La società dello spettacaaargh! – 6
luglio 11, 2011 21 commenti
[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5]
Caro Jacopo,
non ci avevo fatto caso, ma è più di un mese che ci alterniamo nello sbrogliare il famigerato gomitolo da cui tu hai tirato un primo filo. Questo dannato groviglio mi pare rimanga bello grosso e intricato, eppure qualcosa siamo riusciti a dipanare.
Archiviamo quelle definizioni che hai riassunto, ma con una riserva. Non sono convinto che l’assurdo «non dia scandalo»: o meglio, «scandalo» è una parola assai complicata e che può voler dire molte cose, è un nodo che va sciolto con cura e sano puntiglio; non a caso, in effetti, il suo antico significato è “trappola”, per cui o ci sono cascato dentro io, o bisogna davvero muoversi circospetti. Da noi l’assurdo produce indecenza e indignazione in abbondanza: dico quella autentica, quella che ci fa scattare quando un Brunetta se ne va dicendo «siete l’Italia peggiore». Il problema, mi pare, nasce quando si passa al «che fare?». E «che fare?», dall’omonimo libro di Lenin alla conclusione di Fontamara di Silone, non è una domanda da poco, e non è legata solo al qui e ora. Io avevo parlato di «distruzione di relazione logica con la realtà», perché mi pare quello l’effetto principale, l’emanazione più diretta a partire dalla fonte. Forse col tempo e nel tempo, per sfinimento, un uomo può arrivare all’indifferenza, al non provare più alcuno scandalo, ma non ritengo lo si possa dare per scontato: non sarebbe fatalista, da parte nostra?
Era anche per questo che avevo proposto di sviluppare il più possibile a parte ogni discorso sul Potere, ma mi rendo conto che ciò è arduo, e in effetti anch’io, tirando un filo, quello legato all’assurdo, ho finito per dare qualche scossone anche all’altro. Segno, forse, che a breve dovremmo iniziare a parlarne, suppongo, e segno forse che noi cogliamo soprattutto questo effetto del Potere, guardandoci attorno. Credo non si debba perdere di vista che il nichilismo di cui parli e di cui parliamo non è solo italiano, nella contemporaneità, e che quindi non sia automatico escludere dal campo, per esempio l’Europa: Camus e Debord, che hanno scritto rispettivamente L’uomo in rivolta e La società dello spettacolo, libri il cui contenuto la nostra discussione va a toccare e ha già toccato, erano francesi, e non credo avessero in mente l’Italia, nello scrivere. Il rischio è che si tirino i fili che a intuito ci sembrano interessanti, finendo però per creare un altro groviglio, magari “nostro”, ma pur sempre lontano dall’essere un filo dipanato, chiaro e limpido all’occhio.
Del resto, l’aver citato un «tic linguistico» americano ti ha aiutato a far emergere e chiarire un punto del discorso da te trattato in precedenza: un po’ come quando stiamo cercando una cosa, e nel cercarla ne scoviamo un’altra che da tempo avevamo dato per persa.
Tu dici: «con tic linguistici intendevo non dei tic mentali che si manifestano nel linguaggio – come quelli cui mi pare tu ti riferisca – quanto dei tic del linguaggio che sembrano scavalcare le facoltà intellettive, ridurre la persona al linguaggio e in particolare al linguaggio mediatico». Ora questa frase è molto densa e complessa, e mi prenderà molto spazio. È un punto importante del discorso, mi pare, e trattando di un problema del linguaggio e del pensiero, si rende necessario calibrare bene, per l’appunto, i miei pensieri e il mio linguaggio. Eviterò troppa teoria, e cercherò invece di aderire agli esempi che hai fatto, anche perché, come tu hai detto, si basano molto su sensazioni, e quindi bisognerà ch’io mi rifaccia, inizialmente, a esse.
Questi «tic linguistici» mi pare non nascano come «tic mentali»: lo diventano attraverso l’uso, reiterato e tendente al meccanico, al riflesso pavloviano che fa sbavare e urlare «pd meno elle!» appena suona il campanello. Chi li pronuncia, insomma, li pensa secondo uno schema e un’intenzione, e poi, circolando, essi acquistano uno statuto che non è direttamente collegato al valore linguistico. Al di là del fastidio che può dare, soggettivamente, l’espressione «macchina del fango», da un punto di vista strettamente linguistico, va detto, non ha nulla che non vada, poiché designa un procedimento sistematico volto a produrre disonore e infamia (fango, secondo una comune accezione che il termine ha). È una «figura», e per spiegarne lo statuto, che ha qualcosa in sé di misterioso e potenzialmente paradossale, mi appoggerò ad una citazione da Genette1:
Lo statuto della figura non è sempre stato chiaro nello spirito della tradizione retorica. Fin dall’antichità questa definisce le figure come modi di parlare lontani da quelli che sono naturali e ordinari, o anche […] semplici e comuni; ma nello stesso tempo […] nulla è più comune e ordinario dell’uso delle figure e, per riprendere la formula classica, si fanno molte più figure in un giorno di mercato in piazza di quante non se ne facciano in più giorni di assemblee accademiche. La figura rappresenta una deviazione in rapporto all’uso comune, la quale deviazione è tuttavia nell’uso comune: ecco il paradosso della retorica. […] L’espressione semplice e comune non ha forma, la figura invece ce l’ha: eccoci ricondotti alla definizione della figura come distanza tra segno e senso, come spazio interno del linguaggio.
Dunque, in origine, un’espressione come «macchina del fango» o anche «pd meno elle» ha uno spazio diverso rispetto a quello che avrebbe lo stesso concetto (diciamo che i concetti sono, rispettivamente, “produzione sistematica e scientifica di notizie volte a gettare discredito e infamia” e “i due principali partiti del paese sono politicamente uguali”), ma noi siamo simultaneamente in grado di cogliere sia lo spazio originale, sia lo spazio che occupano nella figura; analiticamente, e dunque in modo meno immediato, noi siamo in grado anche di cogliere la differenza tra i due spazi. Che succede, però, attraverso la reiterazione o l’uso totemico2 di un’espressione? Succede che, attraverso la comunicazione di massa, che è una comunicazione unidirezionale e tendenzialmente a-critica3, l’uso linguistico deforma lo spazio originario, a vantaggio dell’espressione sostitutiva, diminuendo il senso di deviazione linguistica, la possibilità di percepire la deviazione, lo scarto. Ma se scompare il senso di deviazione, scompare, nel tempo e nell’uso, il significato reale che l’espressione figurata andava a sostituire. Così abbiamo Concita de Gregorio che, su L’Unità, si appella a sproposito al fango e alla macchina del fango per parlare del suo abbandono da L’Unità, come se parlare o criticare il suo operato fosse di per sé un crimine; lo stesso errore, attenzione, che fa Saviano quando critica Galasso che muove, sul palco del Maurizio Costanzo Show, una critica all’operato di Falcone4. Ne consegue che è facile, persino per chi inventa una «figura», finire per dimenticare, nell’uso, il concetto di partenza, o di perdere qualcosa rispetto alla relazione iniziale tra concetto e forma linguistica.
Il risultato di questo percorso è che si arriva, linguisticamente e mentalmente, alla catacresi, ossia a una forma linguistica per cui non c’è sostituto. Noi, per esempio, diciamo “gamba del tavolo” (ma il tavolo non ha gambe) o “piede di porco” (ma non è parte di un animale) senza deviare da una espressione di origine, perché nella nostra lingua abbiamo solo queste espressioni per quelle cose. Per cui il rischio è che alla lunga si arrivi ad avere, in italiano, o «macchina del fango» o nessuna alternativa per indicare il concetto alla base dell’espressione «macchina del fango»; a perdere il concetto, e ad avere soltanto il sostituto, la forma linguistica. Il rischio è che si arrivi a perdere il concetto e ad avere soltanto figure vuote, forme senza densità: forme, addirittura, la cui densità dipende da una mia attribuzione arbitraria e totalmente scollegata da questioni linguistiche, o alla mia fiducia verso chi ne è depositario. È, suppongo lo avrai ben capito, un processo nichilista.
Del resto, una parola come «comunista», oggi, è forse emblematica, se si pensa a come viene intesa nel «senso comune» di cui parlava Genette. È infatti un senso comune che, addirittura, impedisce od ostacola una trattazione storica o filosofica del termine, poiché nell’uso è prevalsa l’accezione propagandistica “comunista -> oppositore del centro-destra5”, tanto che un giudice che chiede un rinvio a giudizio è subito bollato come comunista, a prescindere dal merito della questione.
Spero di essere riuscito a schivare eventuali pagliuzze o travi, in questa mia replica, e penso sia il caso, per ora, che mi fermi. Andare oltre, per parlare ad esempio di come ci si liberi da simili svuotamenti, significa, per come la vedo, parlare di quel Potere cui hai accennato nel tuo primo post, e vedere se e quanto è direttamente collegato a questi fenomeni (io penso di sì, ma non è questi fenomeni, sospetto, o al limite è anche in questi fenomeni), a meno che la loro trattazione non richieda ulteriore specifiche.
1 G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi, 1969, pp. 190-191. Il passo è preso dal saggio intitolato, per l’appunto, Figure (pp. 187-202).
2 Uso questo aggettivo (una figura!), “totemico” proprio per rappresentare l’uso di un’espressione che esprime identità e appartenenza. Ossia “uso questa espressione non perché la condivida o la comprenda, ma perché in me prevale l’accordo e la sintonia con chi la dice”. In ciò vive naturalmente si accetta, consapevolmente o inconsapevolmente, una fuga dei significati.
3 Un lettore potrà dire: e la rete? io la rete, con rispetto parlando, la considero un mezzo, uno strumento, come può esserlo un vocabolario. Avere uno strumento non rende di per sé edotti: se impugno un bisturi non divento un chirurgo, se impugno un vocabolario non divento un linguista; posso farlo se allo strumento accompagno delle competenze che mi permettono di usarlo appieno, di esplorarne e sfruttarne le potenzialità.
4 Nel concetto di Saviano, infatti, «macchina del fango» si riferisce all’uso (reale o inventato) di particolari inerenti la sfera privata, intima delle persone, deformati per scopi di propaganda. Criticare un magistrato perché accetta un incarico presso il ministero di Grazia e Giustizia (è il merito della critica di Galasso a Falcone), non rientra per l’appunto nella definizione data da Saviano stesso.
5 Da notare che anche “centro-destra” è una forma linguistica che devia e di cui si tende a perdere il senso di deviazione, poiché questo centro-destra di moderato ha ben poco.
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Il linguaggio, parlato o scritto, è costituito da un insieme di simboli, sonori o grafici. Il simbolo esprime sempre una sintesi di significato di ciò che gli è superiore e, in questa funzione, tutti i simboli parlano delle cause delle quali mostrano la natura. Nel susseguirsi causale è inevitabile arrivare a dover concepire i principi che, a loro volta, sono simboli della centralità che è Causa delle cause. Non c’è altro modo per districare il groviglio dell’esistenza. Ci si chieda se questa vita ha delle ragioni di essere, quali sono le leggi applicabili al tutto, e che ordinano il tutto anche nelle sue eccezioni. Ci si domandi quali sono i principi che ognuno di noi segue, e se questi sono legati alle leggi che sono il modulo attraverso il quale la verità si afferma. Non si fa altro, in fondo, quando si osservano le idee fondanti di una parte politica, di un credo oppure di un “non credo”, ma lo si fa non conoscendo le leggi alla base della vita, sperando di cogliere, a casaccio, quello che si pensa essere il senso che il caso non può avere.
Mah, io, come principi, quando scrivo in genere scrivo per ispirazione di Dio, delle Muse, o dello Spirito Santo, a seconda che si tratti di un giorno pari, didi uno dispari, o un festivo. I festivi pari sono un disastro, perché le Muse sono molto capricciose, per il resto skfsjlsjlfjsnmvbcxlvjsdfjiosaaàafdhailjsljfakjspèga, come si dice in questi casi.
Tu, come tutti, scrivi pescando nel pozzo oscuro della tua ispirazione intellettuale (si dice per dire)… chiamiamola ispirazione e basta così non si offende nessuno… 😉
Tu, come tutti, non sai cos’è questo pozzo né dove si trova, e neppure se ha una cuccia dove ripararsi. Non lo so nemmeno io, il che è tutto dire, considerando che io conosco la rava e la fava delle cose meno necessarie al vivere sereni.
Di fatto entrambi scriviamo ugualmente, ognuno al grado e con le sfumature che gli sono propri, ognuno con la presunzione che lo caratterizza. Come di certo ho ampiamente dato d’intendere io non sono affatto presuntuoso, almeno a me così pare, ma non potrei giurarci. Non nascondo che mi piacerebbe esserlo se potessi, né che, sempre se mi fosse concesso dal mio stile e sconfinato buon gusto personale, nonché dalla mia illimitata intelligenza… insomma vorrei dire che se fosse una cosa auspicabile tenterei di schiacciare voi creduloni sotto la morsa di un conoscere che, disgraziatamente, non maneggio nel migliore dei modi consentiti e non. Questi modi prevedono la delicatezza, il garbo, il rispetto per la sensibilità altrui, il ricordarsi che la verità è prima compassionevole che vera, in una sequenza gerarchica che adesso non saprei ordinare; non sarebbe nemmeno importante farlo dal momento che io tutte queste qualità non le posseggo proprio. E poi non vedo perché insultare le intelligenze altrui mostrando l’esagerato volume delle mie conoscenze le quali, nel migliore dei casi mi farebbero passare per coglione, quando io lo sarei comunque, anche se tacessi. Scelgo, dunque, la via breve… 😀
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