Le vestigia degli avi

Non che possa funzionare altrimenti, ci si conosce sempre su un transatlantico, a cena al tavolo del Capitano: le ragazze di quindici anni che per sposarsi si va in America, tipo Olave; i ragazzetti di terza classe che per morire si va alle Americhe, italiani gallegos fascisti comunisti anarchici mafiosi, tipo; gli eroi di guerra che per promuovere il movimento degli scout si va a Nuova York, tipo il Baden-Powell.
Olave è un nome discretamente scivoloso, di baffi rossi e birra e stucco sulle pareti, è il femminile di Olaf: le vestigia degli avi, significa.
Vestigia si bacia con battigia, Baden-Powell attende che l’Arcadia attracchi sui dock della Grande Mela e poi la bacia, le dà un morso, un morso sulle labbra attraenti. Mica alla mela: a Olave, Olave Soames, che da quel giorno, anche se non lo sa ancora, è gia la Signora Baden-Powell, la futura moglie dell’inventore dello scautismo.

Olave e Robert, i Baden-Powell, c’era una ròba che li rendeva diversi da tutti: si amavano come s’erano già amati e si sarebbero amati altri, è vero, però loro, ecco, erano nati lo stesso giorno: il 22 febbraio.
Le Guide e gli Scout gli vogliono ancora del gran bene, ai Baden-Powell, anche se sono ormai terra pei ceci, tanto che ogni anno, il 22 febbraio, celebrano il Thinking Day, il giorno della riflessione, per ricordarli, per immaginarseli ancora un po’ col cappello la piuma i nastrini e le coccarde.

Luisa, il 22 febbraio del ’76, Luisa gran Coccinella degli Scout di Còrdoba, quell’anno il Thinking Day proprio no che non poteva andarci: era in ospedale, nel suo letto d’ospedale a dare alla luce il piccolo gèiccì, Juan Carlos.

Juan Carlos Olave fa il portiere di calcio, ha i capelli lunghi da indio e un naso impervio come le cime tutt’attorno Còrdoba: ha provato a sfondare in Spagna, ma Murcia no merecìa sciorina se gli capita, bullandosi d’un’allitterazione poco convincente invero, Murcia non meritava, e allora niente: è tornato in Argentina.
Il percorso inverso, dall’Europa alle Americhe sul transatlantico, non è più come una volta, lo fanno solo i disadattati come Riquelme e Ortega o i falliti come Rambert, al massimo gl’arricchiti ben pasciuti come Veròn, o Almeyda.
Di Olave, nella piel de toro, non se ne ricorda nessuno.
E non è uno di quegli arricchiti ben pasciuti.
Le conclusioni tiratele voi.

Juan Carlos Olave è il portiere del Belgrano.
Il Belgrano è una delle compagini di Còrdoba, e Belgrano si chiama pure il quartiere bonaerense nel quale s’erige, imponente, l’Estadio Vespucio Liberti. Il Monumental.
Belgrano, Manuelgiuseppe Gioacchino del Cuore di Gesù Belgrano, se non lo sai, è stato una sorta di Garibaldi argentino: un esponente della Baires criolla, uno che l’Illuminismo l’aveva toccato nel profondo, che nel Vicereame del Rio de la Plata ci stava discretamente a disagio e allora ha imbracciato le armi per lottare per l’indipendenza, un impavido à la Menotti (Ciro, mica César Luis) ma con la lungimiranza politica d’un Camillo Benso conte di Cavour, per dire: Belgrano è l’inventore della bandiera argentina, non so se mi spiego.
In Argentina capita spesso che le squadre portino il nome di valorosi patrioti combattenti: c’è il Guillermo Brown e l’Atletico Rivadavia che prende il nome da Bernardino Rivadavia, il Sanmartìn di Tucuman e il General Lamadrid, un po’ come se noialtri tenessimo chi per il Nino Bixio Football Club, chi per la Società Sportiva Massimo D’Azeglio (nomi che qualche volta risuonano negli stradari, al massimo).

Juan Carlos Olave è il portiere del Belgrano primo classificato nella serie B Argentina, e di fronte, allo stadio del quartiere Belgrano, troppa ricorrenza di occlusive bilabiali, c’è il River Plate, la storia del calcio nel Cono del Sur, una delle società màs tutto: màs importante, màs vieja, con màs hinchas, l’hincha è il tifoso, con la barra màs caliente, la barra è la curva.
Il River Plate è arrivato ultimo nel campionato Clausura.
Il River son centodieci anni che esiste: e in B, ecco, c’è mica mai sceso.

Il Belgrano si è aggiudicato per due reti a zero la gara d’andata dello spareggio, chi vince è in Primera, chi perde retrocede, ci vuole un mezzo miracolo, ai rioplatensi, per ribaltare la situazione.
Inizia il match, cinque minuti e Mariano Pavone, dispiegando la sua variopinta ruota, manda in bambola i difensori e porta in vantaggio i millionarios.
I tifosi non stanno nella pelle.
I tifosi stanno sugli spalti.
I tifosi non dovrebbero starci, sugli spalti.

In questi giorni in Argentina è in corso la campagna presidenziale, si tiene ogni quattro anni: a capo dell’opposizione alle forze di governo, destrorsamente nelle mani della Kirchner, c’è Ricardo Alfonsìn, figlio di Raul, quello che ha guidato l’Argentina subito dopo la caduta del regime di Videla e una volta, per colpa della segretaria, non ha fatto in tempo a incontrare Cortàzar nel suo ultimo ritorno a casa, per dire.
Alfonsìn dice: “bisogna giocarla a porte chiuse, questo match. Troppo pericoloso per l’incolumità dei cittadini. Ci pensate se il River dovesse perdere?”.
Cristina Kirchner, di par suo, in uno di quei populistici rendez vous che si tengono in occasioni del genere, controbatte “oggi due cose contano nel paese: il River e noialtri che vinceremo le elezioni”. E i sostenitori battono le mani, sventolano le bandiere, cantano l’inno del partito, ricorda qualcosa, ricorda qualcuno, non mi sovviene.

Il River è in vantaggio, e qualche secondo dopo l’arbitro, tal Sergio Pezzotta, annulla una rete al Belgrano: e i sostenitori battono le mani, sventolano le bandiere, cantano l’inno del River, ricorda qualcosa, ricorda qualcuno, non mi sovviene.
Sulle ali dell’entusiasmo gli attaccanti si riversano laddove ce li si aspetta, all’attacco: Buonanotte non vuole starci, a dire buonanotte, Funes Mori e Pavone e Ferrari ci provano, a violare la rete del Belgrano, dove un portiere triste solitario e finale, Juan Carlos Oleva, gonfia il petto come un patriota sulla forca, come Belgrano alla testa dei ribelli, e s’oppone come può. Strepitosamente. Eroicamente.

Finisce il primo tempo, nell’intervallo i tifosi del River braccano Pezzotta che torna negli spogliatoi: vedi di darci un rigore, gli urlano nelle orecchie, vedi di darci un rigore o ne esci mica vivo, pezzodimèrda, stai a vedere se non tocca portarti via coi piedi avanti alla testa, Pezzotta.

Pezzotta, quando fischia l’inizio del secondo tempo, è impaurito e paonazzo.
Ma passano diciotto minuti, e a sollevarlo da ogni colpa: Farré.
Guillermo, Guillermo Farré, trent’anni e un destino anonimo, prima del ventisei giugno duemilaundici, Guillermo Farré è quel centrocampista che con una sgropponata da faticatore indefesso, da centromediano metodista tutto sudore e fango, al diciottesimo minuto del secondo tempo pronunzia una condanna che odora di definitività, una condanna concentrata in una lettera, una sola, la seconda dell’alfabeto, una condanna che puoi leggere sugli spicchi del pallone che ancora rotola nella rete, subito dopo essersi insaccata, prima che Pavone vada sul dischetto per provare a ridare le speranze, per calciare un rigore che vedi di darci un rigore o ne esci mica vivo, Pezzotta, un rigore che s’infrange contro le mani di Juan Carlos, Juan Carlos Oleva.

Non che possa funzionare altrimenti: ci si conosce sempre su un transatlantico, a cena al tavolo del Capitano, le ragazze di quindici anni che per sposarsi si va in America, i ragazzetti di terza classe che per morire si va alle Americhe, i genovesi che un bel giorno decidono di fondare una squadra di calcio per il quartiere, di bardare le maglie bianche di rosso.
Il River Plate, a centodieci anni dalla fondazione, per la prima volta, domenica scorsa è retrocesso in serie B.
Ai tifosi, svanita la rabbia riottosa, non resterà che l’amarezza per il presente, e uno sguardo malinconico da gettare a una gloriosa storia ormai passata, alle vestigia degli avi.

Che a pensarci bene è una ròba d’una tristezza, è davvero il caso di dirlo, Monumentale.

Fabrizio Gabrielli

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