VERNISSAGE

Quello che segue è il quarto racconto (qua il terzo) ispirato ai disegni di Lucamaleonte e scritti appositamente per la serata di letture tenutasi al Laszlo Biro il 5 maggio.

Vernissage

di Simone Ghelli

Ero stato entusiasta quando ce lo chiese: di scrivere dei testi per i suoi disegni.

Gli altri un po’ meno, a dire il vero; per via degli impegni, ufficialmente.

Gianluca faceva così da un po’ di tempo, non era una novità; eppure notai che distoglieva subito lo sguardo.

«Belli, pure troppo,» disse Angelo.

Non era l’aggettivo giusto: paurosi, avrei detto; soprattutto quello della donna-medusa, con le escrescenze che facevano della faccia una selva di serpenti (o di dita con la bocca; il che m’inquietava oltremodo). Le deturpazioni del volto erano una costante dei disegni; facce che davano vita a forme animate: protuberanze più o meno riconoscibili, oppure una vera e propria rimozione – come la testa risucchiata dalla bomboletta di spray, o le matite conficcate negli occhi (che, neanche tanto tra parentesi, lessi come manifesto d’intenti).

«Ma l’artista dov’è, adesso?» chiese Luca.

Andrea fece un gesto vago:

«Non so neanche come sia fatto,» spiegò, «abbiamo trovato il pacco dentro la cassetta delle lettere…»

«Il pacco?!»

Angelo non aveva capito il nesso.

«Sì, dove stavano le tavole che abbiamo esposto,» precisò il proprietario della galleria.

Erano state messe una accanto all’altra, nello stesso ordine del libretto; che, come aveva spiegato, sarebbe stato in vendita durante la mostra.

«Però non è proprio un catalogo, vedete?»

In effetti, aveva il formato e la consistenza di un quaderno.

«Con accanto la pagina bianca per scriverci,» aveva spiegato Andrea, strizzando l’occhio.

Una volta usciti, Gianluca aveva espresso tutte le sue perplessità:

«E poi li avete visti, tutti quei tic?»

«Ma che c’entra!»

Luca s’era messo a ridere, così forte che un’anziana signora s’era persino fermata a guardare.

«A me preoccupa di più l’occhiolino,» aveva continuato Angelo sottovoce: «A cosa ammiccava?»

«Ormai abbiamo accettato».

Luca sbuffò.

«Cerchiamo per una volta di essere seri,» continuai, «non ci saranno i soliti amici di sempre».

«Massì, qualcuno ci sarà».

Gianluca non era convinto, ma si sforzava: «Alla fine qualcuno viene sempre,» sottolineò.

«Bene,» conclusi, «abbiamo una settimana di tempo».

Per strada m’ero sentito invaso da questa sensazione, ma non seppi spiegarmela: come di qualcosa appiccicato addosso. L’incubo delle maschere me lo portavo dietro fin dall’infanzia, da quella notte in cui avevo visto alcune immagini di Quattro mosche di velluto grigio: la scena nel parco, per la precisione – anche se a rivederla, anni dopo, non capii l’origine di quel malessere che ancora mi costringeva a mettermi una mano sugli occhi durante la visione (come la prima volta che provai a prendere di petto la paura, accettando un invito a vedere Il silenzio degli innocenti al cinema, e Davide che mi sorprese durante la sequenza finale, quella in cui Jodie Foster rimane al buio con l’assassino: «Ma che fai?!» si sbalordì il mio amico, «Così ti perdi il meglio!»).

La notte sognai di strane metamorfosi, ma ne persi il ricordo al primo battito di ciglia. Era successa una cosa strana: avevo lasciato la porta aperta – io che controllavo sempre almeno due volte – e uno spiraglio di luce si affacciava dal pianerottolo sulle scale condominiali.

Quello fu il primo segno, ma ne seguirono di più preoccupanti: cominciai ad esempio a confondere le chiavi, o a lasciare i libri in giro per casa; ma soprattutto era la testa, quel formicolare della cute come dopo un balsamo. Presi persino l’abitudine di guardarmi nello specchio almeno due volte al giorno, io che non lo facevo mai – mica per principio, ma perché non ci pensavo proprio: mi toccavo la pelle, la tiravo e pizzicavo, ma sembrava tutto al suo posto; a parte quella fastidiosa sensazione, che era di un’incomprensibile frescura. Addirittura, per strada mi fermavo davanti alle vetrine più luminose, ma non per la merce: sentivo il bisogno di trovare una conferma.

Un giorno (dovevano mancarne ancora un paio all’evento, tre al massimo) fui preso dal panico, all’improvviso. Naturalmente partiva tutto dalla testa, anche questa idea che mi stessi fermando: proprio così la pensai, perché mi concentravo sugli organi e non riuscivo a sentirli – non il contrarsi del muscolo miocardico, né il sibilo dell’aria all’interno del naso. Mi sentii soffocare, al punto da catapultarmi giù per le scale; e una volta fuori, non feci che pochi passi – mi chiesi cosa avrebbero potuto pensare di me (ma chi?). Rientrai in casa con l’idea giusta – da non crederci, ma lo finii proprio così, il mio racconto.

L’ultima notte, se possibile, fu ancora peggiore. L’artista mi si palesò in sogno con la faccia barbuta, e rideva, rideva… Rideva così forte che prese a tossire – o forse ero io, in una delle tante interruzioni per tirarmi le lenzuola addosso: dalla bocca uscirono fiotti di sangue, dapprima liquido, poi sempre più denso; infine, ridendo ancora più forte, si prese la testa per i capelli e se la staccò dal collo.

«Adesso l’opera è conclusa,» disse; poi la mano lasciò la presa.

Mi ritrovai sdraiato per terra, con la bocca impastata di bava e polvere accumulata sul parquet. La casa mi sembrò una barca in balia delle onde: ondeggiava; ma non me ne preoccupai, non era la prima volta dal giorno del terremoto – spesso mi capitava di avvertire il contrarsi delle mura, oppure di sentirmi in procinto di scivolare dalla sedia per uno spostamento dell’asse terrestre (era come se avessi sviluppato un sesto senso sbagliato).

Davanti allo specchio, m’illusi d’essere ancora nel sogno (vorrei vedere chi altro si sarebbe aggrappato alla razionalità). La mia faccia era in fase di evaporazione: l’epidermide si stava sciogliendo in sudore per scoprire i muscoli sottostanti – avrei dovuto mostrarmi impaurito, ma il risultato, così simile al make up di un horror fatto in casa, provocò una risata così sguaiata (proprio come la testa del sogno) da strapparmi tutta la pelle intorno alla bocca, che si ritirò con il rumore d’un elastico spezzato. Il dolore mi venne in soccorso: non era un sogno, tanto meno un film. La cosa più strana, però, fu l’assenza del sangue; ovvero, del rosso per la precisione: la mia metamorfosi stava avvenendo in bianco e nero, ma fu la cosa che notai da ultimo. Poi venne la vibrazione del cellulare, o forse fu prima, non ricordo. Era un messaggio di Gianluca: «Non hai idea», con una serie di puntini di sospensione. Lo schermo, però, si appannò in pochi secondi; persino lo specchio, dove il vapore si era già condensato. Passai un dito sul vetro: la mia testa sembrava ormai uno sgorbio, un groviglio di linee. Fui confortato dalla resistenza del resto del corpo: al di sotto del collo era tutto in ordine.

«Bella questa trovata!» esordì Andrea.

In effetti sembrava tutto calcolato.

Ci eravamo presentati con il volto coperto: Angelo con la sua maschera del lottatore messicano; Luca e Gianluca con un passamontagna, ma di diverso colore; io con la confezione di un pandoro bucata all’altezza degli occhi e della bocca (in casa non avevo trovato di meglio, a parte un sacco della spazzatura con cui avevo rischiato di strozzarmi).

L’interno della galleria era affollato di gente: chi con un’oliva tra i denti, chi con manciate di patatine; tutti con un bicchiere di vino.

«Ma come, voi non ne prendete?»

Andrea si dimostrò incredulo dinanzi a degli scrittori astemi (in realtà non lo eravamo, a parte Angelo che beveva succhi di frutta per poi virare bruscamente sulla vodka; in realtà non sapevamo come fare).

«L’artista dov’è?»

La voce di Luca uscì fuori strana, una sorta di squittio; d’istinto si ritrasse, fingendo di sistemare qualcosa tra i suoi fogli.

«Si è nascosto,» rispose Andrea.

Sembrava eccitato; i tic moltiplicati dalla velocità con cui stringeva mani e passava da un angolo all’altro della sala.

Io ero invece sempre più preoccupato dalla tenuta del cartone, che si stava inumidendo velocemente.

«Perché non iniziamo?» proposi.

«Ohi, ma mica vorrete seriamente leggere con quelli in testa?!»

«Non sarebbe la prima volta».

In effetti, Angelo aveva già fatto in passato delle comparsate in stile wrestling.

«E comunque,» precisò, «non mi sembra carino cominciare senza l’artista».

Ondeggiai la confezione del pandoro, per mostrarmi solidale.

«Guardate com’è strano quello,» intervenne bruscamente una ragazza del pubblico: «Ma che cos’è?»

Intorno ai miei piedi si era formata una pozzanghera d’acqua; anche i pantaloni erano bagnati.

«Calma,» cercai di difendermi, «non mi sono pisciato addosso».

Qualcuno, nella concitazione, tirò il cartone con forza; che si strappò facilmente per quant’era fradicio. La mia testa, costipata per troppo tempo nel cilindro, esplose in un nuvolone vaporoso. Per la rabbia avrei voluto scatenare un temporale, ma constatai con sdegno d’essere persino inoffensivo.

Nella confusione i miei compagni cercarono di fuggire, ma la curiosità malsana della folla non risparmiò neanche loro: Gianluca nascondeva un enorme becco d’avorio schiacciato, che lasciava scoperti soltanto gli occhi (ecco perché non parlava!); Luca aveva invece la faccia come risucchiata, spinta in dentro dall’urto contro un’entità invisibile (pensai a un palloncino sgonfio, forse per la vocina che aveva prodotto); Angelo, invece, non era poi così dissimile dalla maschera sgargiante e multicolore che indossava (difatti aveva la faccia di un panda, che di per sé è già una maschera).

La gente cominciò a spintonare; alcuni caddero a terra, per essere poi calpestati dai più robusti. Nel trambusto generale si ribaltò persino il tavolo, e con esso un recipiente che era rimasto fino ad allora coperto, dal quale rotolò fuori la testa barbuta.

«Signore!» gridò Andrea: «Signori, fate attenzione: così schiacciate l’artista!»

Rideva ancora, e rideva la testa; la vidi persino azzannare un’anziana signora al polpaccio, la stessa che aveva guardato Luca per la sua risata sguaiata, e il sangue prese a uscire copioso, ed era rosso questa volta, rosso come nella realtà, e Andrea gridava di gioia nel vedere tutto quel miscuglio di sudore e paura e sangue e teste che di lì in avanti non avrebbero partorito altro che discorsi orrendi come le loro fattezze: «E allora,» urlò, «dov’è adesso l’artista?»

Una voce esile prese il sopravvento in un momento d’imbarazzato silenzio:

«E che cazzo ne so,» disse Luca.

In effetti, non c’aveva tutti i torti, con quella faccia rinculata.

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