Il futuro della scrittura collettiva
Maggio 4, 2011 15 commenti
Vorrei partire dicendo che lo spunto per queste considerazioni nasce dalla conoscenza del progetto SIC di Magini e Santoni. In base a quanto m’è sembrato di capire di quel che ho potuto leggere, ho avuto l’impressione che il SIC si regga sui propositi di due (o chissà quante) persone preparate e appassionate: a differenza di molti altri progetti di scrittura collettiva attualmente in circolazione (spesso solo sussiegosi, tirannici o confusionari: decisamente scrittura truffaldina), Magini e Santoni hanno messo a punto un sistema logico, trasparente e – dote rara e preziosa – ragionevole. Posso non condividere i loro scopi e i loro presupposti, ma non posso non apprezzare la “gentilezza” con cui il SIC è strutturato: ognuno può, seriamente, contribuire grazie alla oggettività della “scheda”. E questo a me pare un contributo genuino alla scrittura. Trovo altresì che la presenza di un Direttore Artistico che esoneri l’autore dalla “integrabilità” sia salutare e azzeccata come soluzione organizzativa, mi preoccupa solo la sua importanza nodale: da lui dipendono davvero troppe cose, è lui che decide se un’idea è buona o no, quindi c’è da sperare solo che sia capace e intelligente. Infine è ottimo che ogni scrittore possa trovare il proprio utilizzo in base alle sue peculiarità. Stupendo. Detto ciò proverò a occuparmi, nei limiti di spazio e capacità, di questo argomento più in generale. O, meglio, a fare delle domande a cui non ho trovato una risposta.
L’argomento “scrittura collettiva” (ché quella “collaborativa” è altro) è molto interessante e, come spesso in questi casi, molto spinoso. Innanzitutto perché essendo molto interessante ne parlano in molti, confondendo le acque in maniera inestricabile. Secondariamente perché col mezzo internettiano diventa ingarbugliato ad altissimi gradi. È probabilmente per queste ragioni che, a differenza del “cadavere squisito” dei surrealisti, la scrittura collettiva contemporanea si fonda spesso su regole ferree che mirano proprio a ingabbiare la potenziale anarchia (e, a seguire, insensatezza) di progetti del genere. La scrittura collettiva non è abbandono del Logos, bensì della vanità autoriale.
Oltre che alla fine della vanità autoriale, personalmente ci vedo (come ho detto altrove) la conclusione (ché “fine” e “morte” mi paiono ingiustificatamente apocalittiche) di quella che mi piace chiamare “responsabilità creativa” che, come quella penale, vorrei fosse individuale. TU hai scritto un libro di merda/meraviglioso, non VOI, perché a quel punto non saprei nemmeno chi dei voi ha dato il contributo decisivo (anche il concetto di “decisività” va in crisi). Se ora sto scrivendo cazzate o genialate, mi piace essere IO l’imputato e non trincerarmi (come altrimenti farei per vigliaccheria e semplicità) nel NOI. Trovo sia utile fare il mio esempio individuale, così per ridurre la propensione a generalizzare troppo sul tema, e anche per una sorta di giustizia poetica: parlare in soggettiva di un metodo collettivo.
Direi che in certi casi si debba smettere di pensare che la scrittura collettiva alligni nella letteratura e iniziare a collocarla nella sociologia. Ma è una mia opinione.
La partecipazione elimina il blocco dello scrittore. Personalmente, anche se adoro pensare allo scrittore come individuo e non come collettivo, devo ammettere che spesso vorrei un “socio”. Io non sono molto bravo con lo “sbrodolamento”, ossia con tutto ciò che dà respiro e grasso a una narrazione. Sono sempre scheletrico ed esercito un controllo eccessivo su ciò che scrivo. Mi servirebbe qualcuno che riempisse i vuoti che lascio e mettesse sui miei muscoli e tendini un po’ di ciccia e pelle. Vorrei la partecipazione al lavoro, in questo modo eliminerei anche il cosiddetto “blocco”: quando non va a me scrive l’altro, o un altro o un altro o un altro. Ma questo fa parte di un certo bagaglio di superstizioni relative alla scrittura collettiva. Forse, però, è anche la più realistica di queste superstizioni. Certo, in presenza di una ferrea organizzazione, non posso fermarmi e far scrivere a un altro, ma parimenti vorrei anche io il mio Fruttero.
Se poi provo a raccogliere una serie di suggestioni sul tema, le tentazioni sono davvero troppe. Per esempio contrapporre Bibbia e Corano, l’una come esempio di scrittura collettiva (testo massimamente stratificato, con una serie a sua volta massimamente stratificata di successivi coordinatori) e l’altro di scrittura individuale (sempre ammettendo che Allah non c’entri nulla e che Maometto si sia inventato tutto). O che, come dicono i SICcanti, il romanzo storico sia – in qualche modo, per estensione – collettivo: quindi l’ipotesi seducente che vi siano dei “generi collettivi”. Oppure, grazie alla sostanziale “irriconducibilità” del testo alla mano di un singolo autore, che il “romanzo collettivo” sia una sorta di “romanzo statistico”: un campione di lettori/scrittori si mettono a operare su un paniere creativo e producono un “romanzo di media” (non so se mi sono spiegato).
E poi le suggestioni potrebbero debordare. La televisione e internet potrebbero essere visti come i veri romanzi collettivi contemporanei, ma si potrebbe obiettare che a differenza dei romanzi collettivi sono un flusso e non opere concluse (o, almeno, non per ora). A questo punto perfino il catalogo dell’Adelphi, in quanto permanente, ho la tentazione di far rientrare nella dizione “romanzo collettivo a staffetta”. E modulare.
Mi domando poi, ma a questa perplessità non riesco proprio a immaginare chi potrebbe rispondere, se con la diffusione del romanzo collettivo la catena editoriale tradizionale salterebbe o meno. Dobbiamo ricordare che è erroneo credere oggi che il romanzo sia collettivo solo perché attraversa varie fasi di revisione: sebbene più persone vi mettano le mani (editor, consulenti, etc.), a differenza della scrittura collettiva, il lavoro non è fra pari.
Non so nemmeno immaginare se il “romanzo collettivo” abbia o meno un diverso grado di spontaneità/programmazione rispetto al romanzo “individuale”.
M’incuriosisce una cosa, per altro. Spesso si dice “lavoro a quattro mani” per intendere il lavoro di due persone (e così via per tutti i multipli che occorrono). Trovo sia una splendida metafora: l’illusione del lavoro a quattro mani dà a credere che non sia un’unica mano a scrivere. In questa illusione si cela tutto il nostro desiderio inconscio di valere doppio, di essere intrinsecamente “collettivi”. Un po’ come quegli errori del linguaggio che però sono giusti per suggestione. Groddeck, per esempio, sottolineò come la frase il sole sorge fosse errata: il sole, essendo immobile, non può muoversi e sorgere. È la terra che si muove. Il lavoro a quattro mani coinvolge solo due persone: di chi vorremmo che fossero le due mani in esubero?
Comunque, ritornando alla pratica e uscendo dalle suggestioni, il romanzo collettivo, se non altro, a scopo didattico, può insegnare un metodo abbastanza efficace a chi non riesce ad averne scrivendo. Magari può toglierti la magia di non sapere cosa scriverai in quel dato giorno, o magari saprai sempre che fine farà un certo personaggio o come agirà. Ma quantomeno ti dà una disciplina.
All’inizio della narrativa (non so quando, ma so che c’è) gli autori non esistevano quasi. Racconti orali e usi erano il romanzo di tutti e tutti contribuivano ordinatamente e disciplinatamente, che la scrittura era poco diffusa e tutto andava tenuto a mente. Era allora che i vecchi servivano davvero a qualcosa. Un giorno, poi, fecero la loro comparsa i borghesi: affamati com’erano di intrattenimento nel loro “tempo libero” (concetto, all’epoca, nuovo di zecca) motivarono la nascita della cosiddetta “industria culturale”. Romanzi su romanzi furono vergati per intrattenere le sere dei commessi viaggiatori e degli industriali tessili e gli imprenditori editoriali avevano bisogno di tracciare ferrei contratti con singole persone da trascinare in tribunale in caso d’inadempienze (e, inoltre, è molto meno oneroso pagare un singolo che non corrispondere i diritti a un collettivo, a meno che il collettivo non decida di farsi pagare come fosse un solo individuo, ciò significa che i collettivi non incasseranno mai abbastanza per vivere di scrittura? Oppure dovrebbero guadagnare dalla percentuale di vendite strabilianti). E poi il borghese iniziava ad affezionarsi al singolo scrittore e i libri presero a vendere indipendentemente dal contenuto e solo per il nome in copertina. Insomma, a un certo punto, dopo alcune prove generali, dopo innumerevoli tentativi, dopo vari percorsi, s’affermò in letteratura – come principale frutto di un individualismo dilagante nella società in via d’industrializzazione – l’autorialità. Oggi la Rete (grazie Wikipedia!) ci riconsegna rinnovati vecchi protocolli per la creazione di opere collettive, che già il Cinema aveva – all’alba del XX secolo – tenuto attaccati al respiratore artificiale e al sondino nasogastrico.
E il futuro del romanzo collettivo? C’è da immaginare che entri via via sempre più nella nostra cultura e che si consolidi. Che certe regole che oggi, per ovvia convenienza, dobbiamo sancire siano alla lunga presupposte. Che il Direttore Artistico si faccia sempre meno presente perché gli scrittori sono sempre più consapevoli del metodo e di loro stessi. E così, finalmente più sicuri di sé, stimolati dal lavoro collettivo, che inizino a immaginare storie da soli, fino ad arrivare all’evoluzione estrema del romanzo collettivo: quello individuale.
Antonio Romano
Posso capire il tuo discorso sulla responsabilità, ma meriterebbe uno spazio a parte (soprattutto sulla nozione di autore). Per quanto mi riguarda, posso dire che dipende (come sempre) da dove si osserva e cosa c’interessa osservare. Personalmente guardo prima al testo (l’opera) e a come funziona; certo, con la consapevolezza che non posso considerarlo come oggetto sganciato da ciò che viene prima e ciò che arriva dopo. Quel che vorrei sottolineare, visti i tempi in cui viviamo (di massima esposizione mediatica), è che l’idea di mettere un po’ da parte l’autore mi sembra assolutamente salutare…
Piuttosto, sarebbe interessante capire le affinità del metodo SIC con la “scrittura cinematografica”, visto che i punti in comune mi sembrano diversi, a partire proprio dall’idea che l’opera è un lavoro di molti (anche se poi nei cartelloni, o nei titoli, ci va un nome solo)… aspettiamo che ne dicono i diretti interessati…
vedi, simone, se un collettivo si desse un’identità non avrei nulla da discutere. perché alla fin fine anche l’autore, come il lettore, è (un) modello. sono due personaggio dell’opera. quindi se SIC, giusto per citarne uno, inventasse di volta in volta un autore con una biografia e una bibliografia inventata, non avrei nulla da ridire. a quel punto diverrebbe: “IL RITORNO DELLA MUMMIA, il romanzo di mario rossi, egittologo e medium, di SIC”. in tal senso sento la necessità dell’autore: proprio, appunto come dici tu, per agganciare l’opera a qualcosa. eliminare l’autore è come eliminare il lettore, da mio punto di vista. ma in effetti sarebbe più interessante sapere cosa ne pensano gli autori collettivi (non solo quelli di SIC ovviamente).
PS… mi rendo conto di una mia contraddizione interna nel momento in cui, invece, trovo sensuale lasciare l’autore e cancellare il lettore. ma questo è un discorso a parte, oltre che inutile e personalissimo.
Immagino che nel romanzo che stanno scrivendo compariranno dei credits…
@ghelli http://www.scritturacollettiva.org/blog/il-cast
(@romano risposta strutturata in arrivo…)
Allora immaginavo bene! 🙂
beh, non so come sarà la risposta, ma trovo lusinghiero lo “strutturata”.
La risposta SIC: http://www.scritturacollettiva.org/blog/chi-parla
BISOGNEREBBE CONCEPIRE CHE IL BENESSERE INDIVIDUALE, INVECE DELL’INTERESSE INDIVIDUALE, VENGA SEMPLICEMENTE AFFIANCATO AL BENESSERE COLLETTIVO. RELAZIONI CAUSA EFFETTO.
Premetto alcune cose:
1. in questo momento ho finito di leggere l’articolo e ho pensato di voler commentare senza leggere quelli precedenti, per cui li leggerò tra qualche minuto (leggendo al volo che sono 8 vorrà dire che magari è alta la probabilità di un dibattito … vedremo, mi dico…)
2 non sono informata in questo istante sul tema progetto SIC di Magini e Santoni, su cui evidentemente la curiosità mi porta a pensare che approfondirò sempre tra qualche minuto
Di conseguenza scrivo delle parole di Antonio …
Ci ha molto diligentemente ed elegantemente condotti verso un tema filosoficamente fondante: la cecità che colpisce offuscando le idee. Antonio!Che dici!?Io sarei per dirti la mia schematicamente stasera.Mi va così.
…“scrittura collettiva” (ché quella “collaborativa” è altro) …
Se riuscissimo a collaborare davvero e misericodiosamente nella vita ci faremmo meno male … ma la questione del benessere collettivo paradossalmente contrapposto all’interesse individuale Romano la racconta dopo ….
“La scrittura collettiva non è abbandono del Logos, bensì della vanità autoriale.
Oltre che alla fine della vanità autoriale, personalmente ci vedo (come ho detto altrove) la conclusione (ché “fine” e “morte” mi paiono ingiustificatamente apocalittiche) di quella che mi piace chiamare “responsabilità creativa” che, come quella penale, vorrei fosse individuale. ”
Direi utopico, come il comunismo, immaginare che l’IO tanto facilmente per natura, per istinto, abbandoni l’idea che la propria sopravvivenza, come la propria vanità, sia primaria rispetto a quella dell’altro. Anche nel caso in cui ci fosse qualcuno pronto a dichiararmi il contrario, sostanzialmente sarebbe fiato sprecato perchè non ci crederei. Concepire un’eccezione solo in considerazione di casi davvero eccezionali tanto da proporre il nome in lista per la beatificazione, e sarebbe correttissimo.
La Bibbia e il Corano, la televisione ed internet …. è tutto un fluire, panta rei … tutto scorre … è la parola che fluisce, è il pensiero la matrice …. “E così, finalmente più sicuri di sé, stimolati dal lavoro collettivo, che inizino a immaginare storie da soli, fino ad arrivare all’evoluzione estrema del romanzo collettivo: quello individuale.” .. la collettività non è che una categoria, perchè in realtà può non esistere. Viviamo in un universo leibniziano, non ci sono dubbi. E la risposta è nell’ultima questione che sento di porre in evidenza. Romano scrive di “responsabilità creativa” e di “industria editoriale”. Se pagassero i diritti di autore come se la “collettività” e sottoinsiemi vari fossero uniche entità giuridiche o anche persone fisiche e se il mercato fosse in grado di sostenere questo costo come ordinario rientrando nel budget a disposizione, sarebbe fantastico. Stiamo parlando delle logiche economiche che sottendono la storia di un paese in debito, che non cresce etc etc etc….ma molto etc etc etc! Il Governo l’ha dichiarato chiaramente. Le scelte mi sembrano chiaramente opinabili, ma chiarissime, Come anche i termini di priorità. Non mi pare che all’estero la questione sia proprio in questi termini. Il fatto che non venga attribuito un adeguato valore economico alla creatività pone interrogativi ben più profondi. Ma cos’è la creatività e quanto vale? E io aggiungerei: in questo Paese.??? Una mia collega dell’università all’epoca, scrisse la tesi proprio su questo tema ricordo, per cui immagino che la letteratura non potrà essere che sufficiente.
Penso che gli esperimenti creativi siano molteplici in tutto il mondo e che molti di essi, soprattutto nel campo dell’arte contemporanea in senso stretto, siano correttamente sostenuti e ripagati ….MA DALLA COLLETTIVITA’!!!!!!!!!!!!!!!! dal MERCATO!…
e la mia risposta alla domanda pià dura “ciò significa che i collettivi non incasseranno mai abbastanza per vivere di scrittura” è vero che non si investe, ma è anche vero che i libri oggi non si comprano, i libri oggi non si pubblicizzano, ed escludiamoci. Noi quì, e mi permetto anche a torto, siamo LA MINORANZA! E’ questa la cosa a cui tento continuamente di abituarmi. Liberi di pensare e di scrivere, ma la realtà va anche accettata.
Per me sia collettivo, sia a 4 mani, sia a 2, sia 1 … il problema economico sociale risiede nel fatto che in Italia la memoria storica culturale è cosa di pochi. Alla fine da queste parti soprattutto sarebbero teoricamente discendenti degli antichi Romani, coatti da secoli e secoli e copioni!
Il pezzo è bello, scritto benissimo, ma mi fa incazzare la questione. PRRRRRRRRRRRRR
mi sa che su un punto hai proprio ragione: l’IO col cavolo che si lascerà così facilmente addormentare
Per rispondere a una questione di interesse collettivo occorre ricordare che per “collettivo” si deve intendere la moltiplicazione solo dei pesci, perché il pane arriverà, se arriverà, sempre nelle tasche di pochi. Ora non è che i pesci siano da scartare a priori, se sono freschi e presi con la canna invece che sulla faccia, ma si dovrà convenire con la mia opacità di giudizio che il pane, a differenza del pesce, quando è vecchio può ancora essere utilizzato, soprattutto se è stato grattato ma anche se è frutto di una credenza.
Cominciamo a dire che collettivo indica un valore essenzialmente quantitativo applicato, quando riferito a degli scrittori, alla porzione meno nobile dell’umanità e, si sa, quantità moltiplicato per quantità non dà, come è uso si possa pretendere dal calcolo algebrico, la qualità.
Dunque, anche in questo deplorevole caso, verrebbe voglia di applicare la regola che afferma essere il suo componente meno dotato a stabilire il livello intellettivo di un branco all’avanguardia. Infatti gli sforzi di chi organizza siti di scrittura collettiva sono esclusivamente rivolti ad attutire le iniziative di questo individuo poco dotato al quale, di norma, si lascia la responsabilità di presentare al mondo il risultato dell’aver scritto insieme a persone che la pensano come il tuo peggior nemico, con tutti i drammatici eventi che seguiranno.
Per evitare che qualche gruppo di scrittura collettiva, dopo aver letto le mie illuminanti considerazioni, decida sia meglio rapinare banche, confesserò malvolentieri di essere stato, nella preistoria della mia indegna esistenza, un freak attivo nella disciplina dello stravolgersi sperimentale, ottenuto dal mischiare con creatività priva di costrizioni droghe allucinogene ad alto potenziale, al fine di aumentarne la potenzialità. Il risultato non entusiasmerà i cultori del sacro, ma può dare agli psichiatri materiale sul quale riflettere, anche se non a lungo.
Massimo: se non ho capito male, in soldoni, intendi che l’operazione mirerebbe al ribasso in fatto di qualità, in quanto livellamento sul fondo. Come sostenevano però i “direttori artistici” del progetto (sulla cui qualità letteraria è possibile esprimersi leggendo i libri che hanno pubblicato singolarmente), bisognerebbe quantomeno attendere di leggere il risultato di questo lavoro.
Non è mia consuetudine anticipare epiloghi, perché preferisco criticare gli errori di principio che degli epiloghi sono la culla. Confesso di non aver mai letto il risultato dello scrivere a più mani e, già che mi sto dando zappate aggratis, dirò anche di aver scritto cose divertenti con altri che, come io amo fare, scrivono. Resta da dire che divertente non è sinonimo di intelligente mentre, dal lato opposto a quello, l’intelligenza simboleggia lo spirito, intendendo per Spirito quello universale che non muove un muscolo per il fastidio di averci armati del pensiero.
Cito lo scritto sopra pubblicato dagli autori precari: “La scrittura collettiva è abbandono della vanità autoriale”
A questo punto occorrerà chiedersi cosa sarà mai questa vanità e, soprattutto, se sarà necessaria a preservare intatto quello che, senza di essa, resterà a dare testimonianza degli elementi che avanzano da un banchetto che si presenta alla stregua del rancio dei militari: ottimo e abbondante, perché la vanità autoriale non se la sentirà di essere così stupida da autodenunciarsi facile… in fondo la principale dote della vanità non è la modestia? 😀 😀 😀
Un autore che fosse accorto, dimesso, modesto e ben disposto verso la parte meno dotata del prossimo, autore pure lui, che si crede meglio del suo prossimo modesto, o scrive la Bibbia o un manuale su come drogarsi senza lasciarci la pelle prima che il flash raggiunga il cervello… 😀