La società dello spettacaaargh! – 7
luglio 18, 2011 25 commenti
[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6]
Caro Matteo,
prima di arrivare al «Che fare?» – soprattutto perché ancora non ho la più pallida idea di cosa si debba fare – vorrei riprendere le mosse dall’assurdo come «distruzione di relazione logica con la realtà», forte anche della tua analisi delle catacresi.
Un discorso forse meritava maggiore articolazione e precisione: quella faccenda dell’Illuminismo e di Kant. Cosa dice Kant a proposito dell’Illuminismo? Dice che l’Illuminismo è l’uscita dalla minore età mentale: l’Illuminismo per Kant è la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità delle proprie scelte.1
Ora, se ci pensi bene, l’autonomia della coscienza è possibile solo rispetto a una realtà, a una verità, a una logica, a una sostanza partecipabile, accessibile, oggettiva: si ha coscienza di qualcosa. Quindi Kant infine dice una cosa ovvia ed enorme: che noi abbiamo accesso al giusto, al vero, al buono, al bello; e dunque non abbiamo bisogno di uno stato etico totalitario o di una chiesa che stabiliscano un *giusto*, un *vero*, un *buono*, un *bello*, e che ci persuadano a ricercarli e praticarli con un sistema di premi e punizioni.2
Autonomia della coscienza e assenza di coercizione, dunque, sono due cose che si tengono assieme e si tengono assieme in un solo modo: l’accesso alla realtà. Diversamente, abbiamo una *verità*, stabilita e non scoperta, inventata e non accolta. E attenzione, ciò non accade solo nello stato totalitario e collettivista, ma anche nello stato liberale e individualista quando trionfa quel pensiero che ho definito “debole” o “relativista”, cioè quando la coscienza si dichiara autonoma non in relazione alla verità ma nel pretendere di fondare una *verità*. Per esempio, spesso intuiamo una contiguità tra fascismo e berlusconismo e c’è sempre qualcuno che ci fa notare come il berlusconismo sia proprio il contrario del fascismo: goduria, non rigore; barzellette, non serietà delirante. Ma io credo che il legame stia nel «Me ne frego». Il «Me ne frego» stabilisce l’abolizione della relazione alla realtà: la contiguità non è tanto nella repressione, quanto nell’arbitrio. In entrambi i casi, mi pare, abbiamo a che fare con ciò che è stato definito come “assurdo”: la distruzione di relazione logica con la realtà.
Tu dici, se ho capito bene, che il potere non si identifica del tutto con gli svuotamenti della lingua. Credo di essere d’accordo, ma forse gli svuotamenti ci dicono qualcosa su ciò che sta sotto gli svuotamenti.
Credo che il potere che attacca la lingua per mezzo della lingua trovi il suo sostegno in un preteso pragmatismo che è in realtà anti-pratico, figlio del dominio della tecnica, di una ragione puramente strumentale che non sa darsi altro fine al di là dell’uso stesso del mezzo. La metto in altri termini: la complessità è bandita in quanto complessità, ogni giustificazione viene rinvenuta nel qui e ora, nel cosiddetto “concreto”, che è di fatto un’astrazione perché astrae da tutto ciò che non è qui e ora; la complessità viene poi recintata dal tabù: «Come si fa a dire questo?», «Queste sono seghe mentali». Senza contare l’inerpicarsi dei piani meta– che costringe l’eventuale attività critica ad aumentare di complessità: più sono i presupposti impliciti del mio sofisma, più tu sei costretto a smontarli prima di poter affermare qualcosa, più stai facendo seghe mentali su cose di nessunissima importanza; il non plus ultra è il singolo, semplice, evocativo sostantivo che si autofonda rispetto al suo significato: il partito «dell’amore», il partito «degli onesti», i «moralisti», passando per la «felicità» del famigerato pd della mia zona, e finendo forse un giorno in un incubo avallato dalle parole «sinistra» «ecologia» e «libertà», come più o meno avviene, per come lo leggo io, in Muori Milano muori! di Gianni Miraglia (Elliot 2011): insomma, compriamo come concreto ciò che è astratto – l’insignificanza – e bandiamo come astratto ciò che è concreto – la significazione.
In passato mi sono interrogato sulla brutalità che viene riservata alla “cultura” quando questa rivendica la sua complessità e insieme il suo diritto a parlare del reale, e ho la sensazione che l’arbitrio, il relativismo, l’idolatria siano mezzi violenti per allontanare la realtà in quanto complessità3; anziché porci nei confronti della complessità del reale in atteggiamento di apertura, ci poniamo in modalità difensiva.4 Non è all’opera un tentativo di allontanare la complessità anche nella risata reificante? In questa mancata cura del reale, in questa disattenzione programmatica, l’assurdo mi sembra già legittimato.
Ora, tu dici che l’assurdo spesso dà scandalo. Non ho dubbi, però parto da questo: la semplicità è un valore, ma lo è la semplicità dello sguardo, non la pretesa semplificazione di una realtà di per sé complessa: questa è la differenza che mi pare passi tra il povero in spirito del Vangelo e l’ultimo stadio della civiltà della tecnica. E ho paura che sia la forma a fregarci, che sia l’inerpicarsi dei piani meta– a essere sempre più complesso mimando una sempre maggiore semplicità; e che alla fine le parole ci parlino. Da un lato mi sembra che il grido che si leva contro l’ingiustizia sia sempre più forte, concreto, connesso alla realtà con semplicità di sguardo e sempre meno con volontà di semplificazione; dall’altro lato mi sembra che la concretezza si dissolva con l’espulsione della complessità che in molti casi sembra compiersi comunque quando quel grido cerca una forma (né mi pare che l’espulsione della complessità sia compatibile con ciò che intendo con sinistra). Da un lato mi sembra che il grido sia spesso noia o sfogo dell’impotenza o assuefazione all’aggressività; dall’altro lato anche nella noia, nella sensazione di impotenza e nell’assuefazione all’aggressività vedo i sintomi di un malessere. Torno sempre lì: qual è la soluzione? Abbiamo bisogno di realtà contro sovrastruttura o possiamo – e dobbiamo – accontentarci di sovrastruttura contro sovrastruttura?
E venendo alla tua domanda, Matteo, è possibile che avvicinandoci all’idea di espulsione della complessità noi ci si stia avvicinando alla natura di quel potere?
1Dico «l’Illuminismo per Kant» perché è la definizione a sembrarmi importante, qui. Si può discutere se sia quella giusta, ma il punto è cosa questa definizione dice, al di là del nome del fenomeno cui Kant l’associa.
2 Anche perché, direbbe Kant, se ci sono premi o punizioni, lì non c’è propriamente morale: che valore morale avrebbero un giusto, un vero, un buono, un bello che non fossero liberamente, gratuitamente scelti?
3 La complessità è spesso associata alla cultura, che viene aggredita in quanto cultura; altre volte la complessità viene accettata, come economia, come diritto. Ma attenzione: non si tratta forse di un surrogato, di una forma di riduzionismo delle molteplici dimensioni dell’umano alle sole dimensioni tecniche? Non c’è qui, accanto a tanta complessità tecnica, una mancata interrogazione su ciò che dà un senso alle convenzioni dell’economia e della giustizia, e senza il quale esse diventano puro arbitrio?
4 La vediamo quasi sempre in termini di volontà di potenza, ma forse può essere interessante vederla in termini di paura, sempre che le due cose non siano la stessa cosa.
Jacopo: l’ultimo passaggio è davvero micidiale, è materia su cui spenderci anni di riflessioni… per certi aspetti mi fa pensare a quella parte di “Assalto a un tempo devastato e vile” di Genna, dove parla della dispersione della materia del cosmo verso la periferia… in sé ogni granello appare più semplice, eppure è il frutto di un lavoro millenario, di cui si porta dietro le tracce che nasconde (o che davvero ha disperso)… insomma, il discorso sullo sguardo è fondamentale, e forse oggi è davvero necessario, come insegna il lavoro di regia di Kiarostami, ritornare all’ABC. Altrimenti, davvero, continueremo a perpetrare questa scissione di un linguaggio che parla in vece nostra, che produce significati dai quali restiamo tagliati fuori per la gran parte…
Su twitter segnalano (@filosottile) che le continuità tra berlusconismo e fascismo sono evidenti nel “Bell’Antonio” di Brancati. Io il libro non l’ho letto, voi? Vi torna?
No, grazie della segnalazione.
I punti di continuità per me sono moltissimi (chiedo venia per la risposta forse un po’ generica), a cominciare dal culto del capo. Personalmente ho un interesse secondario, almeno d’istinto, come chiave d’approccio, sui distinguo del tipo “lì si basava su questo, qui si basa su quest’altro”, mi interessa più constatare l’esistenza del fenomeno, la sua sostanza, che è quella dell’idolatria. In linea di massima oggi il sistema produttivo consumistico, tutto basato sul desiderio, in particolare il desiderio indotto (il quale, nella prassi, nel tempo, crea il gusto, che è nozione diversa dal “bello”) educa e predispone all’idolatria, ossia all’immagine sovrapposta al reale, alla falsa percezione.
@Simone,
sì, credo che il discorso (e il lavoro) sullo sguardo sia fondamentale: è l’idea che mi sta portando verso la fenomenologia.
@Flavio,
non ho letto Il bell’Antonio: ti ringrazio per la dritta.
Deleuze vs Lacan in versione Recalcati: credo che prima o poi ci arriveremo.
Naaa… una verità non è mai la scoperta di un ricercatore, ma è il ricercatore il quale, essendo stato accettato dalla verità… si è accorto di lei. Se, per un insolito accidente, accadesse che un’ipotesi formulata da un individuo fosse sovrapponibile alla verità, insomma che questo individuo ci abbia beccato in pieno, allora quella che è stata il frutto di un ipotetico azzardo cesserebbe, con quel sovrapporsi, di essere una proprietà individuale, o invenzione che dir si voglia, per trasformarsi nella verità che irride tutti coloro che credono di conoscerla a priori. La verità può essere guardata, considerata, più raramente compresa sulla sua superficie, quasi mai capita nella sua essenza centrale, figuriamoci vissuta, ma certamente mai sarà conseguenza di un’invenzione né, tantomeno, di un’idea personale.
@Massimo,
vorrei poterti dire di essere d’accordo, poi rileggendo mi sono reso conto che questo passaggio («Diversamente dalla verità, una *verità* viene stabilita e non scoperta, inventata e non accolta») non è chiarissimo. Invito a leggervi piuttosto: «Diversamente, abbiamo una *verità*, stabilita e non scoperta, inventata e non accolta».
@SP,
se siete d’accordo, vi chiederei di sostituire all’originale la versione qui sopra.
@Massimo,
grazie, senza il tuo commento non mi sarei accorto dell’opacità..
Ok, provvedo subito.
S.
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Yo! merci! ^__^
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