I fuoriusciti
marzo 3, 2011 11 commenti
I fuoriusciti (Stilo Editrice, 2010)
di Michele Lupo
A un certo punto una mattina non mi sono più alzata dal letto. Non mi vedevo più che mi alzavo, se posso esprimermi così.
In Italia, si sa, i racconti sono un genere piuttosto bistrattato (e aggiungo purtroppo), tanto che se non fosse per internet rimarrebbero pressoché fuori da ogni riflessione letteraria. Nel nostro paese preferiamo puntare invece sui romanzi, preferibilmente se di esordienti, oppure scandalizzarci della poesia che non vende, ma dei racconti importa a pochi. Nessuno si preoccupa di dar loro dignità estetica o risalto mediatico, se non quando si tratta di lanciare qualche antologia tematica in cui inserire testi di autori già noti (se non al pubblico, almeno alla critica).
Eppure, i racconti sono da sempre una palestra di scrittura, forse il luogo più adatto a verificare la genesi di una lingua e di uno stile. Spesso, poi, rappresentano persino una sorta di esercizio spirituale: l’osservazione di una disciplina a cui difficilmente (soprattutto di questi tempi) ci sottomettiamo.
È questo il caso dei racconti di Michele Lupo, inanellati come tanti piccoli romanzi – i più cattivi direbbero romanzi abortiti, e invece io insisto sul fatto che qua siamo davanti alla prova lampante della dignità del genere: essi funzionano benissimo così, perché un’opera si fa abitare indifferentemente dal numero delle pagine che la compongono.
Le storie de I fuoriusciti disegnano infatti un affresco ben preciso, indicato fin dal titolo, per quanto conservino una loro autonomia. I personaggi che entrano in scena (termine appropriato, direi, vista la copertina con uno dei famosi bar di Hopper) sembrano infatti patire, ognuno per sé, di un proprio ingombro personale: fisico o mentale poco importa, purché si sentano sempre fuori luogo. Stanno appunto uscendo di scena, ma sono ancora sotto i riflettori: e nel salto dal palco, in quell’ultimo balzo, mettono l’ultimo residuo di peso che gli rimane – prima d’involarsi, per sempre.
La scrittura di Lupo – asciutta e complessa al tempo stesso – contribuisce a rafforzare nel lettore questa sensazione. Prendiamo l’ultimo racconto, il più bello a mio parere: in Congedo assistiamo all’atto finale di un percorso in cui la staffetta è passata di mano in mano (o per meglio dire di fallimento in fallimento), fino all’esaurimento di ogni possibilità: un esaurimento che passa per il rifiuto della comunicazione – la protagonista che getta il telefono, dentro il quale la voce di uno spasimante continua a insistere – e di conseguenza per una scrittura che sembra perdere ogni velleità descrittiva per farsi a tratti puro pensiero: un monologo interiore disturbato da stralci di conversazioni.
Alla fine, rimane l’autismo del soggetto, il suo richiudersi nella scrittura – gli ultimi versi di una poesia della protagonista (Oh, anche questa notte è colma d’echi la terra, e di grida).
Forse, allora, non è proprio un caso se il primo racconto inizia con il riferimento a un televisore (Tornando a casa, ci pensò un po’ su: si sarebbe seccato anche lui se qualcuno gli avesse spento il televisore sotto gli occhi), mentre l’ultimo mette in scena la distruzione di un suo omologo: una via d’uscita luddista che rende giustizia all’arte del racconto.
Ghelli coglie in poche parole l’essenza di questi racconti esemplari, complimenti a lui e a Lupo…
Ghelli è un uomo di sostanza
Un racconto nel corso di non molti minuti ci mostra la nascita, lo sviluppo e la conclusione di una azione umana inventata dall’immaginazione.
E’ la promessa di una evasione sulla cui fine possiamo contare sin dall’inizio. Il racconto è, quindi, un testo “di fiducia”.
E questo poter contare con la fine di qualcosa non costituisce, mi chiedo, uno dei più costanti incentivi dell’uomo, sia che questi misuri il tempo con esattissimi cronometri sia che lo misuri per l’altezza del sole o il passare dei giorni?
lo stile di un racconto a mio avviso non è un attraente ornamento applicato ad una struttura funzionale, ma fa parte dell’essenza stessa e le sue proprietà necessarie sono lucidità, eleganza e individualità.
Personalmente adoro il guizzo rapido di un buon racconto, l’eccitazione che spesso scaturisce dalla frase d’apertura, il senso di bellezza e di mistero che i migliori sanno evocare. Chi scrive racconti è naturalmente portato a trovare le parole giuste, le immagini precise, la giusta e corretta punteggiatura in modo che il lettore sia catturato e coinvolto nella storia e distolga gli occhi dalla storia solo se la sua casa prende fuoco. Se siamo fortunati, autore e lettore insieme, finiremo l’ultima riga di un racconto e poi rimarremo seduti per un minuto, con calma.
Diceva Julio Cortazar: ” In questo senso, il romanzo e il racconto si possono paragonare analogicamente al cinema e alla fotografia, nel senso che un film è innanzittutto un ‘ordine aperto’, romanzesco, mentre una fotografia riuscita presuppone una rigorosa limitazione previa, imposta in parte dal campo ridotto che l’obiettivo comprende e inoltre dal modo in cui il fotografo utilizza esteticamente tale limitazione. Fotografi del calibro di Cartier-Bresson o di un Brassai definiscono la loro arte come un apparente paradosso: quello di ritagliare un frammento della realtà, fissandogli determinati limiti, ma in modo tale che quel ritaglio agisca come un’esplosione che apra su una realtà molto più ampia (…) dunque il fotografo e lo scrittore di racconti si vedono obbligati a scegliere e a circoscrivere un’immagine o un avvenimento che siano significativi (..) che siano capaci di agire sullo spettatore o sul lettore come una specie di ‘apertura’, di fermento che proietti l’intelligenza e la sensibilità verso qualcosa che va molto oltre l’aneddoto visivo o letterario contenuti nella foto o nel racconto. Uno scrittore argentino che ama molto la boxe [Adolfo Bioy Casares, n.d.r.] mi diceva che, in quella lotta che si instaura sempre fra un testo e il suo lettore, il romanzo vince ai punti, mentre il racconto deve vincere per ‘knock out’. “
Giustissime osservazioni: il racconto è un congegno che non ammette sbavature, al contrario del romanzo. Se il primo riflette l’ordine (anche disordinato) di una stanza, il secondo fa proprio il caos del mondo.
Quello sopra sono sempre io, l’autore della recensione.
S.
Bellissima questa recensione. Penso che sia pressoché un sogno per uno scrittore venire recensito in questo modo, così sobrio ed esperto. Ottimo e condivisibile anche il commento di W&P. Per quanto riguarda la raccolta di Lupo, ce l’ho a casa in attesa di un po’ di tempo per dedicarmi a letture per piacere personale…
Grazie Claudia, per chi scrive o recensisce è invece un piacere incontrare lettori come te 🙂
S.
vedo solo ora: grazie di cuore a Simone per questa sua lettura e agli altri che sono intervenuti – poi leggerò con più calma
@Michele: E’ stato un piacere leggerti…
S.
Be noi ci siamo specializzati nel racconto da blog. La scrittura nei blog è diversa dal racconto convenzionale. Deve essere più acceso, breve, denso, vasto. Alcuni dicono che fare il blogger è facile. Nemmeno per sogno!
Invito a leggere come ci muoviamo!
http://www.vongolemerluzzi.wordpress.com
Grazie per la riflessione e a rileggerci! ^^
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