LA COLOMBO NON PERDONA
Maggio 27, 2011 1 commento
Quello che segue è il terzo racconto (qua il secondo) ispirato ai disegni di Lucamaleonte e scritti appositamente per la serata di letture tenutasi al Laszlo Biro il 5 maggio.
La Colombo non perdona
di Luca Piccolino
ROMA, 1996
Pietralata. Due del mattino. Fari su una strada buia.
Il Piastra, non si preoccupava di andare piano. Non c’erano abitanti in quella viuzza, soltanto un paio di magazzini di materiali edili e uno sfasciacarrozze. Al contrario dei magazzini, però, lo sfasciacarrozze era aperto.
Il Piastra rallentò, fermandosi innanzi a un cancello sovrastato dalla scritta verniciata a mano: Autodemolizioni Proietti. Diede due colpi brevissimi di clacson e dopo neanche trenta secondi il Sorca Mario era già ad aprirgli.
Velocemente l’auto transitò nel piazzale per infilarsi in un garage costruito con bandoni di lamiera. Mario accostò il cancello e raggiunse il Piastra.
«Dove l’hai fregata ‘sta merda?»
«Perché merda? Guarda, non c’ha neanche trentamila chilometri. Ed è diesel!»
«Per me potrebbe andare pure ad acqua, resta una merda di macchina coreana che non vale un cazzo».
«Oddio ce n’è sempre una però! Una volta è giapponese. Un’altra è coreana, un’altra ancora c’ha un difetto di fabbrica…»
«È colpa mia se c’hai un fiuto speciale per le macchine di merda?»
«Va beh dai, basta. Quanto mi dai?»
Il Sorca Mario girò un paio di volte intorno all’automobile, si espresse ancora una volta in toni critici verso la corea, i coreani e le fiche strette delle coreane. Tra una Madonna e l’altra disse: «Guarda ti posso dare duecento… due e cinquanta, giusto perché sei te».
«Sono venuto dall’Eur! È nuova, ‘sta macchina!»
«Prendi le duecentocinquanta, dammi retta. Sennò va a finire che ti tocca riportarcela, all’Eur!»
Il Piastra sentì la foga montargli dentro. Se l’era rischiata ad arrivare fino a lì e alla fine dei giochi ci avrebbe guadagnato soltanto quello stronzo di Mario. Non gli andava giù: «Sai che c’è? Tieniti i tuoi soldi. Ciao».
Salì in macchina, di scatto.
Mario, col sorriso sulle labbra, cercò di fargli cambiare idea: «Ma dove cazzo vai? Nessuno ti darebbe di più per questo catorcio lo vuoi capire o no?»
«Non me ne frega niente. Non la voglio l’elemosina!»
Il Sorca Mario replicò qualcosa, ma la sua voce fu coperta dal motore che il Piastra aveva acceso. In retromarcia partì e lo lasciò lì come lo stronzo che era.
Via Cristoforo Colombo. Direzione Eur.
Il Piastra non aveva ben chiaro il motivo che lo stava spingendo a riportare indietro l’auto. L’aveva detto Mario, facendo una battuta, e nel suo attacco d’ira si era mosso pensando in automatico. Tutta colpa del suo stupido cervello che, a fasi alterne, si spegneva nei minuti in cui la rabbia lo sovraccaricava.
Avrebbe dovuto prendere i soldi. Non era giusto, erano troppo pochi ma sì, a quel punto tanto valeva prenderli. Comunque avrebbe potuto trattare, accordarsi in qualche modo, invece che cedere per l’ennesima volta a un’ira incontrollabile. Il fatto era che non lo faceva apposta. Glelo diceva sua nonna: «Siccisse! Tieni lu diavulu in corp!»
Era vero. Quel diavolo lo aveva sempre fatto diverso. E il diavolo, in un corpo vigoroso, adatto a scontri e battaglie, ci stava da Dio.
Lo temevano tutti, al Piastra, e il potere conferitogli dal fatto di essere un violento mezzo scemo lo sedusse, incatenandolo per sempre al suo destino e legandolo a filo triplo alla feccia che lo circondava.
La Colombo era deserta. Guidava una macchina rubata e aveva lo stomaco pieno di Campari e gin. Uno schifo di situazione.
Pensò che era da una vita che rubava e non gli era mai successo di riportare indietro qualcosa. Nemmeno da bambino quando fregava penne, pennarelli e gomme da cancellare. Ne aveva fatti piangere sempre tanti, il Piastra, e se davvero quella era una serataccia non valeva la pena rovinarla ancora, mandando a puttane la propria autostima.
All’incrocio giusto tirò dritto. Verso il mare.
Guidò per una quarantina di minuti a velocità sostenuta.
Accendeva una sigaretta dietro l’altra, continuando a girare in maniera epilettica la manopola dello stereo.
Arrivato a Ostia proseguì per il lungomare. Anche lì deserto.
Incrociò un paio di superstiti e venne assalito dalla tentazione di prendersela con loro.
Era uno di quei momenti. Quelli dove aveva voglia di spaccare tutto e sfogarsi. Non importava se era giusto o no. Importante era il dopo. Quella calma che sopraggiungeva. Quella lieve sensazione di acqua calma e sole tiepido in Aprile.
Verso l’idroscalo, l’immensa distesa di stabilimenti cessò e, al di là del finestrino, il Piastra poté finalmente osservare il mare.
Luci riflesse sulla superficie che man mano diventavano sempre meno. Il cemento e i marciapiedi lasciavano il posto a uno scenario più selvatico.
L’auto rallentò nei pressi di uno spiazzo erboso e si infilò all’interno di un lungo prato acquitrinoso. Poi si fermò.
Il Piastra cominciò a cercare sotto al sedile e, dopo un bel po’ di goffi movimenti, riuscì ad afferrare la bottiglia del gin.
Scese. Si sedette sul cofano e iniziò a tracannare avidamente. Poi, mentre continuava a bere, prese a girare intorno alla macchina.
Il Sorca Mario non aveva torto. Era uno scassone. Nuovo o no, sarebbe rimasto uno scassone, ovunque e per chiunque.
L’aveva rubata senza pensarci due volte. Soltanto perché sembrava in ottime condizioni. Non si era fermato a riflettere. Come al solito.
Che senso c’era nel fare sempre le stesse cazzate, rendersi conto di averle fatte e infine continuare a farle?
Che c’è di bello nella vita quando ti rendi conto che non c’è niente da fare e quelle cazzate fanno parte di te?
Il Piastra non lo sapeva. Sapeva di aver vissuto e di aver preso la vita come gli era arrivata. Ci era nato così e quegli scatti da matto, quella capacità di non ragionare mentre faceva le cose, lo avevano portato a essere quello che era. Un individuo pericoloso per qualcuno. Un bisonte degno di rispetto per altri.
Al di là delle opinioni della gente il Piastra capiva perfettamente cos’era. Un uomo solo che nessuna donna avrebbe mai avvicinato gratis. Una persona senza amici, che non sapeva mai di chi fidarsi.
Il Piastra non tirò giù l’ultimo sorso dalla bottiglia.
Si tolse i calzini, li annodò insieme. Lì bagnò col gin rimasto. Aprì lo sportellino del serbatoio, svitò il tappo e pian piano infilò nel buco la lunga stringa di stoffa blu.
Accese la miccia e si incamminò verso qualche parte senza neanche godersi lo spettacolo.
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