SP intervista TQ – parte prima
settembre 8, 2011 12 commenti
Il dibattito su Generazione TQ ha tenuto banco in quest’estate 2011: se n’è parlato tanto e ovunque, a cominciare dal primo articolo, Andare oltre la linea d’ombra, apparso sul Sole24ore, per proseguire su tutti i quotidiani nazionali e tantissimi siti e blog; molti hanno aderito, tanti altri si sono dimostrati scettici nei confronti dell’iniziativa. Dal momento che su Scrittori precari abbiamo ospitato diversi interventi più o meno critici, ci è sembrato giusto dare spazio, ponendo loro alcune domande, anche a due dei firmatari dei manifesti: Alessandro Raveggi (AR) e Sara Ventroni (SV).
SP: Partiamo dall’etichetta. Perché l’uso del termine “generazione” e in che cosa vi sentite di essere rappresentativi di tutte quelle persone che hanno oggi un’età compresa tra i 30 e i 40 anni? Non è limitante e limitativa questa “selezione aprioristica”?
SV: Il nome ha un profilo anfibio: esprime contemporaneamente ciò che siamo e ciò che siamo costretti a essere. Il dato generazionale indica inoltre che la frammentazione sociale si consuma – a partire dal lavoro – proprio sulla dorsale anagrafica: a seconda dell’età, e a parità di mansioni, si può essere di qua o di là, inclusi o esclusi. La maggior parte dei trenta-quarantenni italiani, alle prese con identità lavorative multiple, è al tempo stesso fuori (dai diritti) e dentro (una dimensione biolavorativa che richiede dedizione integrale e offerta continua di sé, fino alla soglia dell’autosfruttamento).
Sull’onda lunga della crisi economica, cui si aggiunge ora la minaccia di default, siamo arrivati alla legittimazione formale del ricatto.
Con buona pace dei detrattori, i TQ non sono votati alla presa del potere (il discrime generazionale è già presente, in ogni settore, a ogni livello) ma, semmai, alla ridefinizione di una cultura condivisa dei diritti.
Come ho avuto modo di chiarire nello scambio di mail successivo al 29 aprile, il focus Trenta-Quaranta non va inteso in chiave letteraria o psicanalitica (rottamazione del vecchio a favore del nuovo) né come un invito a rispolverare miti e riti dello scontro generazionale inaugurato dai babyboomers. Tra l’altro, la condizione di “gioventù perpetua” – imposta fuori tempo massimo ai tq – non è altro che un eufemismo attraverso il quale rendere socialmente accettabile lo sfruttamento.
Immagino questa formula – generazione TQ – come espressione di un’identità collettiva che si fa responsabilmente carico di un’esclusione forzata. È dunque, quella generazionale, una prospettiva assunta in modo critico; vuole indicare una condizione che non riguarda solo gli intellettuali, gli editori, i critici e gli scrittori ma tutti quelli che sono, e saranno, tenuti forzatamente ai margini dalla vita civile, politica e produttiva del paese.
AR: Vorrei far notare che nel primo Manifesto politico si dice: “TQ non cerca, tuttavia, uno scontro aperto da vivere simbolicamente come «uccisione dei padri» – o delle madri”, e lo sottolineo per far notare che il nostro discorso generazionale è distinguibile da altri che si mettono in campo al riguardo di un possibile scontro tra generazioni. Credo che in TQ, e mi sento di parlare a nome di molti firmatari, ci sia finalmente il tentativo, fino ad ora sempre rimandato dai nostri coetanei, di tracciare una linea, uno spartiacque che non sia tanto una cesura, quanto un punto di slancio. Andare oltre la linea d’ombra, scrivevano i cinque promotori iniziali: il riferimento al romanzo di Conrad non è casuale, perché significa che vogliamo evitare di pensare di trovarci da soli su una barca di moribondi condannata dalla maledizione di un vecchio Capitano, o di trovarci nel mezzo di un sogno terribile che ci rimpiccioliva e squalificava impietoso, volendo citare il protagonista del Ferdydurke. Certo, siamo trenta-quarantenni, e tutti quanti, chi come lavoratore editoriale – scrittore, editore, editor, traduttore, eccetera – chi come lettore o appassionato di letteratura, chi come ricercatore e accademico, abbiamo vissuto, sulla nostra pelle, numerose pratiche inquinate e degenerate prodotte dalle generazioni che ci hanno preceduto – ma forse a volte siamo stati complici delle stesse. L’essere Trenta-Quarantenni, credo, è oggi però una condizione più esistenziale e trasversale che verticale, specialmente in un’Italia che rigenera i vecchi a botte di anti-aging politico e giovanilizza i giovani per farne carne innocua e autocontrollata nella loro post-adolescenza interminabile. Siamo cioè Trenta-Quarantenni quando subiamo regole del lavoro che tendono a una flessibilità esasperante, quando probabilmente non conteremo con fondi pensionistici adeguati, quando le nostre pratiche culturali, e direi anche sociali, comunitarie, soggiaciono a pratiche di mercato oggi sempre più diffusamente fuori sesto e con uno scarso equilibrio tra qualità e commerciabilità, rischio d’impresa e divulgazione – e questa condizione, quindi, può estendersi anche a persone prima dei 30 e dopo i 40, in un Paese a crescita zero, che non sa più innovare. Partiamo da qui, guardando cioè al futuro, non facendo la lotta forsennata al passato. Si parla, sempre nel manifesto politico “di agire anche e soprattutto con il pensiero rivolto alle generazioni che verranno”, e questa mi pare un’ulteriore novità per guardare all’azione presente. Pensate ai tanti under 25 che oggi decidono deliberatamente di non lavorare: sono fenomeni che devono essere compresi da un lato nell’incancrenirsi del modello della sacralizzazione del lavoro retribuito e fisso che è iniziata già dal Dopoguerra, e dall’altro nella svalutazione radicale dei titoli di studio, dell’educazione, dell’università – non più fondati su merito, accessibilità e innovazione, ma luoghi di contenimento di masse abbienti alle quali non è più possibile concedere una posizione nella società, come lavoratori, certo, ma anche come cittadini. Generazione, quindi, come possibilità di generare migliorie condivise nel sistema che abitiamo ogni giorno: generazione come ideazione e crescita (quand’anche questa significhi decrescita, ovvero sviluppo intelligente e equilibrato), si potrebbe dire. In tutto questo sta la nostra proposta di “rappresentatività”. L’elemento forse che è parso meno nuovo in TQ, se volete, è quello dell’appello: una formula “vecchia” che tuttavia trovo garantisca una presa di responsabilità degli interpellati molto più forte di un’improbabile e iniziale condivisione e accesso a porte aperte, come si offre nel modello, da applicare su altri fronti ma certo non il Paradiso dei Modelli di produzione intellettuale, della Rete. Qualcuno deve pur sempre cominciare guardandosi negli occhi, specialmente in un movimento che si propone di svolgere una funzione di monitoraggio e d’azione reale, responsabile e “visibile”.
SP: “Avere tra i trenta e i quarant’anni in Italia oggi vuol dire essere cresciuti, per esempio, con uno stato sociale che garantiva dei diritti (a un’istruzione qualificata o a una previdenza decente) che oggi non garantisce più”. Questo è uno dei motivi su cui si fonda il discorso del “generazionale”. Ora: non è più importante, socialmente, il fatto che siano stati tolti quei diritti, rispetto all’essere cresciuti o no, con essi?
SV: Questo passaggio sottolinea la frattura tra ciò che abbiamo saputo esprimere e quello che siamo diventati: un paese che smentisce il fondamento della propria Costituzione basata sul lavoro e sull’uguaglianza dei cittadini, garantita dal principio delle pari opportunità (articolo tre): non mi riferisco ovviamente solo alla “questione di genere” ma allo spirito che orienta il nostro welfare: scongiurare l’esclusione e favorire la mobilità sociale. TQ mette l’accento sul noi-generazione per parlare del noi-paese: la generazione TQ è la prima, ma temo non l’ultima, a fare i conti con l’involuzione di ogni forma di inclusione democratica. Per questo motivo – come si dice nel manifesto – TQ ha il pensiero rivolto alle generazioni che verranno.
AR: È importante innanzitutto non buttare via il bambino con l’acqua sporca, avere non solo la speranza d’innovare nel futuro ma anche di guardare a quello che in passato di virtuoso è stato fatto e ci arriva come suo frutto: riconoscere che siamo figli di una tradizione repubblicana che fino a pochi anni fa si fondava sul rispetto della cittadinanza politica, culturale, educativa, su certe regole editoriali, sociali, politiche, etc. Ma anche che ad esempio esistono tante realtà di produzione intellettuale locali che vengono da lontano e vanno preservate. Di acqua sporca ultimamente ce n’è sicuramente troppa in giro, gli italiani si sono come “privatizzati” in se stessi, e la politica berlusconiana che domina da Venti Anni – a destra e a sinistra – esprime questa privatizzazione, questa enclosure della mente italica, nella gestione spettacolare dei beni e delle attività culturali, dell’industria editoriale – nella quale ci interponiamo mai da esterni, mai da puri e “illibati”, ma coscienti di possibili spiragli interni, istanze differenti – o nel modello della distribuzione libraria che sfavorisce gli attori principali di una pratica di scambio che da sempre è stata fondata sulla libertà, cioè autori e lettori. I distributori italiani dovranno capire un giorno, ad esempio, che il modello del supermarket appiattito, cioè quello di un supermarket che vende solo würstel precotti come interpretazione degenere delle regole del mercato neocapitalistico – produrre di più, produrre una sola cosa – è profondamente sbagliato e riduce la varietà ed anche l’appetibilità per il lettore al grado zero di un’editoria, che di per sé già si poggia (faticosamente) sullo sparare in aria, come fuochi d’artificio per una notte di festa, di autori esordienti, nonché su quattro – cinque autori di punta che vengono soggiogati a ritmi di produzione estenuanti.
SP: Non pensate che lo scopo di un gruppo, movimento, avanguardia debba suscitare, come effetto principale, una rottura, una discontinuità forte, dare un segnale di contestazione, di rivolta camusiana? Pensate che sia presente, nei manifesti TQ?
AR: I primi tre manifesti di TQ sono delle tracce scritte da oltre 100 persone. Il manifesto futurista è stato ad esempio scritto da una persona, e la sua retorica, per quanto ci sarebbe chi potrebbe dottamente contestarmi, oggi farebbe ridere anche il letterato della domenica. Chi attacca TQ dicendo che i manifesti disattendono le capacità letterarie dei membri, chi li usa per dire che scrittori e editor presenti in TQ non sanno scrivere o lavorare, fornisce volutamente una versione fuorviante dei fatti: non sono manifesti scolpiti sul Sinai, né tanto meno, com’è stato ripetuto fino alla nausea, sono manifesti estetici, o di poetica. Sottolineo ancora e valorizzo con forza il valore “trasversale” di TQ anche in fatto di eventuali poetiche espresse dai suoi autori: la stessa trasversalità che è presente nell’occupazione del Teatro Valle, nato da una base strettamente teatrale, e oggi molto allargato e aperto alla partecipazione di soggetti provenienti da altre aree. Insomma, i manifesti sono piedistalli, punti di slancio, reti dalle quali lanciarsi per certi traguardi che saranno espressi nell’inverno dal lavoro dei Gruppi e nella stesura dei nuovi Manifesti, anch’essi piedistalli, punti di appoggio, prime focalizzazioni per nuove attività d’interposizione: monitoraggio di realtà virtuose, azioni di promozione della varietà editoriale, produzione di documenti diretti a politici, organizzazioni e rappresentanti della gestione culturale italiana. E uso il termine interposizione perché mi pare che si adegui sia a uno spazio mentale (come produzione d’idee) che fisico (come produzione d’azioni in spazi pubblici). Lo uso poi giacché alcuni giornalisti si sono avventati sul termine guerrilla (intellettuale) presente nel Manifesto Spazi Pubblici. Da un lato hanno pensato (o voluto far pensare) che fossimo già pronti con delle sciarpe nere al collo e le mazze ferrate a sfondare le sedi di Feltrinelli e Mondadori, ovviamente volendo ridicolizzare l’apporto intellettuale e di dialettica interna di TQ. Dall’altro hanno voluto dimenticare completamente l’uso che se ne fa nell’attivismo viral – penso sempre a AdBuster, in questi casi. Se parliamo così di rivolta, credo debba essere oggi intesa in un senso camusiano differente, perché innanzitutto la posizione di Camus prendeva avvio da un solipsismo radicale dell’agente morale che poi incontrava la comunità nel motto para-cartesiano: “Io mi rivolto, dunque noi siamo”. Il suo era un fondo ancora esistenzialista, sebbene eretico. TQ, bisogna ricordarlo, ha avviato i suoi lavori da un nucleo a maggioranza composto da scrittori, si concentra molto sul concetto di pratica allargata mutuata dall’esperienza letteraria, e da una condizione intersoggettiva recuperata: una pratica culturale, prendi ad esempio andare al cinema, coinvolge sia autori-produttori che fruitori, coinvolge diritti e doveri d’entrambi e questioni d’accesso. Mi pare evidente il deficit in termini di accessibilità e varietà dell’offerta per i fruitori della cultura oggi in Italia. Si è interrotto un dialogo diretto tra chi produce e chi riceve cultura. Volendo rigirare il Camus cartesiano: “Voi siete qui, dunque noi ci rivoltiamo”, si direbbe nel caso di TQ. E sia Voi sia Noi siamo cittadini, partiamo da tutto il contrario di un solipsismo che vogliono imporci, nel gioco di una politica che pare agevolare malamente il mercato, e di un mercato che pare approfittarsi di un uso clientelare della politica.
SV: Sottolineo tre elementi: TQ è nata intorno a un’esigenza di confronto politico e non estetico. TQ è un movimento aperto a chiunque ne sottoscriva i documenti. L’azione di TQ non si esaurisce nella pubblicazione dei manifesti ma parte da questi per avviare iniziative su tutto il territorio nazionale.
Il segno discontinuo di TQ è nella composizione di esperienze, di competenze e di finalità non esclusivamente legate all’universo letterario; un’azione di carotaggio del fondo e di sopralluogo della superficie: non possiamo parlare di “cultura”, di “spazio pubblico” o di “bene comune” senza ancorare queste parole ai mezzi che materialmente condizionano la loro configurazione, e senza mettere in relazione le conseguenze che ne derivano, in ogni àmbito.
SP: Come hanno fatto notare i più maliziosi, la prima notizia su TQ è uscita in un articolo “sul giornale di Confindustria”. Come mai si è scelto di iniziare a parlare con i lettori di quel giornale? Anzi, se permettete un pizzico di malignità, non è che di questi tempi, e coi prezzi delle nuove uscite, si cercava di catturare l’interesse di quelle persone che possono permettersi di acquistare sei nuovi libri al mese?
SV: Molti TQ collaborano con quotidiani, riviste, periodici, ma TQ non è embedded ad alcuna testata. Siamo stati abbastanza chiari nel dire che il nostro sguardo è interno ai processi produttivi. Inoltre: TQ si rivolge a tutti
AR: Essendo stato invitato a Laterza “in contumacia” (ero in Messico, sono tornato in Italia da tre settimane, e il mio lavoro si è espresso via mail, Skype e telefono fino a fine luglio), e non essendo fra i cinque promotori iniziali di TQ, non conosco le ragioni reali della scelta del Sole24Ore. Posso però immaginare che si sia scelta non a caso la pagina culturale – che di per sé mi pare eclettica, variabile per contenuti e qualità – di un quotidiano che non solo è di Confindustria o ne rappresenta la posizione, ma che è anche letto da economisti e persone legate al mondo del lavoro, che avrebbero potuto così fin da subito “adocchiare” anche solo fuggevolmente l’appello e le intenzioni primordiali di un gruppo di lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni italiani. Un movimento che vuole proporsi di agire e interporsi nel flusso dell’economica e produzione culturale, rivendicando i diritti degli autori e dei fruitori come cittadini di uno spazio pubblico da ripensare. Potremmo dire che quella è stata la prima azione d’interposizione intellettuale di TQ. Pubblicare ad esempio il testo-invito su il Manifesto non avrebbe fatto lo stesso effetto, forse anche perché si sarebbe percepito come troppo “a casa”.
SP: Nei giorni successivi al primo articolo, le pagine culturali di tutti i maggiori quotidiani (Repubblica, Corriere, L’Unità, Il Manifesto, La Stampa, Il Fatto, etc.) hanno parlato di TQ. Insomma, si è dimostrato, sin da subito, che non mancano certo gli spazi per parlare a un pubblico vasto. Ma chi sono i lettori che compreranno i libri? Non sarebbe meglio innanzitutto, trovare piuttosto il modo per risvegliare la curiosità e l’attenzione del non-lettore e di trovare il modo di far aumentare i lettori?
AR: Non capisco di quali libri stiate parlando, sicuramente non degli autori presenti in TQ. Se parlate del non-lettore, magari accusando implicitamente TQ di rivolgersi solo ai letterati in senso stretto – che tutto sommato è un’accusa accettabile, per quanto confutabile nei fatti – tutta l’attività del gruppo Spazi Pubblici e direi di TQ al completo si svolge nell’allargamento della diffusione della diversità, nella promozione di attività non solo educative legate alla scuola, ma anche che valorizzino il rapporto tra gli autori e i non-lettori. Vogliamo sottolineare le carenze di accessibilità e qualità – la qualità della pratica, piuttosto che nei libri e quando parlo di accessibilità, parlo di libri, ma anche di festival, di università, di scuole pubbliche, come luoghi d’abitare.
SV: Anche se i libri sono dei prodotti, non hanno la vocazione di merce. O almeno: non tutti. TQ è convinta che sia possibile dare valore (non solo di mercato) e durata (possibilmente più dei canonici due mesi delle ziggurat all’ingresso dei megastore) alla vita di un libro. Questo significa però che la valutazione della filiera (produzione, distribuzione, promozione) e del sistema di diffusione e di ricezione (quotidiani, scuole, università, biblioteche, ecc.) deve essere lucida e non impressionistica; significa anche che è possibile ragionare e intervenire sui singoli passaggi per promuovere la bibliodiversità; per favorire criteri di interpretazione diversi dalla recensione promozionale. Bisognerà poi interrogarci sul futuro dei supporti materiali (e-book) non solo in relazione ai diritti d’autore, al destino delle librerie o della filologia testuale, ma per capire quali saranno le nuove frontiere dell’alfabetizzazione tecnica dei lettori e gli eventuali ostacoli alla circolazione delle opere.
Continua giovedì prossimo… stay tuned!
Io noto, e non ne capisco il senso, questo tic linguistico, presente sia in certe frasi di Alessandro, sia nei manifesti TQ: la tendenza, per esprimere un concetto, a girarci intorno partendo da negazioni. “Che cosa pensi di A?” “Io di non penso questo, non penso quello, io penso quest’altro”. Tutte queste negazioni, nel loro accumulo, sono uno scarto significativo rispetto a una norma linguistica, ossia la semplice affermazione, la risposta diretta. Mi chiedo: cosa c’è in questo scarto, in questa deviazione? Ancora non l’ho capito.
*”Io di A…” ecc.
Che culo avere cinquantanove anni, non avrei potuto giurarci ma il sogno di una vita si è finalmente avverato: non appartenere ad alcuna categoria è davvero gratificante.
Non sto tra gli appena pensionati, e questo lo devo a una frase che mi venne sciaguratamente alla mente da ragazzo, quando mi dissi che non avrei dovuto vivere nel terrore di non avere una pagnotta da mangiare.
Non appartengo, sempre per quella frasetta, all’universo delle formiche operose che, in batterie di incatenati, lavorano cercando di non pensare a cosa stanno facendo, pena il dover soffocare nell’iper produzione della propria bile.
Non sono più un giramondo, per aver collezionato lettere d’espulsione a raffica, con le motivazioni più astruse, tra le quali spicca il non essere desiderato da un Re di un paese dove quel Re ha sterminato la propria famiglia reale con un kalashnikov, il Nepal.
Non sono più un drogato, da quando i miei organi principali, seguiti da quelli secondari per arrivare fino ai tessuti connettivi, han messo in piedi una protesta sindacale vergognosamente piena di ricatti.
Non sono uno scrittore, perché per esserlo dovrei strisciare inventandomi motivazioni nobili che il Verbo eterno mi vieta di utilizzare.
Infine, sono costretto ad ammetterlo, devo ritenermi felice, di quella stessa felicità che riempie d’orgoglio chi, in fila alla cassa di un discount, ha nel carrello solo mezzo litro di latte, ma biologico, anche se a lunga conservazione. Ormai ho un’età che costringe a pensare al domani…
Raveggi ti contesto dottamente: il Futurismo non si tocca! 😀
Puoi fare di meglio. Anche il futurismo poteva fare di meglio.
ci si prova .-)
Come l’unità è più perfetta delle implicazioni che dall’unità si esporranno, nel loro scorrere ciclico, alla molteplicità dell’esistere, così la centralità è perfezione che s’irradia nella possibilità evolutiva che implica l’imperfezione da sanare.
Dalla perfezione priva di costrizioni, unica e assoluta, per la quale potenza e atto costituiscono l’unità inscindibile, si dirama la vita imperfetta, nei suoi componenti particolari, la cui somma è comunque sempre equilibrata in una relativa perfezione generale.
Il futurismo capovolge tutto questo trasformandolo nella follia materialista che è stata e che è. Il futurismo è l’esaltazione del limite e la negazione metafisica di ogni principio, e pure di ogni conseguenza. Stupidità allo stato impuro.
ZANG TUM PROOOOT
ps
Saluti alla signora
Sempre il bisogno di essere compresi dalla massa finisce col deturpare una verità che già si riduce quando è espressa. Aggravare il grado di quell’errore non porta giovamento a nessuno.
ZANG TUM SOB
PS
Saluti alla signora
Eh ma checccavolo! Con te non funzionano neanche le frasette corte, dovrò ricorrere all’onomatopea… 😀
Tre formine e del risotto, schiaccia ben quel che sta sotto, e poi alzale pianino… cubo stella biscottino…
Stavolta avrai un bel dire di non aver capito… 😀 😀 😀