per dare alla storia un tocco vagamente gotico.

La seconda panchina che trovai era dall’altra parte del parco, vicino al cancello di Porta Castiglione, un po’ nascosta fra il chiosco con tavolini di un bar, la buffa ricostruzione di una capanna villanoviana (“la muratura è in terra cruda, il coperto è in legno e canne di palude”), dei giochi per bambini su formelle di gomma, e il retro di un cinema parrocchiale dismesso. Era una curiosa panchina a forma di boomerang posta davanti a una interessante vasca a forma di fulmine, senz’acqua, piastrellata con un reticolo di quadratini di un blu così intenso che quando un piccione lo sorvolò gli se ne tinse il petto. Il luogo era accogliente, ma un po’ troppo affollato di elementi che non avrei saputo come inserire nella vicenda.

La terza panchina era in realtà un gruppo di nove panchine circolari che facevano ognuna un anello alla base di un pino. Si trovavano nella parte centrale del lato nord del laghetto, l’invaso artificiale che corre all’incirca parallelamente a Viale Gozzadini, e separa la striscia di parco più esposta al traffico e alla vita cittadina dalla parte più grande, dove le macchine non si vedono e non si sentono i motori. In quel punto la vegetazione delle sponde si apre per lasciar posto a una elegante “scogliera in selenite” che serve a dar agio ai visitatori di affacciarsi ad ammirare le cinque fontane lacustri e le centinaia di tartarughe che stazionano appena sotto la superficie dell’acqua.

Fu per istinto, non per scelta consapevole, che scelsi come teatro dell’azione quest’ultimo scenario. Mi sedetti sulla panchina più vicina al laghetto (era il mio piano fin dall’inizio: scrivere un racconto che si svolgesse nel punto esatto in cui ero seduto a scrivere), tirai fuori il quaderno e la penna, e mi misi a scrivere.

Gregorio Magini

Continua tra una settimana…

Stasera live con Peppe Fiore e Vanni Santoni

28 gennaio 2010

Ass. Cul. Simposio

Via dei Latini 11/ang. via Ernici

San Lorenzo – Roma

Ospiti Peppe Fiore e Vanni Santoni

Face to Face! – Percival Everett (2)

Inseguire Everett. Questo ormai faccio da un po’ di tempo, da quando mi sono appassionato a questo straordinario scrittore americano pubblicato in Italia dalla Nutrimenti. Nel 2009 è arrivato negli Stati Uniti al suo venticinquesimo libro. Da noi è al suo quarto romanzo. Musicista, pittore, insegnante, ha tutte le caratteristiche di un uomo difficile da digerire eppure incontrarlo smentisce ogni presentimento negativo. Unico ostacolo, per ora insormontabile, le sue lapidarie risposte. Deserto americano è il nuovo lavoro per l’Italia.

Come nasce Deserto americano?

Non lo so, davvero. Per me è sempre difficile dire cosa ha scatenato un romanzo. I romanzi vengono fuori e basta. Qui per la verità ci sono di mezzo quei continui mal di testa che spesso mi rovinano le giornate. Sono così fastidiosi che ogni volta vorrei tagliarmi la testa. Non è un’idea così peregrina, in fondo.

Da quali stimoli interni o esterni ha preso spunto per il personaggio di Ted Everett?

Ted è di sicuro una miscellanea di persone che ho conosciuto e con cui ho avuto a che fare. Tra queste ci sono di mezzo anch’io. Per quanto ci provi non riesco ad alienarmi dai miei personaggi.

Lei ha un rapporto molto particolare nei suoi romanzi con gli animali, che tornano sempre anche solo come comparse a cosa è dovuto?

Ho imparato moltissimo dagli animali in quattordici anni di addestramento di cavalli, soprattutto che un cavallo non mi ha mai tradito oppure che un cane non mi ha mai mentito, al massimo qualche cornacchia mi ha rubato qualcosa.

Un romanzo diverso questo. Anche nella forma narrativa. Una volta messo il punto cosa ha fatto?

Sono sempre i romanzi a dettare e a imporre la forma. In più, io sono uno che si annoia facilmente. E proprio per questo lavoro molto sulla struttura e la forma in modo che ne venga fuori qualcosa di divertente per me che sto scrivendo. La forma è il modo più profondo per indagare la realtà.

In Glifo c’era il gioco letterario, in Ferito un linguaggio lirico- paesaggistico e ora qualcosa di più “pop” in un certo senso. Cos’è lo stile per lei?

Uno strumento al servizio di ciascun libro, a disposizione di ciascuna storia.

Cos’è la metafora?

Evito di cadere nel giogo della metafora perché so che mi fermerei a rielaborarla all’infinito, mentre invece tutta la mia propensione è verso la storia e la sua vita. Io creo delle storie e non veicolo messaggi personali in queste. La mia attenzione è tutta rivolta sul processo di creazione.

Morire e resuscitare, due verbi che si avvicinano più facilmente a Cristo. Lei è religioso? Crede nella resurrezione?

Non sono religioso. Per niente. Non lo sono mai stato e non lo sarò mai. Però morirei sarei disposto a bruciare sul rogo sapendo che il papa sull’aereo sta leggendo il mio romanzo

Essere morto e comunque vivere, come nel suo romanzo non è simile ad essere un fantasma? L’uomo secondo lei accetterebbe una condizione di questo tipo?

No, Ted non è un fantasma. Ted è vivo e morto. E da morto più vivo di quando era vivo. I lettori poi si faranno un’idea tutta loro sul suo stato. Per qualcuno sarà un morto vivente, per altri un fantasma per altri ancora semplicemente un uomo che non sa più se vuole essere vivo o morto.

Come definisce Ted? E cosa c’è di lei?

Direi che Ted è al 13 % Percival Everett. Il resto della composizione non è facile da analizzare. C’è un po’ di tutto, compresi alcuni scheletri nell’armadio.

Il protagonista nella prime pagine cerca la morte per cancellare le sue debolezze umane. La morte davvero cancella i debiti con la vita?

La morte cancella qualunque cosa ma non conferisce l’assoluzione. Direi che alla fine i conti non tornano.

Perché il cambio del titolo da Making Jesus a Deserto americano? Cosa ha pensato quando le è stato proposto?

Il mio editore americano è stato un codardo. All’inizio ho pensato Fuck You! E ho cercato di averla vinta. La seconda fase invece è stata più riflessiva e ragionandoci bene, ma da solo, ho creduto che il titolo avrebbe posto l’attenzione soltanto su un aspetto del romanzo.

Un aspetto interessante (e oramai anche troppo ovvio visto la nostra società) è l’accanimento mediatico: si può avere l’esclusiva sulla morte, sulla vita e lei pensa anche sulla risurrezione?

Sicuramente. È il loro mestiere. E forse siamo proprio noi a volere che sia così, ad agognare un tale grado di penetrazione nelle nostre vite. Un sistema di informazione di tale natura implica un analogo e compiacente sistema di ricezione.

Farebbero un reality per uno come Ted?

Strano che non ci abbiano già pensato. Che tristezza…

Cos’è per lei la privacy?

A questa domanda preferisco non rispondere.

Cos’è la normalità per lei?

Tutto.

Quanto è importante l’ironia nella sua vita? Che ruolo svolge?

Se c’è ironia in quello che dico o scrivo non me ne accorgo neppure. Senz’altro mi piacciono coloro che non si prendono troppo sul serio quando scrivono.

Se perdesse la testa e se la ritrovasse ricucita al suo funerale, quale sarebbe la prima cosa a cui penserebbe?

Morirei per la paura.

La morte fa ancora paura?

Veramente?!

Chi è il suo personaggio tipo?

Direi grasso, belloccio, sempre indaffarato e attratto dal gentil sesso. Oppure magrolino, ma sempre belloccio. Non so perché, è più forte di me.

Cosa legge?

Storia, filosofia, matematica e tutta la narrativa dei miei studenti, talmente tanta che evito di leggere quella contemporanea.

Come è stato il suo tour in Italia. Che rapporto ha con la nostra gente?

Voi italiani siete così vivi e pieni di energia. Siete animati da una curiosità sorprendente, genuina. Rimango stupefatto dalla vostra voglia di approfondire, sapere sempre di più e di immaginare nuovi sviluppi ed evoluzioni per qualsiasi cosa.

Perché dà risposte così brevi alle interviste?

Perché è così (ride).

Alex Pietrogiacomi

Dentro Marylin

Ferma l’auto. La strada prosegue con una curva larga.

Le dice di scendere. Parla molto lentamente, impastando ogni singola lettera di quella frase con la saliva. Sa che quando lei avrà messo i piedi oltre il bordo metallico dell’auto e il suo corpo sarà definitivamente fuori dall’abitacolo, lui l’avrà perduta.

L’ha già perduta, in realtà. Si sono persi.

Pensa: non mi hai mai avuto. Gli dà forza saperlo. Ma adesso vorrebbe solo gridare e chiudere gli occhi.

Gira la testa verso la pineta e resta a guardare in quella direzione. Vuole che lei capisca che è lì che le sta indicando. Che non l’ha portata qui, come le avevo detto, per mostrarle quel posto. L’ha portata qui per allontanarla dalla sua vita. Con uno strappo. Come una pianta che venga scardinata dal terreno.

“Ci fermiamo?”

“Si.”

“Io lo so a cosa stai pensando Luca.”

“Davvero? Beh, è tutto così inutile.”

“Si. Si lo è, e non possiamo farci nulla.”

E invece è lui a scendere. Apre lo sportello, si tira fuori dall’auto appoggiando le mani al tettuccio, l’auto reagisce abbassandosi di un centimetro. Appena fuori butta le spalle all’indietro e respira.

“E’ qui che volevi portarmi Luca?”

“E’ qui.”

“Un anno di matrimonio, oggi, e…”

Lascia la frase in sospeso, rabbrividisce. Non passano auto, non ci sono suoni. Solo loro due, e lui che comincia a tremare. Ma non è il freddo. Sta pensando: se avessi più tempo. E più calma. Ma non sa come fare, non ha mai saputo darsi tregua, può solo camminare a passi lenti verso la pineta.

L’auto è rimasta aperta, riesce a distinguere la musica che diminuisce oltre le sue spalle, un vecchio pezzo degli Afterhours

Cinque pianeti, tutti nel tuo segno

Il fallimento è un grembo e io ti attendo

Entra nell’intrico di alberi e piante. Come essere inghiottiti. Sotto i piedi la terra scricchiola, ha strani suoni, sembrano rantoli o piccole urla di protesta; sente cose che si spezzano, pietre minuscole, rami secchi. E più avanza, più il sole gli sfarfalla negli occhi giocando tra i rami.

La luce è netta e glaciale.

È un trenta dicembre pulito, il vento di levante ha pulito l’aria. Nei punti in cui il sole gli cade sulla fronte è così caldo, simile ad un massaggio. Gli piace, si ferma e allarga le braccia e aspira l’odore di resina che c’è nell’aria.

Lei è qualche metro più dietro, può sentire la sua presenza.

“Che facciamo?” lui le dice

“Dimmelo tu. Tu sei voluto venire qui.”

“Se avessimo più tempo…” Prova. Poi non sa come proseguire.

“Dillo adesso, Luca. Dillo subito!”

E invece si mette a correre. All’improvviso. Abbassa le mani, ingoia dell’aria e parte. I rumori di prima accelerano nella sua testa, centinaia di sassi e di rami che vengono calpestati e spezzati, ma lui corre, non sa nemmeno dove, sta semplicemente puntando l’orizzonte dove il sole sembra più netto e gli arriva verticale in faccia.

E anche lei corre, ne sente il respiro affannato, il rumore dei suoi passi che ritrovano i frammenti di terra che lui ha già infranto.

E mentre corre pensa: è come se stessimo scopando questo bosco, siamo entrati dentro, ci muoviamo all’unisono e la terra reagisce con isteria, allarga i suoi sentieri per accoglierci e farci sprofondare ancora di più.

E alla fine della corsa, dove il sentiero all’improvviso si interrompe, un piccolo muro di tufo gli sbarra la strada. Ci arriva davanti e si ferma. Ha il respiro corto. Sbuffa aria calda dalle narici. Lei lo raggiunge.

“Dimmi perché?…” Lui le dice

“Io non lo so, non lo so perché. Rassegnati, smettiamola ti prego.”

“Ti faccio del male?”

“Ne fai a te stesso.”

“Oh non pensare. Sei cara, ma non pensare a me. Non l’hai mai fatto, non lo sai fare.”

Mette le mani nelle fessure del muro e si solleva. Vuole scavalcarlo.

“Non è così – le dice, ansimando – che dev’essere. Ci voleva del silenzio. Lo capisci? Perché mi hai portato qui?”

“Sei matto?! Tu ci hai portato qui.”

“No! No! Tu sai…non fare finte con me. Non fingere. Io non parlo di questo luogo. Io parlo del silenzio.”

“Vuoi che non parliamo?”

“Voglio che le mie parole non mi si ritorcano contro. Sempre. È come un boomerang che non so controllare.”

“Io non c’entro.”

“Tu sei il boomerang.”

Si ferma quando è in cima al muretto. Le tende la mano.

“Tu sei il boomerang Laura – ripete – è tutto per te. È sempre stato così.”

Lei sale, lo raggiunge lassù. E guardano. La pineta finisce dove ha inizio una spiaggia nera, di sabbia lavica. E il mare, sullo sfondo, è una distesa argentata.

“Tutto.” Lui ripete. Di nuovo si aggrappa alla sua lentezza. “Tutto. Sei tutto.”

Si butta. Sono nemmeno due metri. È alto. Ma lo fa. C’è molta sabbia sotto, è sicuro che l’impatto sarà indolore. Invece i piedi reagiscono con uno slancio all’interno e il dolore si irradia in ogni nervo della gamba destra.

Urla.

“Ti sei fatto male?” lei lo guarda restando in bilico sulla cima del muretto. Il sole le scende nei capelli, ma è quel colore tonico degli scogli e della sabbia a catturarla. Non può smettere di guardare.

“Dovevo dimenticarti subito.” Lui le dice. Si rotola nella sabbia. Il cappotto e i capelli si imbevono di quel nero, la polvere resta sul viso, vagamente appiccicosa, come miele.

Lei scende lentamente.

“Fallo” gli dice. “Dimenticami.”

Lui continua a rotolarsi nella sabbia.

Luigi Pingitore

Identico a mio figlio (morto)

Sono in fila alla cassa del supermercato. Davanti a me c’è una signora abbastanza anziana e abbastanza grassa. La signora mi sente arrivare, si volta. Mi guarda. Sgrana gli occhi. Non smette di guardarmi. Io accenno un sorriso, Salve. Lei mi guarda. Non smette di guardarmi. La signora grassa inizia a trasferire il contenuto del suo carrello sul nastro trasportatore, ma a ogni nuovo prodotto si volta di nuovo a guardarmi. Zucchine. Mi guarda. Petto di pollo. Mi guarda. Detersivo. Mi guarda. Io non so più dove guardare. Allora la signora parla.

Scusa se ti fisso così, mi dice. E’ che sei identico a mio figlio. Identico a mio figlio com’era vent’anni fa, quando è morto. Ha avuto un incidente in moto, un’auto nell’altra corsia ha fatto un sorpasso e bum, frontale. Sei identico a lui. Scusa se ti fisso così, dice la signora. Io non so dove guardare, e non so che cosa dire. Allora la signora parla, ancora: Ho una sua foto nel portafoglio, aspetta, te la faccio vedere. La signora fruga nella borsa, tira fuori la foto e me la mostra. Il ragazzo nella foto è grasso, biondo, con gli occhi chiari e le guance rosse. Io sono magro, moro, con gli occhi scuri. Non ci somigliamo nemmeno al buio. La signora ha gli occhi lucidi: questo è il mio Filippo, dice. Io capisco di avere a che fare con una squilibrata, ma cerco di non darlo a vedere. Continuo a stare zitto, e a non sapere dove guardare.

Allora la signora parla, ancora: Posso chiederti un favore? Lo so, ti sembrerà una cosa stupida, però, ecco, quando uscirò dal supermercato, ti dispiace dirmi “Ciao mamma”? Sono vent’anni che non me lo sento dire, e tu sei davvero uguale al mio Filippo. Va bene, le dico. Allora lei va verso l’uscita, la porta scorrevole si apre, lei si volta indietro e mi dice: Ciao, Filippo! Io cerco di non farmi tremare la voce, alzo una mano e dico: Ciao, mamma. La signora grassa fa un sorriso con dentro tutta la gratitudine di cui è capace, si volta ed esce. Io penso che il mondo è bello perché è pieno di vecchie psicopatiche, appoggio le mie tre birre sul nastro trasportatore e tiro fuori i cinque euro sfusi che ho in tasca.

La cassiera batte uno scontrino lungo venti centimetri e mi dice: Sono centotrentacinque euro e dodici centesimi. Per tre birre? No, dice la cassiera, ho fatto un conto unico con sua madre: quando è entrata mi ha detto che avrebbe pagato lei. Lei cioè io? Sì, tu. Ma quella non è mia madre! Ah, no? No. Ma non l’hai appena salutata dicendo “Ciao, mamma”? Sì, ma non è mia madre, l’ho salutata così perché me l’aveva chiesto… (Ridicolo, sono ridicolo. La cassiera non ha sentito la storia dell’incidente in moto e io non so da che parte farmi. Non so dove guardare. Sto zitto. Parla lei) E qui chi paga? (Fottuto, sono fottuto. Ho appena incontrato la miglior truffatrice di tutti i tempi e ci sono cascato come un cretino).

Senta, dico alla cassiera, quella non era mia madre. Mi ha fregato. Adesso io esco e la fermo, le lascio qua le birre e il portafogli, torno subito. Esco di corsa dal supermercato. La signora grassa sta caricando le due borse della spesa nel sedile posteriore della sua Punto blu. E’ girata di spalle e chinata, si vede solo il suo enorme culo. Allora io mi avvicino, e la prendo per il culo. Come ho preso per il culo voi. Non era vera questa storia. Quantomeno, non è una storia mia. Se indovini a chi l’ho rubata vinci un frigo a pedali.

Simone Rossi

Pranzo di famiglia alla domenica con debutto della fidanzata da 4 del figlio maschio

Nel silenzio raggelato del pranzo domenicale la madre afferma con sicurezza: «Le orge non sono come le fanno vedere nei film hard. Non lo sono».

Il nostro protagonista si strangola con l’arrosto di vitella. Apre e chiude la bocca un paio di volte. Cerca di protestare, debolmente: «Ma, mamma…», gli esce dalla bocca.

«E certo», ribadisce la progenitrice, mentre il sole invernale di Roma illumina la sala da pranzo, «le orge dei film sono fatte per essere mostrate a noi spettatori». Il cane, Carciofo, tende le orecchie, mentre un’ambulanza si trascina ululando per le deserte strade.

Il protagonista guarda il padre con l’idea malsana che egli possa tenere al decoro. Ma sa bene che la risposta è: per niente. L’uomo si alliscia i baffetti grigi, la forchetta con le patate ferma a mezza corsa. Sta pensando, il padre. Ai film porno, in primo luogo, all’arrosto di vitella un po’ secco, in secondo, e a cercare di ricordarsi il nome della fidanzata del figlio, in terzo e ultimo.

«E scusa», dice il maschio adulto che percepisce un reddito mensile di seimiladuecentotrenta euro, «mi sembra che sia così in effetti. Mi sembra che tu abbia ragione. Le orge vere sono un groviglio di corpi. Stai lì che sudi e succhi e spingi, ma non hai certo la visione d’insieme, come ci può essere guardando un film».

La fidanzata del protagonista non è bella. No, non è bella. La madre l’ha notato subito. E subito ha preso il figlio in disparte, quel figlio di venti/trenta anni che vede ogni tanto, che non è sicura per chi cazzo voti, e che anche adesso, di domenica, indossa la cravatta. L’aborto ci voleva, pensa sempre più spesso. Ha preso questo figlio in disparte, e gli ha detto una cosa tipo: «Sembra molto dolce, la tua amica». Al che il figlio di venti/trenta anni che non ha mai capito i genitori e la madre meno che mai, candidamente gli risponde: «È la mia fidanzata, mamma, non una semplice amica. E sì, è molto dolce. Sembra anche a te?». La madre lo guarda con quello sguardo che il figlio pensa “l’amore materno” ma che in realtà è più uno sguardo come a dire “ti devono aver scambiato nella culla con il mio vero figlio”.

La fidanzata dell’unico figlio maschio di questa coppia della Balduina che si trova a disagio nel proprio quartiere per via delle scritte fasciste tipo «W IL DUCE ONORE A GELLI» non è una bella ragazza. Non è bella e a onor del vero, in una scala di dolcezza che va da 1 a 10, con 1 tipo una professoressa di matematica e 10 il diabete, ecco questa ragazza è un 4. E questo numero 4 sta cercando di non sentire quello che i genitori del suo amore stanno dicendo. Perché lei un pranzo domenicale così ancora non l’aveva fatto in vita sua e nella pausa che segue la frase: «Stai lì che sudi e succhi e spingi, ma non hai certo la visione d’insieme, come ci può essere guardando un film», chiede timidamente il sale. Per le patate. E per l’arrosto di vitella. Un po’ secco, a dire il vero.

Il cane Carciofo si alza e si stiracchia, sbadiglia, si gratta dietro l’orecchio ripetutamente. Guarda il tavolo da pranzo dalla sua bassa posizione. Per la milionesima volta si chiede cosa stiano mangiando, visto che non riesce a vedere. Torna a sdraiarsi e si addormenta. Sogna e nel sogno c’è l’arrosto di vitella.

La mamma riprende dove si era interrotta. «Sì hai ragione, quando stai lì, spesso al buio, neanche lo vuoi sapere cosa sta succedendo, vuoi solo perderti nella carne che ti circonda». Una nuvola passa sul sole, il soggiorno si oscura, il figlio pensa che se sono molto ma molto fortunati è l’Armagheddon. La fidanzata da 4 pensa che quell’intera situazione deve essere uno scherzo (anche se poi, giorni dopo, ricorderà improvvisamente che il suo amore aveva detto, mentre posteggiava la Opel Corsa grigia quella domenica mattina, una cosa tipo: «Non farci caso, i miei possono essere un po’ eccentrici», e lei aveva pigramente pensato che la madre forse collezionava ninnoli e foto di gattini vestiti da pagliaccetti) e prega che qualcosa di terribile succeda per poterla sollevare dall’imbarazzo, prima che la madre o il padre chiedano.

Chiedano una cosa tipo: (il padre poggia la forchetta sul piatto e guarda il figlio, poi lei, poi ancora il figlio) «Voi ragazzi cosa ne pensate?».

Il figlio sospira e pensa che l’Armagheddon è lontano ma che forse Carciofo potrebbe stramazzare infartuato, tanto per alleviare la tensione. La ragazza da 4 abbassa lo sguardo e fissa con inquietante intensità quello che resta della vitella.

Poi il pranzo finisce, il padre decide di portare Carciofo a fare una passeggiata, la madre si affanna in cucina, il figlio e la sua fidanzata si stendono sul divano e guardano la televisione. Lui dice sottovoce una cosa tipo: «Sai, non si possono scegliere i propri genitori» con un sorriso che non lega molto con i suoi denti. E lei risponde una cosa a caso: «No, ma sono i tuoi genitori, e sicuramente ti vogliono bene. Si vede. E poi sono delle brave persone. Magari un po’ eccentriche».

La madre dopo aver fatto finta di rassettare ammucchiando piatti e bicchieri nel lavandino si accende una sigaretta. Guarda fuori dalla finestra della cucina, dove si vedono via della Balduina, palazzi su palazzi, marciapiedi, i tavolini del ristorante sotto casa e più giù, dove il sole sta scomparendo, piazzale degli Eroi. In strada vede passare il marito assieme al cane e pensa che li ama entrambi, loro.

Dario Morgante

* una prima versione di questo racconto è stata pubblicata sul numero 200 della rivista «Blue