La legalità? Attenti a quando scade! /5
giugno 29, 2011 Lascia un commento
La legalità scade perché è frutto di una dialettica, quindi maciullata dal meccanismo dell’integrazione fra opposti. Ad aggravare la mobilità della legalità ci si mette il sistema economico industriale che, strappando all’agricoltura (sottoposta molto di più a vicissitudini extraumane) il primato produttivo, consente all’uomo di darsi sue proprie regole di vita in misura decisamente maggiore. E qui nasce il problema: queste regole che l’uomo si dà sono di valore o di principio?
Di primo acchito si direbbe che sono regole di principio, perché la legalità si fonda su una dialettica, e i valori non possono sottoporsi a dialettica. In effetti, il mercato, per essere florido, deve anche avere delle regole che incoraggino l’agire economico: se vigesse il caos nessuno investirebbe e il mercato morirebbe. Inoltre, mentre possiamo affermare con ragione che esiste una gerarchia di principi a forma di piramide dove il principio più importante è alla base della piramide perché fondante del sistema, dobbiamo contemporaneamente ritrattare l’idea che esista una gerarchia dei valori: è più appropriato dire che esiste una quotazione dei valori.
I valori non si integrano, non si negoziano, e il valore con una quotazione più alta non è detto che sia basale per un sistema. Può essere un valore che prescinde da altri valori.
Torniamo all’esempio berlusconiano. Nel momento in cui si sottrae al giudizio della magistratura, fa traballare il sistema di principi dei quali vive il sistema giuridico. E lo fa sulla base di due valori: Libertà e Giustizia. Ma un sistema di leggi non ha per scopo la libertà (che, proprio in quanto sistema di leggi, riduce) o la giustizia (che è un concetto astratto): bensì la convivenza.
La convivenza non bada alla giustizia, ma all’equità: se la prima è astratta, la seconda si può quantificare e quindi perseguire. Esempio: i danni morali, se esistesse la giustizia, probabilmente verrebbero misurati diversamente da come facciamo abitualmente; ma siccome abbiamo come obiettivo l’equità, riusciamo a dare un “prezzo” a cose come lo stress.
La giustizia non può esistere in una società dove siamo tutti uguali, perché si basa fondamentalmente su una concezione individuale. In una società fra pari può esserci solo una negoziazione, quindi la legalità. Potremmo dire che c’è l’abbandono della logica della giustizia in nome della ragionevolezza della legalità. Un monarca assoluto può fare giustizia, non un parlamento, che invece deve far trionfare la legge. E, del resto, non si dice forse “farsi giustizia da soli”? Mica farsi “legalità da soli”.
Quindi, specularmente, è condannabile Ingroia quanto Berlusconi: un magistrato non può farsi portatore di nessun valore, in quanto è egli stesso espressione della legalità. Quali sono le differenze: Ingroia non è espressione di nessun valore, poiché il magistrato è emissario del principio, dello Stato; Berlusconi, in quanto votato da degli individui, è anche espressione di certi valori. Quindi Ingroia è ancor più condannabile di Berlusconi. Si può dire che Berlusconi debba rappresentare, se non altro, i valori di tutti gli italiani, ma perché dovrebbe visto che è il risultato del voto di una parte soltanto di essi?
Si apre qui la considerazione storica sul mutamento della “maggioranza”: da numero a soggetto politico (Galgano). In quanto soggetto politico non può far valere solo i propri interessi, penalizzando la minoranza. Innanzitutto perché se distruggesse la minoranza non sarebbe più essa stessa una maggioranza (Kelsen). In secondo luogo perché vi sono principi che ormai sono al di là della dialettica, come per esempio la libertà di riunione o di culto o di stampa, etc. La minoranza non può essere schiacciata dalla maggioranza perché ci sono principi post-dialettici che la proteggono.
Sono quindi valori questi principi? No, perché sono divenuti principi non negoziabili solo dopo un procedimento dialettico che li ha identificati come imprescindibili. Si pensi alla combattuta affermazione della libertà d’espressione: è la storia, l’analisi continua che hanno sancito l’importanza di questa libertà.
Per questa ragione Berlusconi a differenza di Ingroia è metastorico: si appella a motivazioni che non sono suscettibili di dialettica. Viceversa Ingroia è espressione di motivazioni dialettiche: la libertà d’espressione, per esempio.
Quindi, quando condanniamo moralmente o eticamente (o come si vuole) Berlusconi, stiamo condannando la natura metastorica delle sue istanze: egli, nel momento in cui si sottrae al principio della ragionevole convivenza garantita dalla legge, fa traballare l’identità stessa dell’ordine in cui siamo abituati a vivere.
Ma, come dice Volpi, come tutti i nostri problemi, anche questo non ha soluzioni bensì storie.
Antonio Romano
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