L’inutilità del genio post-moderno /1

Si è veri soltanto nella misura in cui

non si è ingombrati da nessun talento.

Squartamento, E.M.Cioran

 

Il talento fa quello che vuole,

il genio fa quello che può.

Autoritratto, Carmelo Bene

 

Tre domande inutili che non c’era bisogno di porre

È sempre difficile scrivere o parlare di una storia di cui si è pure protagonisti, ammesso che uno scrittore riesca a far dell’altro.

Mi trovo quindi in difficoltà dovendo parlare di genio, ma soprattutto dello scrivere storie. Ci converrà affrontare innanzitutto una domanda – o, per meglio dire, una serie di domande su cosa abbiamo intorno da un punto di vista narrativo e poetico in questo periodo della nostra evoluzione.

Insomma, che letteratura esiste oggi?

La domanda è, ovviamente, capziosa retorica e arbitraria; questo perché si potrebbe facilmente obiettare che non esistono compartimenti stagni in queste cose, ma solo un unico lungo corridoio che si snoda facendo benissimo a meno di definizioni ed etichette, oppure che io come chiunque altro non ho la risposta alla domanda che ho appena posto e che tartassa tantissimi come me.

Obiezioni perfettamente legittime se solo non fossero del tutto fuori luogo vista la loro ingenuità, perché è ovvio che la domanda è capziosa retorica e arbitraria, e farlo notare è da idioti pedanti. Il punto è che ci serve un pretesto. Come in ogni narrazione che si rispetti.

Eccoci quindi a dare una risposta a una domanda che praticamente nessuno ha posto: la letteratura di oggi è, volente o nolente, post-moderna – nessuna novità, quindi, sotto il sole. Il post-moderno (che è strutturalista quasi per definizione, o nel linguaggio o nel contenuto, visto che è privo – a differenza degli stili e dei modi “tradizionali” – di unità spazio-temporali ben definite) ci sta lentamente riconducendo a una letteratura più di confini che di confine. Rizomatica. Dove la ricerca di una struttura sarà più importante della ricerca forzata del colpo di scena a ogni costo.

Ma queste sono velleità. Ritorniamo al punto della faccenda: la letteratura che si fa oggi subisce la spinta e la fascinazione del post-moderno. Per questa ragione, anche io, per esempio, volente o nolente, produco letteratura di tal fatta (seppur blandamente).

Cioè produco “scoregge letterarie”, che si dissolvono nel vento prive di consistenza.

Difatti, i racconti di un mio vecchio libro, Il volo interrotto, non hanno stile, la loro trama è scarnificata e sono privi d’un’“atmosfera”.

Sempre cercando di capire cos’è oggi la letteratura, potremmo rivolgerci a un film molto famoso, in cui, a un certo punto, il protagonista maschile dice alla protagonista femminile: «Prima regola, Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio: “Di ogni singola cosa chiedi che cos’è in sé? Qual è la sua natura?”. Che cosa fa quest’uomo che cerchi?» A quel punto lei risponde: «Uccide le donne». E lui: «No, questo è accidentale. Qual è la prima, la principale cosa che fa, uccidendo che bisogni soddisfa?» E lei: «Rabbia, senso di colpa, frustrazione sessuale…» E lui: «De-si-de-ra».

Che cos’è la letteratura? Qual è la sua natura? Molti hanno scritto di questo.

Saba, in Quello che resta da fare ai poeti, dice: «La letteratura sta alla poesia come la menzogna sta alla verità».

Toklas, nell’Autobiografia, riporta una frase che Gertrude Stein disse a Hemingway: «Le osservazioni non sono letteratura», che potrebbe farci intravedere un’idea di letteratura come qualcosa di diverso dalla realtà – cioè dall’osservazione di cui parlava la Stein.

Calvino, dicendo in Se una notte d’inverno un viaggiatore, «La letteratura vale per il suo potere di mistificazione, ha nella mistificazione la sua verità», ci autorizza a dire che s’invera e diviene carne mentendo. Un po’ come Giorgio Manganelli.

Roland Barthes, da Mitologia, ci avverte che «la letteratura, in fondo, è un’attività tautologica», cioè ripetizione.

Jean Giraudoux, sulla stessa lunghezza d’onda di Barthes, afferma che «il plagio è alla base di tutte le letterature, tranne la prima, che d’altronde è sconosciuta»: la letteratura è ripetizione – cioè finto movimento. Non differenza, ma ripetizione.

E se finora la letteratura sembra solo una finzione o quasi, con Pietro Abelardo arriva a sembrare un pericolo: «Bisogna prendere speciali precauzioni contro il morbo della scrittura, perché è una malattia pericolosa e contagiosa».

In apparente contrasto ritroviamo l’esclusività della scrittura sottolineata da Brendan Behan: «I critici sono come eunuchi in un harem. Sono presenti ogni notte, lo vedono fare ogni notte, vedono come andrebbe fatto ogni notte, ma non riescono a farlo».

Queste ultime due citazioni sembrerebbero cozzare fra loro, ma poi ne isoleremo le similitudini.

A ogni buon conto, comunque, visto che come disse Pascal, «l’eloquenza continua annoia», concludiamo qui l’elenco delle testimonianze altrui tenendo conto che queste poche sopperiscono alla mancanza di tutte le altre affini.

 

Antonio Romano

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7 Responses to L’inutilità del genio post-moderno /1

  1. DICIANNOVE says:

    Si, ma cos’è la letteratura moderna per Antiono Romeno?
    E, soprattutto, chi è di mazzo???

  2. scrittoriprecari says:

    Consiglio la lettura delle altre 3 puntate, prima di tirare delle conclusioni…

    Simone

  3. antiono romeno says:

    allora rimando alla quarta puntata le mie risposte

  4. lagentestamale says:

    Personalmente, io mi sono approcciato al postmoderno in psicologia, più che in letteratura.
    Per questo ti chiederei di definire cosa intendi per letteratura post-moderna.

    Per come la vedo io, infatti, il post-modernismo non è un’epoca, ma un modo di pensare parallelo al modernismo. Il post-modernismo non è il disimpegno da festa perpetua anni ’80, ma, al contrario, un modo di vedere che impone il coinvolgimento personale. Un modo di vedere che impone di prendere in considerazione la parresia foucaultiana, l’esporsi in prima persona, non perchè la propria idea è quella giusta, quella vera, ma invece perchè è quella in cui si crede. Questo, secondo me, impone la responsabilità delle proprie idee, la responsabilità di iniziare una frase con “io penso che”, non con la più deresponsabilizzante formula del moderno “è così”.
    Per questo, personalmente, non vedo inutile il genio post-moderno, però mi piacerebbe capire meglio il tuo punto di vista.

    Ciao
    A.

  5. Antonio Romano says:

    partendo dal presupposto che bisognerebbe leggere le altre tre parti di questo saggio…

    in effetti non è il disimpegno anni ’80, concordo con te.
    è un coinvolgimento personale. è un “io penso”.

    dubito però che sia un “io credo” e direi che dovremmo vedere più attentamente il fatto dell’espressione. assenza dell’Io onniscente e narrante e sensato.

    per inutile credo che dovremmo guardare più “all’antiutile”. a qualcosa che sfugga il sistema.

    non so se ho risposto

  6. abbiamo maggiore necessità di esprimerci, forse una fisiologica necessità di affermare questo tuo “io penso” …ma perchè maggiore? ma perchè è necessario? provocatorio

  7. Antonio Romano says:

    immagino si possa dire, con relativa sicurezza, che vogliamo esprimerci perché oggi più di prima ha senso.
    in qualche modo la risposta alla tua provocazione è nella provocazione stessa. in particolar modo nel tuo “necessariamente”.
    come sappiamo, nel linguaggio filosofico, il necessario è ciò che è e non può che essere. in effetti, a ben pensare, l’affermare “fisiologicamente” (altra parola rivelatrice) il proprio pensiero attraverso l’espressione è necessario: è e deve essere, esattamente come – nella fisiologia – le peristalsi o la fotosintesi.
    come dici bene tu è questa n e c e s s i t à che dovrebbe incuriosirci e in qualche modo spingerci a una risposta.
    e veniamo al tuo quesito: perché oggi? perché la struttura in cui siamo a bagno sviluppa i suoi rapporti di forza e le sue implicazioni nella comunicazione. se prima gran parte dell’esistenza era regolata da tradizioni, convenzioni e consuetudini, oggi nulla ha resistito al vento dell’innovazione tecnologica: l’unica cosa che è rimasta in piedi è la comunicazione. e proprio come l’udito in un cieco si acutizza, così la comunicazione si è sviluppata nella nostra società orbata delle sue regole abitudinarie.
    quindi è oggi perché non poteva che essere oggi: è stata la necessità di colmare un vuoto a determinarlo.
    non so se mi sono spiegato.

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