CRISTALLI

Il cristallo è la mia casa da almeno un anno.

Il cristallo mi permette di stare al sicuro, di poter vedere la realtà nella sua interezza, nel suo vero significato.

Questa vita carica di nulla scompare totalmente nel cristallo.

Me ne avevano parlato molte volte. Mi avevano detto che non ci sarebbe stato più nessun significato ma solo significanti. Nessuna domanda, solo risposte. Pulite, solitarie nella loro chiarezza.

All’inizio ho creduto che fosse soltanto una delle solite cialtronate: quelle offerte che non si possono rifiutare, che non puoi non prendere in considerazione. Dopo le prime reticenze c’è stato il primo avvicinamento.

Non si può entrare nel cristallo di colpo. Il cristallo ti fa suo, ti prende e non lascia più la tua carne, perché il legame è fino alla morte.

La prima volta mi hanno portato in questa casa dove un gruppo di adepti era seduto in cerchio nel salotto. Tutti con i loro cristalli. Tutti nel movimento ondulatorio degli occhi che pregavano il loro prisma, ognuno ne viveva le facce a modo suo, consumando i nomi e gli anni, per poi alzarsi in preda al delirio adrenalinico che il cristallo dona ai suoi devoti.

La prima volta ho sgranato gli occhi e sono uscito. Avevo lo stomaco che pulsava il vomito verso la bocca. Rigurgiti amari mi saltavano alla lingua mentre immaginavo cosa potesse essere il mondo del cristallo.

Tornai a casa. Paura. Adrenalina. C’era tutto nei miei pensieri. Aprii la porta e le nocche pesanti di mio padre si ricordarono della mia bocca.

«Fottuto figlio di puttana! Dove cazzo sei stato? Qui si mangia alle otto, testa di cazzo, non quando va a te. Mi spacco il culo in fabbrica per te e devi portare rispetto. Capito testa di cazzo? E se quella stronza di tua madre non riesce a farti crescere ci penso io». Era un urlo alcolico. Come tanti negli ultimi quattro anni.

Era un rutto fatto di violenza.

Quella “stronza di mia madre” era dietro di lui, gli occhi che colavano lungo le guance in linee nere e le labbra rosse di sangue. Si teneva un orecchio con la mano graffiata. Unghie rotte che sembravano schegge di corteccia strappate a quei miei cinque minuti di ritardo.

Mi guardava e scuoteva la testa e mentre cercavo di alzarmi il calcio era già arrivato dietro la schiena. Un fulmine dal buco del culo all’attacco dei capelli dietro la testa.

«Hai capito o no!?»

«Sssì…»

«Bene. Adesso vai in camera pezzo di merda e pensa a come hai rovinato la cena della tua famiglia. E tu vai a mettere in tavola».

In camera con le gengive che toccavano le labbra rotte e gonfie pensai al cristallo. Pensai ad averlo nelle mie mani, a farlo rotolare tra le dite e ad accendere il nostro patto. Volevo risposte. Perché mio padre era diventato così? Perché mia madre aveva lasciato che tutto ciò accadesse? Dove era la famiglia che aveva il pranzo domenicale, la buonanotte, le lenzuola che profumavano di Coccolino?

Il sonno porta risposte a chi non dorme. Mi svegliai e andai a scuola. Lentamente. Per le strade di cemento e casermoni grigi c’era soltanto l’odore acre delle fabbriche. In bocca la colazione del sangue rappreso.

In classe continuavo a disegnare cristalli. A immaginare la luce filtrare dentro di essi. Una luce calda, fredda, bianca, colorata, luminosa. Accogliente. La matita correva da un lato all’altro dei punti immaginari. Segava la carta con la punta e faceva il suo lavoro di sogno realizzabile.

Lasciai il foglio sul banco e mi alzai sotto le urla del professor Tonini che minacciava la sospensione.

“Sospensione”. Volevo questo. Dalla falsa idea che con il tempo si migliora, tutto migliora. Il tempo se ne sbatte il cazzo.

Tara, non era il suo nome, mi aveva lusingato già dalla prima volta. Una sacerdotessa. Un’alchimista.

Aprì la porta e sorrise.

«Sei venuto alla fine. Stai iniziando il tuo cammino finalmente».

L’odore nella stanza. L’odore. Era così forte. Il sudore, l’alcol, l’asettico contrasto del cristallo. L’odore della mia rinascita.

Scelsi un posto qualsiasi sul grande tappeto rubino. Mi appoggiai al divano con la schiena e lentamente scelsi il mio cristallo. Lo guardai bene nel palmo della mano. Alienava le linee. Rendeva i solchi più grandi.

Lo poggiai ed entrai finalmente.

Il sangue mi urlò nel cervello. La mano si tese completamente e in ogni faccia del cristallo vedevo il mio volto, le mie gambe: poggiate a terra, con i pantaloni corti su un prato, con i jeans strappati.

C’era Laura, c’era Silvia, la mia adorata Clara, Elena. Il primo preservativo comprato, la prima volta che avevo fatto scivolare le mie dita sotto le mutandine di quella ragazzina dell’altra sezione.

E c’erano mio padre e mia madre. In ogni lato del mio cristallo. Immobili. Fermi. Sagome. Sorridenti, a volte.

Mentre gli altri me si muovevano, loro erano statici come i cartelloni di Blockbuster.

Avvicinai le dita a quelle forme proiettate dalla luce e sentii bruciare la carne. L’inadempienza del movimento di mio padre e mia madre erano il segno tangibile di un fallimento pronunciato con il mio nome sedici anni prima. L’amore seduto avvizzisce sui suoi pensieri.

Il cristallo portava luce nei miei angoli. Il cristallo da tempo ormai voleva il fuoco per essere me. Io lo nutrivo ogni volta con tutte le mie energie, con tutto quello che scorreva nel mio corpo.

«Resto con te,» glielo sussurravo ad ogni nostro viaggio. Gli respiravo la mia promessa. Poi prendevo il fuoco e ascoltavo la sua crepitante risposta.

«Crack».

Solo allora mentre respiravo con tutta l’aria dei polmoni pensavo a quanto anche lui mi amasse.

Alex Pietrogiacomi

 

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