Ero ina, iccina icciò

Poi potremmo pure giustificarla col fatto che ero ina ina iccina icciò: i sassi non si tirano a nessuno che Gesù piange, e questo lo sapevo bene, ma non ho resistito, su quella faccia là mica potevo fissarmici troppo, antipatica com’era. Tutti tiravano uova e, davvero, mi sembrava fosse un uovo. Invece era un sasso.

L’ho colpito sul ginocchio. L’unica. Gli altri dàgli con le uova, e fierosguardo le schivava tutte. Il sasso, che sembrava un uovo ma era un sasso: quello no.

Sono stata, per una striscetta di pomeriggio, l’eroina di Scortichino di Bondeno tutta, capite?, l’eroina, io che ero ina ina iccina icciò.

Sugli spalti cantavano Schiatta, schiatta Moreno sull’aria di Baila, quella canzone di Zucchero che però, a cambiargli le parole, tutto è tranne che dolce.

Poi m’hanno raccontato che l’avevano inventata i Gem Boy, quella strofa, i Gem Boy sono di Bologna e son pure molto simpatici. Succede quasi a tutti, in Emilia Romagna. D’esser supersimpa, intendo.

Da uno a cento? Cento.

Volendo funziona così: ti chiami Ivano Manservizi e sei un gran burlone. Organizzi il Carnevale di Cento, in provincia di Ferrara, ch’è un Carnevale storico e va che è una bellezza fin dal milleseicento, lo racconti ogni anno, c’è pure un quadro d’un pittore centese che ne raffigura certe scene, quel pittore là lo chiamavano Guercino, fa ridere, no, un pittore guercino.

E’ il duemilatre, io ho solo undici anni e niente: invitano questo ad arbitrare una finale di calcio a sette a Scortichino di Bondeno. L’effetto comico è assicurato, dice il Manservizi, che pure conosce come le sue tasche (capienti) cosa significhi portare questo in Italia. La volta prima gl’hanno tirato le monetine, come a Craxi: stavolta può starci che lo scòrtichino, scorticato a Scortichino, tutto sommato un buon epilogo, poetico quanto basta.

Questo è Byron Moreno, è sulla bocca di tutti e lambisce pure le orecchie mie, anche se a undici anni non si capisce molto, del mondo, specie se il mondo è quello fatto di cuoio bianco e nero, specie se hai undici anni di femminitudine alle spalle.

Byron Moreno, che nonostante il nome è tutt’altro che un lord, lo chiamano pure fierosguardo. Se nel duemiladue eri tra quelli che alle due del pomeriggio si mettevano a guardare le partite, probabile che te lo ricordi: c’era l’Italia contro la Corea del Sud, un’altra Corea, si diceva, cancelliamo i concerti di Chick Corea, proponevano alcunaltri, era tutto un dirsi Pak Doo Ik e compagnia bella.

Italia-Corea l’ha vinta la Corea, e fin qua nulla di opinabile, dopotutto il pallone è rotondo, l’imprevedibilità del giuoco del calcio, Davide che sconfigge Golia, ci sono otto chilogrammi di impianti metaforici bell’e pronti, al reparto latticini.

Però Italia-Corea l’ha vinta la Corea perché Byron Moreno ha arbitrato maluccio, occhei, decisamente male, occhei, proprio col culo: ha annullato un goal a Damiano Tommasi ch’era regolare, ha espulso Totti, a Roma Moreno potrebbe mica tornarci uscendone vivo.

Infatti in Italia poi ci viene pure, ma a Milano, ospite di Stupido Hotel, un programma che a scorgerne gli interpreti, da Sergio Vastano a Massimo Boldi a Fanny Cadeo passando per Carmen Russo ti vien da chiederti chi fosse la governante, chi il maitre e chi il portiere. L’arbitro, di sicuro, era Byron Moreno.

Fare l’arbitro è una ròba complicata, mica dico di no. Ci vuole estremo equilibrio, correttezza, obiettività. Quantomeno bisogna aver chiaro il concetto di libero arbitraggio, e di arbitraggio libero. Da pressioni, s’intende.

Il miglior arbitro ch’abbiamo avuto mai, in Italia, ci si chiamava pure di nome, Concetto.

Concetto Lo Bello era così salomonico, così al centro che pure quando si buttò in politica scelse la Democrazia Cristiana, per dire.

Byron Moreno ha provato a candidarsi pure lui. A Quito. Voleva fare il sindaco.

Una volta c’era Barcelona (quello di Guayaquil, badate bene) contro l’LDU Quito. L’LDU, che è la squadra universitaria dell’ateneo di Quito, al novantesimo è sotto di tre reti a due. Byron decide di applicare con una buona dose di libero arbitrio la regola del recupero. Concede sei minuti. Si gioca poi per tredici lunghi giri di lancetta, ed il recupero, ovvia misinterpretazione, avviene sul serio. Dal tre a due si passa ad un tre a quattro. Vince Quito, vincerò a Quito, pensa Moreno.

Gl’elettori mica son cretini, nelle altre parti del mondo. In Italia ognuno tiri le proprie conclusioni, ma in Ecuador, se sei un pagliaccio, pensaté, in Ecuador, se ne accorgono.

Moreno non diventa sindaco di una cippa e la federazione lo radia dall’ordine degli arbitri. Anzi, no. Decide prima lui di ritirarsi.

Lo sapete come si dice, in ispagnuolo, abbandonare, ritirarsi, smettere?

Quitar.

Sembra uno scherzo, uno di Carnevale, non è vero?

Fa meno ridere l’ultima, di notizia su Byron Moreno.

Dopo aver rischiato l’arresto per abuso di minori, sfracellato la testa della madre con una bottigliata ed aver gonfiato la nipotina di anni otto, fierosguardo sembra essersela rovinata benbene, la vita, stavolta.

Sembra che se ne stesse all’aeroporto di Nuova York, al JFK, con quattro chili e mezzo di eroina indosso.

Penserete voi, che siete svezzati abbastanza, vabbè, gl’ovuli, la pancia, il rischio, l’overdose.

Macché.

Byron Moreno i quattro chili e mezzo d’eroina ce li aveva appiccicati tutt’intorno alle mutande. Col nastro adesivo.

Mostrava segni di evidente nervosismo, c’è scritto sul rapporto ufficiale, l’agente in servizio alla dogana lo controlla e tac, riscontra la presenza di oggetti solidi sullo stomaco del fermato, sulla schiena e su entrambe le gambe del soggetto.

E che soggetto.

Che se invece di colpirlo sul ginocchio l’avessi preso in testa, Byron, forse gl’avrei salvato la vita, anzichenò.

E sarei stata io, l’unica sua eroina.

Anche se ero ina ina, iccina icciò.

[l’azione è andata così: Liguori si smarca sulla fascia destra e scodella al centro un assist col contagiri che Gabrielli, in sforbiciata, trasforma magistralmente in marcatura. Se non fosse che l’arbitro fischia un inesistente fuorigioco, ammonendo per ben due volte, la prima per simulazione, la seconda per proteste, il baldo Gabrielli. Ah. L’arbitro, ça va sans dire, è Byron Moreno].

Fabrizio Gabrielli

Pietre

Il poliziotto guarda le carte che si allargano sulla scrivania e pensa che è veramente un lavoro del cazzo. Non capisce dove sia il problema. Non c’è nulla di strano. Rapina in gioielleria: chiedono di vedere degli anelli e poi mano alle armi. Tutto videoregistrato. Sacchetto dell’immondizia, due colpi in aria e via. Nessun ferito. Qual è il problema? Solito iter procedurale: domande a chi di solito acquista refurtiva, perquisizioni nei campi rom, ecc.

Riguarda il video: uno dei due rapinatori prende in mano un anello, lo guarda, lo volta, lo infila in tasca. Lo guarda: lo guarda bene.

Il poliziotto esce, cammina verso il bar. La gioielleria è a poche decine di metri. Ci passa davanti. Seduto per terra un mendicante. Gli butta un euro. Lui non lo vede neppure. Vede che allunga una mano dietro di sé. Raccoglie una pietra da terra. Il poliziotto tende i muscoli, pensa che voglia lanciarla contro di lui, ma il clochard, guardandosi intorno, avvicina la mano alle labbra, mette in bocca la pietra e la ingoia.

Il poliziotto corre verso di lui e lo afferra, temendo che muoia soffocato in pochi minuti, ma si accorge con sorpresa che il tipo sta bene, ha ingoiato la pietra molto naturalmente.

Gli parla:

Stai bene?

Certo. Perché?

Hai appena ingoiato una pietra. Le persone non lo fanno di solito, o se lo fanno rischiano di morire.

Non so, amico, a me le pietre piacciono, mangiarle mi fa sentire meglio. Non chiedermi perché, sono solo un mendicante.

Ma non sei mai andato in ospedale?

Una volta che mi ero tagliato, ma mi hanno mandato via, ché puzzavo troppo.

Il poliziotto concorda su questo aspetto, lentamente si alza per scostarsi. Gli chiede ancora se sta bene e quello conferma. Di nuovo.

Nei giorni seguenti, mentre sbriga la pratica per la rapina dal gioielliere, il poliziotto capita più volte su quella via, e rivede spesso il barbone. Ogni volta si ripete la stessa scena: cammina, oppure è seduto, raccoglie un sasso, a volte più grande, a volte piccolo, e lo ingoia, solo, senza nemmeno un sorso d’acqua.

Il poliziotto pensa che il tipo è partito di testa, e che al più presto lo ritroverà cadavere, uno non può andare avanti così per molto. Pensa che forse dovrebbe chiamare un’ambulanza e farlo ricoverare con un TSO. Decide che chiederà al suo superiore.

Il barbone tasta la pietra. Sente se è calda. A volte di più. Altre sono gelide, e allora le mette nelle mutande. Le pietre a volte sono rotte, e allora le deve lisciare. Per molto tempo le sfrega con le mani l’una contro l’altra, e infine non solo sono lisce ma cambiano anche colore. Luccicano. La luce che c’è imprigionata inizia ad uscire. Quelle sono le migliori, è in quel momento che lui le mangia. Sente la luce dentro di sé, e la luce lo guarisce. Il barbone riconosce tutte le pietre. Le vede, anche da lontano, e sente se hanno la luce. Vede il colore, sente il calore e il peso. Le pietre sono antiche quanto la terra. Le pietre sono oneste: non sanno che esisti, per loro stessa natura illuminano e guariscono.

Il poliziotto esce dal bar. È notte fonda. È ubriaco. Il barbone è lì, seduto. C’è qualcosa che non va. Due uomini sono in piedi davanti a lui, uno lo prende a calci.

Il poliziotto si gira e si incammina nella direzione opposta. Di fronte a lui un’auto dei Carabinieri. Vaffanculo, non può andarsene. Se quelli se ne accorgono ha finito di vivere tranquillo. Allora ritorna sui suoi passi, e vede che quelli continuano a menare il barbone. Gli girano i coglioni. Si avvicina.

Allora, avete finito di rompere?

Quelli si girano, hanno davvero due facce di merda, entrambi hanno le lame. Stavano torturando il barbone. Ma di che cazzo si fa la gente? Lo guardano storto e gli dicono:

Sparisci. Tu non hai visto niente e non hai problemi.

Il poliziotto risponde calmo che non vuole storie, che i Carabinieri si stanno avvicinando, che devono solo togliersi dalle palle e mollare il barbone, così nessuno si fa male. Quello sembra che non lo senta nemmeno, estrae un pistolone da film. Insieme al suo compare inizia a sparare verso il poliziotto e i due Carabinieri che sono ormai pochi metri alle sue spalle.

I due volano secchi, come rami spezzati. Il poliziotto si piscia addosso e urla come una scimmia. Spara tutti i colpi della sua pistola d’ordinanza. La vita genera casi, coincidenze fortunate: insomma, li secca. Entrambi.

Con i pantaloni sporchi di merda il poliziotto si avvicina. La gente si affaccia alle finestre. La sbronza gli è passata. Controlla che i morti siano tutti morti, compresi i Carabinieri. Chiama il commissariato e le ambulanze. Chiama anche sua moglie.

Poi cammina verso il barbone. Lo sente rantolare. Si abbassa verso di lui, vede sangue ovunque. Guarda meglio, e poi capisce. Lo hanno sventrato, ha lo stomaco aperto. È ancora vivo, recita strani versi e litanie. Cristo, povero vecchio. Il poliziotto guarda se può fare qualcosa, ma ne dubita. Poi vede che dentro la sacca dello stomaco ci sono le pietre. Le pietre che il vecchio continuava ad ingoiare erano lì, almeno in parte, dentro al suo stomaco. E lì, brillante come l’onestà, luminoso come la purezza, uno splendido diamante è in bella vista, tra le pietre di strada e i ciottoli. Il poliziotto guarda il barbone. Quello accenna un sorriso doloroso, quasi di scusa, e cerca di sussurrargli qualcosa che parla di cura e di onestà.

Il poliziotto non capisce, ma non importa. Il barbone muore davanti a lui. Pochi minuti prima delle ambulanze.

L’assicurazione del gioielliere ammise che in fondo era contenta.

Luca Giudici

***

E siamo alla notte in cui mi sono perso a Centocelle, da solo perché lei si era incazzata e normalmente poteva farmi da spalla e genere di conforto ma ora invece preferiva camminare avanti e indietro a vuoto come un trenino monovagone senza pilota, sputando bestemmie e improperi nella mia direzione e sottolineando le sue responsabilità e urlando me ne vado me ne vado me ne vado. Si sa bene che dopo tutti i primitivi, cabernet e brunelli disponibili – quando sei stanco e incazzato e le cose iniziano ad andare storte – l’ultima da fare è dividersi, anzi è il classico gradino che si rompe e ti fa rotolare per dieci metri di scale, tirandosi a catena una catastrofe da un nonnulla, ma fatto sta che convinto di parlare ormai con un’aliena, che tra l’altro aveva già preso per metà la via del mare, passai dall’impotente che cerchiamo una soluzione ti prego ti prego all’offeso che cazzo nessuno è perfetto e cosa vorrai mai da me per quattro stronzate che hai tu di più di me e quattro stronzate che hai tu di meno di me, e dopo aver provato a fermarla senza troppa convinzione rinunciai per fortuna ad azionare il freno a mano in modo brusco e le rivolsi un vaffanculo che tra l’altro non mi uscì granché bene nella tonalità, poco maschio. Nelle tre ore spese a vagare poi da solo come un disgraziato, per strade che alla luce del giorno avrei riconosciuto benissimo, con il cervello in moto perpetuo – mi sarei preso a cazzotti in testa per fermare quel microsolco (sei un peso per tutti, hai perso finalmente la bussola, sei solo e lo sarai sempre e altri fantastici successi di un’estate eterna) – e con la coincidenza di tre passanti stronzi ogni venti minuti che non solo non sapevano un cazzo ma facevano pure smorfiette da cittadini DOC alle prese con un tossico di fuori porta, mi è venuto inevitabilmente da pensare a quella canzone di Jim Carroll, un tossico vero fino a prova contraria, e in particolare a quei versi che dicono

Cause when the city drops into the night

Before the darkness there’s one moment of light

When everything seems clear

The other side, it seems so near

e mi sono sentito malissimo e tutto si è incupito fino allo zenith, perché mi sono reso conto con orrore che non voglio né vivere e né morire, e mi trovo costantemente in un vicolo cieco che a furia di accumulare confronti forzati ed orribili come questo prima o poi mi distruggerà inevitabilmente e del tutto. Non voglio vivere perché non ne sono capace: non voglio guidare l’auto, lavorare regolarmente, fare figli, avere una storia che sia diversa dalla mia consapevolezza orrenda dell’inutilità del nascere, horror vacui che non so più se sia possibile o meno soffocare ancora con l’edonismo (moriremo tutti soli, affogati nelle nostre alcoliche e spermatiche piscine romane). Non voglio morire perché so che è doloroso, ci sono andato vicino ventinove-trent’anni fa e sono certo, certissimo che per i primi e ultimi cinque minuti è la sensazione più orrenda e angosciante che si possa mai conoscere in assoluto. Me lo ricordo da quando un’altra buia notte, che chiude l’epoca felice i cui i pochi ricordi sono tutti di me che ciuccio latte e Plasmon da un biberon, seduto sulla cassapanca in legno del lettone dei miei (tivù – in bianco e nero! – sintonizzata su cartoni random), mi sveglio nello stesso lettone, circondato dagli stessi genitori, normalmente sinonimo di sonni tranquilli e senza incubi, e mi rendo perfettamente conto che sto soffocando. Sulle prime inizio a sgambettare, mettendomi le mani in gola per vedere che cosa non funziona, dopodiché, visto che va sempre peggio e ormai cuore orecchie bocca polmoni e naso sono un tutt’uno pulsante e bloccato, scrollo entrambi disperatamente ma non riesco a parlare emetto rantoli disarticolati e loro mi chiedono che cos’hai che cos’hai e scrollano via le coperte, e questo è tutto. Rotolando finisco con la testa a piedi del letto, con la faccia in giù, e il copriletto è

blu

non me lo scorderò mai

blu

ma sta diventando nero, perché io non ci vedo più e non ci sento più e non ci sono più.

Bella stronzata. Sono appena nato e sto già morendo, ma non come nei cartoni animati, sto morendo veramente. E mamma e papà probabilmente sono lì che si disperano, ma se non hanno capito cosa non va, o se pure l’hanno capito, non possono fare niente di niente di niente. Poi buio totale e un principio di relax non male.

Oggi so che soffrivo d’asma, allora il Ventolin mi sembrava un tubetto di un bel celeste che faceva un’arietta simpatica e fresca. Naturalmente non ho mai più sofferto d’asma da lì a pochissimo, quando mi si è spannata la vista e ho cominciato a vedere delle macchie blu oleose, quindi a respirare affannosamente, come un motore che si riprende a singhiozzi. La ragazza del piano di sotto, una studentessa di medicina allora poco più che maggiorenne, mi stava estraendo dal culo l’ago con cui mi aveva salvato quasi in extremis.

Sua madre, una signora morta poi di cancro nel 1988 o 1990, era in piedi sulla porta con un vassoio di caffè con cui cercava di placare gli animi.

Laringospasmo, tecnicamente si chiama così. Uccide e a volte rende scemi per mancanza prolungata di ossigeno al cervello (nel mio caso, figuratamente, entrambe?).

La mia prima infanzia si chiuse così, di botto, senza alcun preavviso. Il giorno dopo, al risveglio, ero in un mondo più giallo e difficile, fatto di amici che non ti vedono e di incubi senza prevenzione.

Simone Lucciola

Denari

Facciamo un gioco. Io dico testa e tu croce, io uso sempre e solo la testa, per una volta lasciami scegliere, fammi scegliere testa. E tu croce, sono io la tua croce, me lo hai detto tante volte, l’ultima è stata ieri davanti a tutti ed eri soddisfatto mentre ti usciva dalla tua bocca secca la parola croce, non come le altre volte in cui scherzavi e mi abbracciavi, dopo.
Hai detto croce come si fa il segno della croce, per supposta appartenenza alla fede, la nostra vacilla, noi ai miracoli crediamo mai e tu mi tratti come un oggetto di fede. Prendi la croce, io scelgo testa, e scelgo le picche e i bastoni, e tu cuori e fiori, facciamo così: partiamo oggi da questo muretto, proprio ora e andiamo uno a destra e uno a sinistra, dieci passi, poi ci giriamo e giochiamo a carte. Vinci tu, vince sempre la croce, la croce non la giri, sta sempre dritta e non arranca mai.

Facciamo un gioco. Io continuo a dire testa, mi gira la testa come gira alle ragazzine, ogni volta che ti vedo mi gira la testa almeno tre volte, non è mai un numero pari, è sempre un numero dispari che non si può sistemare, esce sempre un pezzo, è troppo sempre un numero, io sono sempre di troppo. Tu continua a dire croce, il gesto rassicurante e la parola giusta, gioca e vinci, non mi interessa, io continuo a dire testa e a staccarla dal corpo, ogni volta che posso. Mi fa male la testa ma poi guarisco, mi siedo piano, trabocco di mal di testa, quello che fa vomitare da quanto è forte e allora mi siedo piano, posso sedermi da sola, non sono la tua croce.

Resto qui, respiro profondo e la testa è vuota, come una liberazione, il fiato lungo riempie le tempie, le mani e le gambe, non sento più nemmeno il sangue. Si guarisce così dalla testa e dal gioco: vince i denari chi per primo ricomincia a respirare.

Elena Marinelli

Foto: Silvia Canini

Supposte

C’è la fila

di fronte alla mia porta.

Sono tutti lì

che mi consolano,

spronando l’idea

che vuole

assegnato all’impegno

qualsiasi risultato.

Ma io

lo so

che i miei ardori

la volontà,

le mie passioni,

valgono

quei pochi centesimi di rame

che quelli in coda

han generosamente

dato in elemosina.

Non avevo la mano tesa.

Tanto meno un volto supplicante.

Poco male.

Hanno gettato spiccioli

ai miei piedi,

tra la merda

e le cicche spente

aspettandosi gratitudine

e rispetto.

Io l’ho detto

mille volte e ancora

d’esser poco avvezzo

a frasi di circostanza

e a reverenze di forma.

Così hanno aperto una valigia

piena di occhiali

e si sono divertiti

a poggiarmeli uno a uno sul naso

enunciando, pignoli,

le qualità di ogni lente

o il pregio della montatura.

Non credevo d’apparire

indolente e arrogante

quando ho rifiutato quel dono

considerando sano

il mio occhio.

Allora hanno cercato rimedio

alla sindrome

che mi impediva

di riconoscere la malattia,

offrendo medicine

inutili come un voto alle elezioni.

Non pastiglie ma supposte

grandi come pugni.

C’è la fila

di fronte alla mia porta.

Sono tutti lì

che mi consolano,

spronando l’idea

che vuole

assegnato all’impegno

qualsiasi risultato.

Ma io

lo so

che i miei ardori

la volontà,

le mie passioni,

valgono

quei pochi centesimi di rame

che quelli in coda

han generosamente

dato in elemosina.

Non avevo la mano tesa.

Tanto meno un volto supplicante.

Poco male.

Hanno gettato spiccioli

ai miei piedi,

tra la merda

e le cicche spente

aspettandosi gratitudine

e rispetto.

Io l’ho detto

mille volte e ancora

d’esser poco avvezzo

a frasi di circostanza

e a reverenze di forma.

Così hanno aperto una valigia

piena di occhiali

e si sono divertiti

a poggiarmeli uno a uno sul naso

enunciando, pignoli,

le qualità di ogni lente

o il pregio della montatura.

Non credevo d’apparire

indolente e arrogante

quando ho rifiutato quel dono

considerando sano

il mio occhio.

Allora hanno cercato rimedio

alla sindrome

che mi impediva

di riconoscere la malattia,

offrendo medicine

inutili come un voto alle elezioni.

Non pastiglie ma supposte

grandi come pugni.

Luca Piccolino

Petrosino intervista Catalano

[Intervista di Alfonso Maria Petrosino a Guido Catalano uscita sul blog criticaletteraria.blogspot.com]

Alfonso Maria Petrosino: Dicono di te che fai cabaret e non poesia: dove inizia una e dove finisce l’altro?

Guido Catalano: Penso che le due cose si confondano. Le mie poesie, non tutte, ma molte, fanno ridere le persone. Ho lavorato in ambito cabarettistico, solo che le mie cose nel mondo zeligghiano non funzionano. Bisogna essere brevi e pensare all’uomo in canottiera con il telecomando in mano. Anche nei live. Io sono lungo. E poi ci vuole il tormentone. E io non ce l’ho. Oggi il cabaret è Zelig. E io non ci sto dentro.

Una cosa che mi disturba è quando i sedicenti poeti mi danno del cabarettista con l’intento di offendermi. Essi non sanno che fare cabaret è una delle cose più difficili al mondo. Ci vogliono le palle di ghisa. O di cemento armato.

AMP: Nella poesia bum bum bum cerchi l’unità di misura dell’amore. Ne hai trovata una per la poesia?

GC: Non credo. Le cose che scrivo sono in continuo mutamento. Se leggo le mie prime cose e le ultime mi rendo conto di questo mutamento. E ne sono contento. Ma forse non ho capito la domanda.

AMP: Sei in costante tour, tra presentazioni, poetry slam e Il grande fresco (“il varietà poetico-musicale più lungo del mondo”). Se non sei in giro sei sul palco, se non sei sul palco aggiorni il blog, se non aggiorni il blog sei in giro e così via. E poi ci sono le partecipazioni alle trasmissioni televisive (Zelig, Barbareschi Schiok): qual è il luogo ideale per la tua poesia?

GC: Mi piace avere delle persone davanti che ascoltino le mie poesie lette ad alta voce da me. Dunque il luogo ideale è il luogo dove delle persone possano stare comodamente sedute ed io davanti a loro, leggere e raccontare.

La televisione fa paura ma è un’esperienza di rara potenza.

La mia speranza è che le mie poesie vivano di vita propria a prescindere dal fatto che io le declami. È come avere dei piccoli figli che poi devono essere autonomi. Non è detto che succeda sempre.

AMP: Tra i tuoi primi tre libri, Motosega, Sono un poeta, cara e I cani hanno sempre ragione, e l’ultimo, La donna che si baciava con i lupi, che differenze ci sono? Sei cresciuto migliorato deteriorato interiorizzato?

GC: Come spiegavo nella domanda numero 2, le poesie mie sono cambiate a manetta. nei “Cani” erano brevi e tristissime. Io ai tempi ero tristissimo. Dunque c’è una coerenza. Poi si sono allungate. Poi si sono riaccorciate un po’. Poi si sono riallungate di brutto. Alcune sono diventate dei racconti. Solo che io dopo dieci anni non sono più in grado di non andare a capo. Anche adesso, mentre ti sto rispondendo per iscritto faccio una fatica boia a non andare a capo.

Negli anni ho cambiato molto e sono molto cambiato. Anche la tecnica di scrittura e i tempi. Una volta scrivevo di getto. Oggi impiego anche tre o quattro giorni a scrivere una poesia. La rivedo e ri-rivedo e la ri-ri-rivedo ancora. Una volta zac!

Oggi sono molto più di buon umore. Sto più attento al suono. Sto molto più attento perché so che la poesia che sto scrivendo la leggerò in pubblico. Deve suonare bene.

Non so se son migliorato, sinceramente.

Spero di sì sennò son cazzi.

AMP: Quali sono i tuoi modelli? In una poesia dichiari propositi di sodomia su Montale. Con chi altri fai all’amore?

GC: Ero giovane e inesperto. Erano i tempi dei cani che hanno sempre ragione e mi piaceva l’idea di sodomizzare Montale. Oggi so che Montale, con tutto che non amo la sua poesia, se fosse ancora vivo, mi si inculerebbe lui con le mani dietro e su un piede solo.

Detto questo, avrei piacere di avere una relazione intima con Jacques Prevert. Proprio baciarci con la lingua. Ma è morto.

Amo Woody Allen, Benito Jacovitti e il poeta credo argentino Martin Santiago, morto nella grande mareggiata di Sicilia mentre pescava con le bombe a mano.

AMP: Che rapporto c’è con la prosa di Maurizio Milani (nel tuo ultimo libro c’è un personaggio specializzato in resurrezione di cani, lui invece i cani di solito li pesa)? Altro punti in comune sono gli accrescitivi onomastici – il tuo Cocciantone, per esempio, e le apparizioni di personaggi reali come figuranti (penso a Sempre, che comincia “eravamo io / Ludovico Einaudi e Francesco Guccini” o Carogna contro scimmia vince carogna (“eravamo io, Noam Chomski e Gilles Deleuze”).

GC: Stimo il Milani. È uno della vecchia guardia. Quella del cabaret di Paolo Rossi, Cornacchione, Albanese e altri a scelta. Diverse persone, negli anni, mi hanno detto che ho qualcosa di milanesco. Soprattutto nel modo di esporre le cose. Non so, non sono mai stato un suo enorme fan. Però evidentemente, qualcosa c’è. Ma non voglio pensarci troppo che sennò mi viene l’ansia.

AMP: Dicci / dacci una tua poesia.

GC: Posso dirti che la prossima che sto scrivendo me l’ha ispirata il tuo amico Gaetano l’altra sera a Pavia.

Spesso mi capita questa cosa: sento una frase che mi piace intanto che chiacchiero con qualcuno e me la segno di nascosto e poi, se il giorno dopo mi piace ancora, la uso per una poesia. Tante poesie sono nate così. Soprattutto a livello di titoli.

Questa poesia che sto scrivendo parla di morte e del fatto che ho un idea chiara di dove voglio essere seppellito quando tirerò le cuoia, fra una novantina d’anni.

I gendarmi del buon Governo vecchio (parte in quarta e l’auto si spegne)

[continua da qui]

Gli stivali scuri e pesanti dei gendarmi sbattevano le piastrelle della cucina, voci ammassate e risate coatte e tronfie. Gesta di mobili gettati in terra senz’anima che trattavano con il pavimento.

Il cane della pistola che stringevo tra le mani, prese ad abbaiare.

«Zitto, accuccia, zitto», gli dicevo, ma nulla. Nel giro di sei secondi netti e sette secondi lordi tre gendarmi si fiondarono davanti ai miei occhi. Vestiti di nero e rosso, come le maglie del Milan ma più pesanti. Stivali scuri, manganelli blu e sirene sugli elmetti. Accese e roteanti luci blu elettrico. Sebbene i tre saranno stati alti due metri, ma in totale, quindi un settanta centimetri l’uno, mi presero e mi bloccarono da veri codardi: due mi pressarono le braccia mentre l’altro mi legò le caviglie impedendomi la fuga. Ed ora sono bel bello incaprettato, legato alla sedia di legno della mia cucina, come lo sbirro ne Le iene di Tarantino, ma senza sangue, e senza tanica di benzina, e poi lui era più muscoloso, ed aveva la camicia strappata, io no. Fatto è che da seduto avrei potuto guardarli fisso negli occhi, peccato che ero bendato.

«Allora hai nulla da dichiarare? Come mai avevi la porta chiusa a chiave? Cosa hai da nascondere?»

«Avete mai sentito parlare dei ladri?»

«Ti va di scherzare? I ladri sono stati debellati da oltre tre anni! Ci prendi in giro».

«Non leggo i giornali mi dispiace».

«E fai male, cazzone di un ebreo».

«Non sono ebreo. Ma cosa cercate? Io non ho fatto niente».

«Conosci una donna di nome Ernesta?»

Ho in mente Ernesta che munge il suo cavallo e si cosparge di latte il seno.

«No, non mi pare».

«Tu menti», dice una voce da sinistra, una voce che non avevo sentito prima di allora, una voce familiare però.

«Scusa ma tu sei mio padre?»

«Ma che cazzo dici? Parlaci di Ernesta cazzone di un ebreo o ti tagliamo i testicoli e teli mettiamo al posto degli occhi, lurida faccia di cazzo».

«Sentite: almeno levatemi la benda dagli occhi, ve lo chiedo come piacere personale, ho male al ginocchio, levatemi la benda».

Un silenzio imbarazzato di pochi secondi e poi: «Va bene, ma devi chiudere gli occhi, non devi vederci».

«E vabbè ma allora e tutto un cazzo! A parte il fatto che vi ho visto prima che mi bendavate, poi, cioè, che senso ha? Mica vado in giro a dire le cose in giro».

La voce familiare da sinistra aggiunge a mia difesa: «Ha ragione, ci ha già visti».

«Sì, ma non ci ha visti bene! Non farmi incazzare pure tu!»

«Ma sei sicuro che non sei mio padre?» chiedo curioso.

Un ceffone mi arriva in faccia con violenza incontinente.

«Sentite», dico loro «veniamoci incontro. Voi mi levate la benda e ve la mettete voi. Un po’ per uno insomma, già sto legato e poi mi fa male il ginocchio. Cosa volete che scappi con il ginocchio bendato?!»

La voce da sinistra familiare accenna un: «Si può fare, che ne dite voi?»

Sono sempre più convinto che si tratti di mio padre, se non è lui allora è mia madre travestita da mio padre. Del resto quando il cane della pistola prese ad abbaiare non è che sia riuscito a vedere nitidamente i volti dei tre, soprattutto di quello che stava sotto il tavolo, che saltava tentando di aprire il cassetto. Forse era lui, forse quell’uomo era mio padre, o mia madre.

Non vedevo i miei genitori da oltre dieci anni, dai tempi della democrazia fittizia del Dentone. Il Dentone aveva aiutato i miei genitori ad avere un posto di lavoro nelle sue reti televisive. Posto fisso valido sei mesi e rinnovabile con contratto a tempo determinato in assenza di bollini Tamoil. Mia madre era un cavo coassiale, mio padre una soubrette che declamava proverbi in rima prima delle previsioni del tempo. Ma si prevedevano tempi bui, quindi la popolazione impaurita acquistò in massa lampadine extra da posizionare in ogni angolo della casa. Angoli ottusi, angoli acuti, non c’era più nessuna differenza, anche se a spiegare le cose agli angoli ottusi ce ne volle! Ma alla fine ci arrivarono anche loro, ultimi ma arrivarono. Sfiniti e sudati ma arrivarono. Ma gli ultimi divennero i primi e quindi gli ottusi presero il potere, anche se solo per un breve lasso di tempo, sostituiti poi dagli acuti che presero il podere degli ottusi ed iniziarono a concimare cibi transgenici. Fragole che in realtà contenevano banane e viceversa, patate che in realtà erano chicchi di mais un po’ cresciuti. Robe così insomma.

I miei genitori si ritrovarono sul lastrico e una volta lì, dopo essersi salutati di nascosto da tutti, concordarono il piano per risalire la sorgente. Come delle trote che vanno controcorrente per poi essere afferrate da un orso affamato. Ed infatti, dieci anni fa mi arrivò la lettera del WWF che mi annunciava la tragica notizia: «Gentilissimo Andrea, con questa missiva le annunciamo la morte dei suoi genitori, mangiati da un orso nel mentre risalivano un fiume in piena nei pressi di Fregene. Sentite Condoglianze e quando lo sentirete ditegli che anche i suoi genitori hanno fatto la stessa fine, così risparmiamo un francobollo».

A quel punto richiusi la lettera, piansi lacrime sponsorizzate dalla Benetton e mi feci una pennichella di sei ore.

Una volta sveglio composi il numero e chiamai il mio vecchio amico Condoglianze Luigi.

«Pronto Luigi, come stai? Ti disturbo?»

«Ciao, beh veramente stavo iniziando un modellino, ho montato oggi i primi pezzi, ma ci vorranno anni, poi te lo farò vedere, sarà un gran bel cingolato. Dimmi tutto».

CONTINUA…

Andrea Coffami feat. Angelo Zabaglio