Trattato della vita elegante

Torna in libreria in questi giorni, in una versione diversa dalle precedenti, il Trattato della vita elegante di Honoré de Balzac, edito da Piano B.

In anteprima riportiamo la prefazione di Alex Pietrogiacomi.

***

La via della semplicità

Per quale motivo portare nuovamente alle stampe un testo di Balzac all’apparenza anacronistico e classista?

Perché di questo libro si parla di continuo, perché ha spunti di riflessione attualissimi per la nostra società, nel suo puro anelito di bellezza e eleganza, perché può essere letto in diversi modi, perché è un libro “segreto” di cui si tramandano i precetti e di cui si vogliono conoscere le parole, una specie di Hagakure dello stile interpretato, recitato e ambito da snob, dandy, gentleman, intellettuali. Perché in suo nome si sono formate associazioni maschili, in Italia e nel mondo, che ne fanno studi, seminari, giornate e momenti di confronto.

Perché è atteso da anni, In Italia sono uscite tre pubblicazioni prima di questa: un’edizione del 1917 dell’Istituto Editoriale Italiano, una del quella del 1982 per l’Editore Longanesi con le illustrazioni di Gavarni e la più recente delle Edizioni ETS a cura di Tiziana Goruppi del 1998, edizioni difficili da reperire o impossibili in alcuni casi da consultare.

Perché alla fine della sua lettura, viene voglia di rileggerlo immediatamente, con spirito ogni volta diverso, più critico, più autocritico, scoprendo così un’ambizione al bello nella sua accezione più alta.

Le risposte sono molte.

Storicamente tutto ha inizio nel 1830, in piena post rivoluzione sociale quella del Luglio, con l’Illuminismo che aveva santificato il lavoro e la borghesia che assurgeva a nuova classe dominante, ansiosa di riscattare i propri natali e la propria posizione sociale. Proprio questa voglia di affermazione fece sì che in Francia spopolarono le Fisiologie, veri e propri codici comportamentali che legavano indissolubilmente a regole ferree i propri lettori: manuali sulla toilette, sul gusto, sulla moda e via discorrendo.

Sulla scia della crescente popolarità di queste letture, nell’Ottobre/Novembre di quell’anno venne pubblicato il Trattato della Vita elegante di Honoré De Balzac, in cinque appuntamenti, sull’ebdomadario “Le Mode”. La rivista di successo che intesseva la grande trama della nobiltà aristocratica con il gusto popolare del pettegolezzo, rendendosi immancabile nelle discussioni di ogni bocca borghese che ambisse al dolce gusto della ricercatezza e dell’eleganza, ospitò quella che Balzac aveva immaginato come un’opera in quattro saggi, che riguardasse la società del tempo, analizzata attraverso uno sguardo attento e con spirito dissacrante, che però non fu mai portata a termine e diede alla luce soltanto La Physiologie du mariage e Il Traité de la vie élégante rimasto incompiuto.

Quest’ultimo è fatto di cardini solidi e grimaldelli per divellerli, aristocrazia snob e democrazia partigiana, di dictat e passi contro tempo.

A una prima lettura le argomentazioni sono semplici: l’uomo elegante non può che essere aristocratico, non può che appartenere a quella classe di persone che sono distanti dal lavoro, che si tengono lontane dai turbamenti fisici che questo può arrecare. L’uomo elegante è l’uomo che non fa niente (“L’Homme habitué au travail ne peut comprendre la vie élégante”) insieme a lui può comprendere e percorrere questa via l’uomo che pensa, l’artista (“L’artiste est une exception: son oisiveté est un travail, et son travail est un repos; il est élégant et négligé tour à tour”). Lontano da ogni forma di comprensione che appartiene a queste due categorie, c’è l’uomo che lavora (“En faisant oeuvre de ses dix doigts, l’homme abdique toute une destinée, il devient un moyen […]”), con le sue giuste distinzioni, perché un avvocato è una macchina perfezionata rispetto a un contadino, un muratore o un soldato. Ma il movimento, non è quello che si richiede per vivere elegante.

L’eletto è quello che ha “maniere”, che evita di sprecare le proprie forze per interessi economici e che le serba per imprese più cortesi. L’uomo che lavora, è quello che scimmiotta, l’imitatore, il borghese che ambisce ai vestiti dell’aristocratico, ma che non comprende il tessuto stesso dell’agio di un abito o del portamento di un vero fashionable.

A una prima lettura, “Signori si nasce, non si diventa” verrebbe da pensare, e nel caso si volesse intraprendere la via dell’eleganza ci sarebbe da inerpicarsi per una strada decisamente in salita per chi non è elegante di natali. E gli aforismi che vengono formulati durante tutto il testo possono essere letti come precetti da sgranare con le dita della devozione per raggiungere una meta fortemente ambita.

Ma Balzac ha degli intenti manifesti e altri non manifesti, abilmente occultati. Egli pone l’accento sull’aristocrazia, ma difende l’artista che vive del suo ozio che è il suo lavoro e il suo lavoro che è il suo riposo, un uomo elegante e trasandato che è sempre grande. Difende il dandy, pur disapprovandolo (“Le Dandysme est une hérésie de la vie élégante”) perché subito dopo sottolinea come si debba usare pensiero e scienza, consacrandoli e attingendo ad essi, cosa che molti dandies hanno fatto e continuano a fare. Da voce al primo e più controverso dandy, Lord Brummell, in un incontro mai avvenuto per fare cosa? Per darsi autorevolezza? Forse. Per creare confusione nel lettore? Sicuramente.

Perché dopo aver reso il dandismo un’eresia fa sì che il suo massimo esponente s’innalzi a eroe caduto e magister elegantiae.

Qui e in tutto il testo quindi sembra esserci una sorta di capovolgimento di intenti, dove la regola deve essere violata, sovvertita. Perché l’animo dell’autore, seppur frenato dai tempi in cui scrive, tende a elogiare un comportamento per poi non rispettarlo.

È così che comincia la seconda lettura, quella privata della mera fascinazione per un testo che insegni esclusivamente ad essere eleganti seguendo norme codificate, e si entra nell’intelligenza al servizio del buon gusto, nella critica dell’affettata ricerca dell’ostentazione, arrivando al superamento di questa per entrare in un mondo personale, singolare e armonico. L’uomo non ha bisogno di un trattato che gli dica come comportarsi, ha bisogno di riscoprirsi unico.

Unità, nettezza e armonia. In sostanza l’uomo ha bisogno di semplicità, di distinta sobrietà. (“Si le peuple vous regarde avec attention vous n’êtes trop bien mis, trop empesé, ou trop recherché”).

Viene dunque facile il collegamento con i nostri giorni dove testate giornalistiche, saggistica self help et similia, vanno a costruire, attraverso percorsi vincolanti e omologanti, uomini e donne che non riescono criticamente ad assemblare la loro identità e la loro consapevolezza di esseri senzienti.

Una nuova genia in cui l’elegante è il costoso, in cui l’abito serve per il lavoro, per la percezione altrui di un sé lontano dalla sostanza più intima di chi lo indossa, un mondo fatto di completi uguali, colletti bianchi, di griffe, che si pasce del silenzioso gregge che felice pascola nei suo campi silenziosi.

Il Trattato della vita elegante, letto con la giusta motivazione critica permette di andare oltre lo schema precostituito dell’eleganza, aiuta ad allontanarsi dalla moda fine a sé stessa, a ritrovare il gusto per l’educazione (di modi e di scelte), spezza il legame con l’unico codice a barre che tutti i giorni si indossa insieme a milioni di persone. Una panacea antica per la rozzezza moderna e l’assopimento del gusto.

Per arricchire questo percorso di lettura sono stati scelti come illustratore Massimiliano Mocchia di Coggiola, moderno dandy che non si discosta e anzi esalta con il suo stile di vita, i concetti di cui sopra, come postfatore Salvatore Parisi, psicologo e saggio dell’eleganza classica (cui devo l’incontro con questo testo) e la persona che ha ispirato la mia prefazione, la voglia di riproporre il Trattato e che ha partecipato con un suo intervento a questo mio scritto, la professoressa Tiziana Goruppi docente di Storia della Cultura francese all’Università di Pisa e studiosa dell’Ottocento.

Voci diverse che creano l’armonia necessaria per poter tendere a quell’arricchimento della grazia e del gusto di cui il Traité de la vie élégante è attento custode e generoso maestro.

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