Frammenti d’identità
febbraio 14, 2010 7 commenti
Cercava di fuggire da tutto, inutilmente. Correva scalzo cercando una via d’uscita, una fottutissima porta bianca da aprire, sfondare, da chiudere alle spalle per poi riprendere a volare. Non c’era nessuna porta, nessun nascondiglio, solo due pareti strette ed oleose, dritte, senza un inizio e una fine. Un’eterna strada ai confini di qualsiasi realtà.
Inerme davanti alla sua pazzia lasciò la fuga per accendersi una sigaretta e alzarsi dal divano. La puzza di caffè bruciato e di plastica fusa era diventata insostenibile. In cucina il metallo della macchinetta era diventato incandescente, il caffè era sparso sul gas e l’impugnatura era completamente squagliata. Una ragnatela informe. Appena si avvicinò, la macchinetta scoppiò sfigurandogli il viso. Cadde a terra urlando, come non faceva da tempo, nella sua apatica staticità.
Meglio l’inesistente porta bianca? L’attimo di quella che è comunemente detta lucidità – il contatto con la realtà più condivisa e considerata unica – l’ha definitivamente condannato alla convivenza di quel nuovo essere che non riusciva a riconoscere nello specchio. Dall’altra parte della porta ora c’era un nuovo individuo che cercava la stessa uscita per entrare, tornare indietro.
Quell’essere irriconoscibile che si affacciava allo specchio aveva trovato il passaggio per un brevissimo attimo. Era passato dall’altra parte e ora aveva perduto di nuovo la via. Di nuovo immerso in un rettilineo asettico e spersonalizzante. Di nuovo sul divano, con un’altra sigaretta, identica a quella di prima, ma dal sapore più amaro, le gambe allungate, attratte dal tavolino basso e colmo delle inutilità cresciute nell’ultimo mese, gli occhi rivolti verso il nulla, di fronte la tv accesa su un canale morto. Un continuo fruscio che accompagnava lo scorrere di minuti, ore, trasformandosi in una soffice nenia cullante. La ninna nanna della pazzia.
Lo stato semicatatonico portato a tempo da quel metronomo ipnotico fatto di frequenze lo riportò nel suo corridoio bianco. La corsa continuava estenuante. Le gocce di sudore scendevano dalla fronte sugli occhi annebbiando la vista già indebolita dall’unico colore presente, il bianco che creava un’illusione di fluidità.
Nessuna psicologia delle forme, ma dell’assenza di qualsiasi modello. Un mondo senza scelte, senza opportunità, se non quella di cercare inutilmente qualcosa di diverso, in cerca di quella macchia di differenza che a volte è dispregiata, cancellata, in nome dell’unica e giusta uniformità. Un a-modello in cui riconoscersi, un cerchio che ricopre un’area assente da riempire con alcun idea.
L’adrenalina statica non riusciva a smuoverlo. L’unico risultato era la mano tremante. La tensione si accumulava, lo scarico attraverso i piedi e il pavimento era minimo. I suoi occhi iniziarono ad irradiare energia. Un’energia luminosa che striò d’oro la lunga strada bianca, immettendo una nuova percezione, forse una via d’uscita. Dritto davanti a lui, più in la, verso la finestra aperta, verso il balcone scoperto, giù, dritto verso il marciapiede da poco asfaltato.
Che palle questa narrativa puntiforme e narcisistica! non se ne può più. Almeno fossero 300 pagine si potrebbe brindare alla resistenza, invece è il solito raccontino che ripiomba su se stesso prima ancora di partire. Peccato perché il Vergni è dotato di un certo controllo della scrittura, ma con quello che asserisce di aver letto mi aspetterei di più. C’è da dire, è questo il sospetto che mi viene, che l’apatia tanto letteraria del nostro altro non è che l’apatia dei giovani italiani che non sanno più inventare se stessi e che quindi sono persino peggio di quei rincoglioniti vecchioni politicanti che ci ritroviamo. Un piagnisteo, insomma, una tipica crisi adolescenziale di pseudo nichilismo (pseudo perché quello vero è cinico, mentre questo è narcisistico), denota una gran voglia di non impegnarsi e la (meschina) pretesa di riceve consenso senza minimamente esporsi al confronto sociale. L’assenza di qualsiasi modello sarebbe una gran liberazione, specie visti i modelli che circolano, sarebbe il momento di crearne di nuovi di modelli, invece pare un copia incolla di frasi a effetto, ma con poco di originale. Credo che vista la brevità del respiro il Vergni potrebbe tentare la sorte della poesia, ma dovrebbe prima intendersene, di metrica, di stilistica, di poesia nostrana, italiana, per capire come si scrive in italiano, visto che scrive in italiano, e poi dimenticare l’imparato e cercare, faticosamente (odiata parola per il nostro) di trovare una propria via. Non ci siamo.
Caro Leonardo, ti ringrazio per la critica e per il controllo della scrittura. Per quanto riguarda il nichilismo narcisistico me lo riconosco a pieno, perché ho l’idea del narcisismo creativo, dove non vedo e non c’è nulla, dove non sento nulla, creo. Creo in quel nulla per renderlo altro, mentre il nichilismo cinico lo vedo solo come una valvola di sfogo, troppo legata ad un semplice lamentarsi, è inutile distruggere e distruggersi per un punto di vista in realtà costrittivo (il cinismo, dovuto all’esperienza, che in un modo o in un altro è comandata gestita e influenzata dalle scelte). Trecento pagine così mi annoierebbero, e il brano in questione riporta all’inizio del nome “frammenti” appunto per la sua brevità e per una discontinuità più vicina al “frammentismo” italiano.
La poesia è la base da cui sono nato, che ho studiato affondo per arrivare poi a deframmentarla nella sperimentazione. Il racconto è statico, ma questa è la condizione del protagonista. Non c’è movimento perché lui è fermo su se stesso (altro elemento narcisistico che hai colto molto bene). Le critiche sono tutte ben accette, una sola cosa… io non metto in dubbio le tue parole assolutamente, non mettere le mie in dubbio, di certo non dico di aver letto cose che non ho letto.
Ogni tanto mi chiedo: quel che faccio
sarà mai da qualcuno letto un giorno?
perché, per quanto io dentro mi compiaccio
a combinar un verso ricco e adorno
benché di semplicità mascherato,
m’imbatto sempre nello scorno
di non esser letto punto ne parlato
persino nella cerchia degli amici
e neanche da questi biasimato.
Leo stai attento a quel che dici,
in verità uno te l’ha dato il consiglio
affinché tu abbia di tutti i benefici:
Ascolta me e senza battere ciglio
lascia perdere i versi antichi e strani
che è mai di te codesto arcano piglio?
Molla il freno, son morti gli occitani
il meglio tuo lo trovo se in clausura
non chiudi i desideri tuoi umani.
Ben dici tu, ma strana è la natura
e dei vivi la mente è complicata
non si ha certezza di gente futura.
Per nostra intelligenza limitata
non c’è cosa che basti a mala pena
che possa arte vera essere chiamata,
nulla sappiamo se di questa scena
che tanto il secol nostro s’apparecchia
qualcosa e cosa di cotanta piena
rimarrà; il postmoderno di oggi è vecchia
stantia poesia, se già ora che l’hai letta
la stecca ti rimbomba nell’orecchia.
qual’è il ver? la bellezza ov’è? la fretta
più che operare il male il ben ci toglie
nel tritacarne il nostro corpo getta.
Ma perché parlo delle cose spoglie
come poesia filosofia e utopia
se poi non c’è nessuno che raccoglie?
sono fuori dal mondo, è una mania
che qualcuno davvero possa amare
quei tre versi che spaccio per poesia!
finirò all’ospedale se di pensare
non la smetto, sapete cosa faccio?
faccio una doccia, mi devo calmare.
Eccomi qua: e che freddo, son di ghiaccio!
di che stavo parlando? ah, ricordo!
no, quando sono triste non mi piaccio,
ma dai pensieri non sono più lordo
ora, posso sentire un’altra volta
quello che pure troppo spesso scordo.
Certo, hai ragione quando dici: ascolta:
cosa ne fai di un pubblico tu? mica
scrivi per gli altri, è una cosa stolta
dimostra a te solo che la fatica
che fai non è per losca vanagloria,
ricorda che dell’arte la nemica
acerrima è la riscaldata storia
della sciolta espressione di se stessi
il desiderio impuro che altri boria
chiamerebbe, i concetti così espressi
sarebbero per gli altri affascinanti?
vuoi un pubblico e lo vuoi fatto di fessi?
dalle vostre parole interessanti
credo cosa non vana anzi opportuna
una cosa spiegare un poco avanti.
Le teorie tutte valgono ciascuna
in sé per ciò che alla fine apporta,
ma tra tutte la più vera è nessuna.
Nostro segreto sta in ciò che c’importa,
non v’è altro interesse che l’interesse
del piacer proprio e ciò che ad esso porta;
ma piacer più grande non si potesse
fuor che l’amare e l’esser riamato,
altro in vita natura non concesse.
E’ uno strumento il verso ricamato
per trovare del modo mio l’essenza
che fa ciascun degli uomini dotato
del desiderio di una causa senza
la quale, per sua natura limitata,
non avrebbe nessuna esistenza.
La parola non sempre sputtanata,
prima che il giorno perdesse il suo scopo
miseramente, in alto loco è stata.
La parola è cercare, questo è d’uopo,
l’onesto dire che si fa bagliore
e il silenzio che viene prima e dopo
perché di bussola sia al tuo valore.
Caro editor saccente
Ardito nei colori fortemente
Zolle di saggezza al sapore
Zucchero come spore
O lettere d’albergo ad ore
Scusami se clicco invio
Caro editore mio
Rivedo lettere desuete
Irriverenti quanto poco discrete
Vi saluto invano
Io scribacchino nano
ps: è un acrostico
scusa, caro Leonardo… Non sono riuscita a leggere il tuo commento-poesia… Troppo noioso e artefatto, forzato addirittura. La bellezza della poesia classica risiedeva nel fatto che, nonostante il rigore della metrica, era attenta anche a una certa naturalezza, che non permetteva al lettore di sbadigliare dopo il quarto verso. Non ci siamo. E ti parla una che di metrica e di stilistica se ne intende. (Rimario?Forse)
E poi, letteratura nostrana? sembra lo sponsor della pubblicità della pasta Barilla. La letteratura è universale. Va letto tutto, dal Polo Nord al Polo Sud. O forse dimentichi che i tempi del fascismo, in cui si promuoveva solo la “letteratura nostrana” (e ritorniamo alla pasta “balilla” in questo caso) sono passati. Tempo di chiusura letteraria.
Capisco dalle battute che sei un editore, parli in maniera negativa della letteratura contemporanea, quindi, volevo sapere tosto, chi pubblichi?
Inoltre, cito “specie visti i modelli che circolano, sarebbe il momento di crearne di nuovi di modelli, invece pare un copia incolla di frasi a effetto, ma con poco di originale”, tu non hai fatto un copia-incolla di Dante nei tuoi versi? Almeno quelli che son riuscita a leggere…
Le critiche fatte in questo modo, con “classico narcisismo” sono poco costruttive. Colloca Vergni nella sua contemporaneità e fai la critica su ciò che con va, inerente al suo tempo. Non portare indietro il presente.
Dott.ssa Mariella Soldo (dott.ssa è d’uopo)
Mi sento chiamata in causa, se non altro per aver curato la prefazione dell’ultima raccolta di poesie di Daniele, del quale ho riconosciuto il balzo sperimentale che non ricalca affatto traiettorie passate
“le contaminazioni letterarie e artistiche di vario genere, le influenze dell’avant-pop, del nichilismo e dell’esistenzialismo sono percepibili soltanto di striscio perchè l’ambizione é trascendere i confini di generi e di stili in cui si suddivide l’arte, quasi attingendo al principio motore sostenuto dal New Weird” (perdonami Leonardo l’autocitazione)… se vuoi leggere il resto di questa mia analisi, dovrai acquistare DI-VERSO IN-VERSO… troverai tre pagine di analisi sullo sperimentale affrontato dal Vergni.
Per il resto ho letto attentamente la tua composizione e quasi mi sembrava di ascoltare una di quelle canzoni stridenti dove il testo non riesce a sincronizzarsi con la musica, perchè si sono scopiazzate strofe a destra e manca; composizioni dove i ritorni a capo sono necessari a riportar musicalità dove non esiste, con il rischio di spezzarne il senso, se un senso in tutto questo c’è! Così mi trovo d’accordo con quanto sostenuto dalla scrittrice Mariella Soldo di quanto, la tua, sia pedissequa riproduzione di scritti classici di ben altra portata (se non altro per il momento storico in cui vanno considerati), sottolineando che pedissequa sta per “che segue a piedi”(ma questi dettagli ti saranno noti visto il tuo amore per le origini)… e aggiungo io immeritevole di salire in carrozza di colui di cui vuol essere seguace. Chiudo a tema con un « Imitare non è arte perché se così fosse ci sarebbe arte anche nella scimmia e nel pappagallo. L’arte sta nel deformare. » (Al mio pubblico, scritti postumi, 1937)Ettore Petrolini… con quest’affermazione abbraccio sia te, nella tua imitazione di altra scrittura (o forse dovrei dire di altri), che Daniele che è un deformatore sperimentale… destinato alla scrittura “altra”. In chiusura ho la stessa curiosità di Mariella: in qualità di editore per pubblicare scritti, che non siano i tuoi, come ti muovi? vai forse a riesumar cadaveri in quel di Firenze, Padova o Ravenna?
Beh, sul fatto che io sia inattuale mi sta bene, e potrebbe anche darsi che voglia portare indietro il presente, perché no? Vergni non mi piace come scrive, suona falso, io invece non sono un poeta e in effetti ho fatto solo un po’ di endecasillabi imitando, questo e vero, non solo Dante, ma molti altri, da Leopardi a Carducci fino ai moderni come Valduga, qui:
sono fuori dal mondo, è una mania
che qualcuno davvero possa amare
quei tre versi che spaccio per poesia!
finirò all’ospedale se di pensare
non la smetto, sapete cosa faccio?
faccio una doccia, mi devo calmare.
che però la Valduga non ha mai scritto questi versi, imitare quindi, deformare, se vi piace, ma non è copia & incolla. Ma quello che conta è che io non mi sento proprio poeta e non c’ho queste ambizioni.
Per il resto, va da sé che faccio l’editore come posso, quando arriva un testo lo leggiamo tutti in redazione e raccogliamo i pareri e quello che ci piace lo si pubblica. Ma è un po’ che non ci arriva niente di convincente. L’ultimo poeta, questo davvero bravo, è stato Massimiliano Chiamenti che abbiamo subito pubblicato – per poi scoprire che stava uscendo con un altro editore (stesso testo) e quindi l’abbiamo presa in quel posto. Rimane comunque un bravo poeta, non c’è dubbio. Vi lascio una sua poesia, anzi, ve la dedico:
FILOSOFIA PER TROIETTE
è così
tutto finisce
e da un momento all’altro
è come se niente fosse accaduto
tutto scorre
e noi uomini pure
composti al 90% di fluida acqua
omnes velut aqua dilabimur
sed sic et simpliciter il dio cazzo apotropaico vivificante
si reincarna di continuo
molti sono i giovinetti
in cui la veneranda entità si diffrange
ma unico il loro archetipo
è il minareto puntuto del culto
il fallo lapideo nella necropoli etrusca
i carmine priapeia
il sangue versato dal pantocrator signor minchia