La società dello spettacaaargh! – 10
agosto 8, 2011 14 commenti
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Caro Jacopo,
mi pare che dopo un lungo, faticoso e complesso ragionare, bello nella sua autenticità, si sia arrivati in uno di quei punti in cui a scacchi si propone la patta. Non perché la posizione raggiunta renda in sé la partita un matematico pareggio, ma perché si è arrivati prossimi a una situazione di equilibrio, e la stanchezza fa pensare “mi conviene, ora, perturbare questo equilibrio? Sono in grado di farmi carico delle conseguenze, dei problemi che scaturirebbero?”. Questo perché la risposta ai quesiti che sollevi, in sostanza, io non la possiedo. Io dispongo, al massimo, di una mia risposta, di una scheggia di autocoscienza levigata dal tempo, dal dolore e da qualche scintilla di grazia. Quindi ciò che scriverò ora attende una valida e preziosa confutazione; è il punto cui sono arrivato nel labirinto, e non la «formula che mondi possa aprirti».
Il problema di questo potere, nel modo in cui agisce sui fenomeni, e mi riallaccio al labirinto di Escher, è che relativizza le nozioni, creando quei piani meta di cui tu parli. Ossia: tu e io abbiamo probabilmente la stessa nozione di “alto”, ma se in un dato momento ci troviamo in posizioni opposte e ribaltate, dove alzando la testa ciascuno scorge la testa dell’altro, quella nozione che di per sé ha un valore ci porta all’incomunicabilità, perché oltre un dato punto, il mio “alto” sarà il tuo “basso”, e perché risulta incomprensibile, rispetto al labirinto, capire chi sia in “alto” tra me e te. Ma questo tipo di labirinto ignora, nella propria struttura, l’esistenza di alcune componenti dell’umano: l’empatia e la simpatia, legate alla cognizione e alla condivisione delle emozioni nel rapporto con l’altro. Parlo dunque dei rapporti umani, non del generico sentimentale che schiude le porte al kitsch. Nel labirinto arriva un punto in cui devo accettare l’assurdo, e comprendere che il presupposto su cui costruire una qualsivoglia verità è l’umano: la consapevolezza che entrambi condividiamo disorientamento, angoscia, paura e difficoltà, che entrambi siamo bloccati nell’assurdo. Questo, naturalmente, per trovare chi come me accetti questo livello, sul presupposto del riconoscimento reciproco.
Uno dei problemi del linguaggio tecnico e burocratico che oggi fonda in concreto i nostri diritti, invece di limitarsi a riconoscerli, tanto che da poco siamo arrivati all’idea di mettere nella Costituzione il pareggio di bilancio, delegando dunque la sovranità a un’idea funzionale a un paradigma economico (paradigma per giunta disastroso), è il suo essere un creatore di piani meta, come dici tu, che però si fa struttura, e dunque rende secondario questo piano umano, che invece di per sé è strutturale. Il linguaggio burocratico non traduce in norma qualcosa che viene deciso, ma occulta la decisione per renderla più efficace. La capacità di riconoscere e smontare questi occultamenti, quando essi provano a farsi strutturali, è in primis un atto di resistenza cognitiva. Io non darei per scontato che ciò sia sempre possibile, e non darei per scontato che ciò sarà per sempre possibile: sono ottimista, oggi, proprio perché ci sono occasioni in cui avviene. Ciò è possibile, dunque, fintanto che accade: ma ciò è possibile finché ciò che avviene nella nostra coscienza si concreta nel mondo, si fa creazione, e non è solo pensiero, e da possibilità in noi intraprende il cammino per diventare realtà fuori di noi. Certo, è una creazione che riguarda probabilmente addetti ai lavori, come dici tu, o è frammentaria, per cui se rapporti questa realtà concretata, che è qualitativa, con le dimensioni del Leviatano, del Moloch, passandola dunque al vaglio di una misura quantitativa, sarai incommensurabilmente perdente; c’è da restare annichiliti. Ma se ciascuno, dalla particolare angolazione delle proprie competenze concretasse la propria rivolta, o se un numero rilevante di persone iniziasse a farlo, queste persone mostrerebbero il possibile nel reale. Il qualitativo, per somma di singole unità, diverrebbe quantitativo, gestalt. E questo dovrebbe, in qualche modo, modellarsi attorno a un’idea di comunità, a progetti e a esperimenti di comunità, per evitare la condizione di monade espressiva ogni volta tesa a lanciare un segnale oltre il muro, od ogni volta messa a confronto con quell’assillo di cui parli, quell’atavico e angosciante «serve veramente?». E perché, inoltre, la solitudine si addice al pensiero, ma non alle trasformazioni sociali. Nel pensiero l’individuo è più della collettività, perché la collettività non pensa, ma esiste o agisce, ma «nella misura in cui il pensiero plana al di sopra della mischia sociale, esso può giudicare, ma non trasformare»1. Non è un caso, credo, se singolarmente sia facilissimo, in questo momento storico, sentir parlare di “rivoluzione”, parola tra l’altro dall’etimo per me bastevole a svelarne la natura illusoria2. Ma quando si esce dalla dimensione individuale, dalla percezione di una colossale macchina oppressiva che provoca in noi il desiderio, talvolta violento, di non vederla più, le domande da affrontare in concreto sono: con che sistema economico rimpiazzare l’esistente? Che cosa produrre? Con quali persone apportare i cambiamenti necessari? Sono domande che chiunque voglia prendere sul serio la parola “rivoluzione” deve porsi: altrimenti sta vivendo all’ombra di un idolo, di una falsa percezione impressa tra il reale e la nostra coscienza, un trastullo da dare in pasto alla rabbia. E porre queste domande, cercare risposte, è qualcosa che non può esaurirsi nel pensiero, e anzi deve uscire da una convinzione edenica di purezza morale, perché anch’essa per me è un idolo, visto che si è comunque nel labirinto, tra le grinfie del Leviatano, se essa rimane uno stato mentale: si partecipa comunque a un sistema produttivo che si contesta, con l’aggravante di non porre come problema la contraddizione; dico problema, attenzione, e non colpa, poiché non si sceglie dove nascere. Tanto vale contagiarsi, sperimentare, commettere errori; mutare il punto di osservazione. Tanto vale trovare chi è in grado di compiere ciò, o ne ha volontà autentica, in un ambito lontano dal tuo o dal mio. Puoi non capire nulla di economia, ma puoi riconoscere facilmente uno spirito affine.
Vedi Jacopo, oltre un certo punto, intangibile ma reale, queste mie parole o queste nostre parole smettono di essere pensiero, momento di riflessione, e iniziano a essere rifugio, nicchia, immaginario. Ma è solo il contatto col mondo (talvolta brutale, oggi fin troppo spesso amaro e odioso) che può aiutare a dissipare l’illusione. Altrimenti corriamo il rischio di stare in disparte e darci ragioni da soli mentre il treno va in una direzione che assolutamente non vogliamo per noi stessi. Se non vogliamo quella direzione, la domanda è: che cosa mi trattiene in questa posizione?
E per quanto tu dici dei due ordini temporali che avverti, uno ciclico e l’altro lineare… o non è l’essenza dell’eterno ritorno?
1 S. WEIL, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 2008, p. 94
2 Etimologicamente la rivoluzione è un revòlvere, ossia un ritornare al punto di partenza, e non un cambiamento vero e proprio.
Ogni opposizione, apparentemente inconciliabile quando osservata su un certo piano di realtà occupata, se considerata a un più elevato livello diviene una complementarità. Quest’ultima tende a risolversi nell’unità di principio dalla quale l’opposizione ha preso avvio, attraverso la separazione dall’unità principiale. È la ciclicità che modula questo ritorno della molteplicità all’unità primigenia. Questo ritorno non è mai una ricongiunzione attuata nel medesimo punto dal quale è partita la divisione apparente, perché nel muoversi del tutto nessun cerchio avrà mai la possibilità di essere chiuso. Per questa ragione è la spirale a rappresentare il modulo universale, e non il cerchio né la retta che, in questo muoversi, altro non è che il segmento di una circonferenza più grande. Il centro è il punto privo di estensione, quando considerato principio dell’estensione, e anche privo di durata se visto in relazione allo scorrere temporale, che consente alla realtà relativa di essere e agire. È a partire da questa centralità, e in relazione a essa, che alto e basso si trovano ad avere un ruolo specifico, ruolo determinato a propria volta dal rapporto visto in funzione del grado qualitativo e quantitativo assunto rispetto alla centralità che costituisce il punto di equilibrio che dà il grado della stabilità di questo rapporto. Dunque è attraverso la prossimità al centro dal quale la divisione ha avuto inizio, sia vista in un senso logico che temporale, che si stabilisce la gerarchia attraverso la quale le realtà dell’alto e del basso possono essere ordinate tra loro. È sempre una questione di principio, mai morale e quindi sentimentale, che mostra l’ordine o il disordine che armonizzano o scompigliano la realtà che si muove e ruota attorno al Ciò che “non è” in quanto causa dell’essere e superiore all’essere.
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