La società dello spettacaaargh! – 13

[La società dello spettacaaargh! 1 – 2 – 3 – 4 – 5 – 6 – 7 – 8 – 9 – 10 – 11 – 12]

Ciao Matteo,

avrei voluto risponderti punto per punto, ma, proprio mentre tu giustamente invocavi un saldo aggancio al reale, affinché non sfuggisse proprio da sotto ai nostri, di piedi, il luogo fisico in cui stavo scrivendo si è trasformato in un gigantesco piano meta-: per due settimane il Centro di Pesaro è diventato la Festa Democratica Nazionale; e vediamo se, obliquamente, riesco a risponderti parlandoti di come l’ho vissuta da qui, da dentro, visto che per due settimane, per forza di cose, ho abitato nella Festa Democratica Nazionale. Ti prego di leggere anche le note ogni qual volta si presenteranno; giunto in fondo capirai perché.
Dunque, un cittadino del Centro non può recarsi alla FDN: ci è già dentro, geograficamente cooptato, e fa numero senza nemmeno volerlo, cammina attraversando lo stesso spazio attraversato da coloro che alla FDN si sono recati; visto da fuori, è come loro.
Sono abituato a vivere sotto il PD come sotto un’occupazione: vedo i simboli, gli stendardi, a volte qualche accampamento;1 ma è comunque uno straniamento quando una provincia della seconda superpotenza nazionale diventa la capitale, quando i simboli si tendono, si allungano, si issano, si trasformano in strutture, prolificano in un mare di bandiere e gazebo bianchi.2 Il sentimento predominante in città è: Finalmente! Il Centro pieno di gente, le bancarelle, i concerti, i dibattiti, c’è vita a Pesaro!3
Si pratica l’andare-a-vedere, perché di solito «non c’è mai niente», frase che, a proposito di tic, è divenuta da qualche anno un ritornello. Il Centro di Pesaro – conquistato in due decenni dal franchising, e reso spoglio dal decentramento dell’aggregazione (ché l’aggregazione fa “degrado”) – viene costantemente “rivalorizzato”, sempre più di frequente, compulsivamente, con eventi estemporanei, invasivi, tensostrutture orrende: a volte sono feste del Partito, palesi come questa FDN, o mascherate come il Festival della Felicità (a proposito di piani meta-); altre volte sembrano micro-innesti di sezioni di Feste dell’Unità, come la tombola natalizia con gli stand della Toyota o la balera alla Palla di Pomodoro.4 Il Centro viene “rivalorizzato”, insomma, nella misura in cui si tende a farlo sparire sotto qualcos’altro, come quando lo si vuole fare assomigliare, sotto Natale, a un centro commerciale filodiffondendo la muzak: è un luogo che acquista interesse solo se trasformato in un non-luogo. Certo, alla FDN si va soprattutto perché c’è altra gente, ma che ci sia altra gente non fa che ribadire il problema: si va solo nei non-luoghi ricolmi di merce e attrezzatura per il tempo libero, e ci vanno le stesse persone che non vanno in Centro quando «non c’è niente»; e tu capisci che il “niente” di «non c’è niente» è il Centro stesso. Non dubito che ciò accada anche altrove: la riproducibilità di questi scenari è parte del problema.
Vedi, Matteo, per me questo è un bel rovesciamento: il luogo è nulla, il non-luogo è vita.
Mi sembra che il luogo sia parte della complessità del reale, una complessità che il non-luogo, nel suo essere nulla, nel suo essere omologato, semplifica. La semplificazione è lo spazio sul quale si può muovere liberamente il consumo. Ma il consumo, come atteggiamento tendenziale, proiettato verso la conquista degli oggetti esterni, ridotti a merce, è un movimento opposto all’accoglienza, ovvero l’atteggiamento ricettivo – la semplicità dello sguardo – che solo può valorizzare ciò che si offre spontaneamente e gratuitamente: un paesaggio, uno scorcio, un’opera d’arte, un essere umano. Presi nell’egemonia culturale dell’utile, dimentichiamo che ci sono altri modi del rapporto con la realtà esterna, dimentichiamo che c’è anche il modo dell’attenzione, per cui vale il paradosso della mistica: una passività attenta rende attivi, liberi dalla reificazione; di contro l’attività pulsionale rende passivi, si diventa oggetti degli oggetti che si desidera controllare. Quando quel rimosso si ripresenta sotto forma di ciò che per essere vissuto può essere solo accolto, come accade per il luogo, lo cancelliamo. Più lo cancelliamo e più perdiamo l’abitudine.
Allora l’altra sera, mentre bestemmio cercando di uscire dal Centro con la bici e rimango incastrato tra tende e flussi, incontro un mio vecchio amico, una persona cristallina, intelligente e sensibile, alla quale voglio molto bene. Lui si sta facendo un giro alla FDN e naturalmente la FDN diventa quasi subito l’oggetto delle chiacchiere, e lui mi fa:
– Be’, dai, capisco che è una festa di partito, e magari crea disagio a chi vive in Centro. Però è bello vedere il Centro pieno di gente.
E io lì ho cercato di trovare le parole per dire quello che volevo dire, perché io non voglio mancare di rispetto al mio interlocutore mentendogli, e allora siccome mi dicono che mi manca la sintesi e sono verboso, ho detto:
– Questa cosa è esattamente il motivo per cui, quando questa cosa non c’è, la gente non viene in Centro.
Che me ne rendo conto: detto così non vuol dire niente. Il mio amico ha risposto:
– Sì, capisco, però intanto c’è. È qualcosa, è meglio di niente.
E allora ho realizzato che no, non se ne esce. E ho pensato a te, a Scrittori Precari, a Gianluca tra i cani e i polli, alla Società dello spettacaaargh!, ai piani meta-, e mi son detto: Dio mio, che piano meta- hanno costruito, come faccio a scendere da qui? E non sono sceso.
«Sì, capisco, però intanto c’è. È qualcosa, è meglio di niente.».
Ho guardato il mio amico. E ho pensato alle tue parole sul fatto che della realtà fa parte anche la paura della tazzina e che se il mio interlocutore ha paura della tazzina io devo prenderne atto. Ho provato a guardarmi con i suoi occhi, e chi ero? Uno che vuole aver ragione, uno che vuole convincere, controllare. E lui chi era? Un vecchio amico contento di vedermi, di scambiare due parole, che non voleva convincermi di nulla, semplicemente accoglie quel che c’è come è.
E allora tento di dire in un altro modo quella cosa che ho detto lassù sulla semplicità dello sguardo, sull’apertura, sul lasciare emergere: non è volendo cambiare le cose che cambierò le cose, è amando le cose per ciò che sono che, paradossalmente, contribuirò alla loro fioritura. E allora vanno bene i post, i libri, le analisi, va bene cercare di capire, vanno benissimo le discussioni se e quando l’interlocutore ne ha voglia, ma tutto questo va fatto per amore della conoscenza in sé, della comprensione in sé, soprattutto dello scambio in sé, in un atteggiamento di accoglienza verso il reale, dimenticando, mettendo tra parentesi la finalità politica, che non deve essere mai intesa come l’utile del pensiero tecnico.
Non sto dicendo che voglio essere apolitico, o peggio impolitico, tutt’altro: sto dicendo che devo diventare quella forma di vita da cui gli effetti politici scaturiscono spontaneamente, perché non c’è conoscenza che non nasca dall’emozione, dalla prossimità, dal coinvolgimento. E questo vale tanto per chi mi sta intorno quanto per me.5  

Jacopo

1 Qui in Centro il PD è spesso percepito come un clan straniero disceso dalle colline; percezione rafforzata dal modo maldestro, che tradisce assenza di familiarità, con cui il PD gestisce il Centro.
2 Quando vivi in una roccaforte così rocca e così forte, fai pensieri sul PD che probabilmente nessuno altrove farebbe. Ti domandi come guarderesti a tutto ciò se fosse il tuo partito – che non c’è – a essere una cosa sola con il Comune; ti sfiorano sogni del Novecento, a volte ti domandi se saresti stato integrato, organico, nella Pesaro degli anni Settanta, se in fondo, in quell’ottica, la sovrapposizione tra Comune e Partito fosse coerente, sensata – Pesaro è un luogo dello spirito, si diceva allora; ti domandi se non sia questo il tuo partito e tu stia solo ponendo un’irrazionale resistenza (sei un fondamentalista! fondamentalista!), e chiami sovrastrutture ciò che da dentro chiameresti narrazioni, chiami deriva, dominio della tecnica, apparato impolitico, vuoto ideologico, macchina che si autoproduce ciò che un sensato leninismo chiamerebbe necessità storica e che gli immancabili delle Feste dell’Unità chiamano semplicemente il Partito, e lo votano da sessant’anni così come i cattolici vanno alla messa la domenica.
3 Immerso nei riduzionismi di pro e contro, centro e destra, schiamazzi e vita, negozi, viabilità, riqualificazione, ti rendi conto che non esiste, a Pesaro, un soggetto plurale, di sinistra, in grado di analizzare ciò che accade qui, sia tutto l’anno sia in questi giorni, in termini di egemonia, di comunicazione, di battaglia per nominare le cose. Pensi che per farlo ci vorrebbero i comunisti, e ti viene quasi da ridere per il cortocircuito: è proprio quella tradizione culturale a essersi annientata in questa tendopoli e in discorsi, proferiti innocentemente, che potrebbero uscire quasi uguali dalle bocche di Berlusconi e Calderoli; intanto emergono nuovi soggetti che vorrebbero prendere il posto di ciò che era il Partito, senza averne le radici. Sul Festival della Felicità, voluto a giugno dal presidente provinciale, ho ascoltato una sola critica, da parte di un giovane esponente di SEL, ed era: spreco di denaro pubblico.
4 Vorrei esprimere un pensiero molto scomodo, ma che da qua, da dove sono, sorge con chiarezza: a differenza di altri problemi, questo specifico problema del PD non nasce dal ceppo cattolico, ma dal ceppo comunista: la Festa dell’Unità si è mangiata tutto, il pragmatismo – non il cristianesimo sociale, che almeno, se in qualche cattolico sopravvive, riesce a immaginare un altro mondo – è ciò che avvicina il PD alla Lega, ed è la morte del bello, bello che, ne sono ancora convinto, è un’immagine del bene. Da tutt’altra regione mentale, quella nobile del materialismo, che nella sua forma più elevata è un pensiero implicitamente anti-idolatrico e rispettoso della trascendenza, degradandosi attraverso il pragmatismo, il Partito è giunto al medesimo risultato di quegli altri: lo squallore. Lo fa con i suoi modi, con la sua storia, da una diversa prospettiva, ma ciò che scambia per l’Essere è la stessa cosa: lo squallore. Ciò va di pari passo alla trasformazione dell’amore per il popolo in populismo. Spesso trovo indisponente l’espressione PD meno L, perché è l’espressione di un pensiero che di quella storia e di quel percorso, di quello specifico modo di arrivarci, non ha nozione e non vuole averne; ma a un livello ancora più profondo essa è vera, e si accompagna alla sensazione che certi centri di gravità possano attrarre a distanza, trasformare a distanza ogni storia, cultura e pensiero in una rampa di lancio per raggiungerli.
5 Eppure sento anche che non si può accogliere tutto, che c’è una collera legittima, e che c’è un pericolo di determinismo e paternalismo; e che l’altro è libero, e quindi responsabile. L’ambivalenza di questa mia condizione sentimentale è espressa nell’ambivalenza tra lo spirito di questa lettera e le posizioni espresse nelle note, compresa questa, che ho inserito nella lettera.

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21 Responses to La società dello spettacaaargh! – 13

  1. E invece direi che a forza di ragionare, stai spogliando la cipolla di tutti i suoi strati… se può consolarti, non c’è solo Pesaro ad essere così: è tutta la provincia italiana, e se continuiamo in questo processo di spossessamento (di sé, dei luoghi?) presto lo saranno anche le città… penso a Roma, alle sue meraviglie, e alla gente che passa e che ha sguardi soltanto per le vetrine (non tutte certo, ma molte, che a guardarle sembra che non vedano…)

  2. Credo che l’accoglienza/accettazione di ciò che è sia l’unico modo per stare nel mondo.
    Continuo a ripetere a me stessa che l’unica cosa che posso provare a cambiare si chiama Federica. È poco? È poco, ma posso fare solo quello. Da me nascono le mie relazioni; dalle relazioni nasce vita; dalla vita nasce (anche) la politica.
    Ma forse ho una mattina un po’ esistenzialista.
    Chissà.

  3. enpi says:

    no, non se ne esce. però, il tuo amico, in fondo, stava comunque portando acqua al mulino della sua tesi, che poi è la tesi comune, dominante. di parimenti invasivo, dalle mie parti, c’è la festa patronale. quest’anno è durata una settimana. alla fine è come una festa dell’unità, senza riffa, e con i fuochi d’artificio – ogni sera, quest’anno anche con sottofondo di musica classica.
    io credo sia qualcosa di radicato, una celebrazione dei comuni, della città: alcuni fanno sfilare il santo, altri le bandiere. ma il Potere è sempre il Potere, ovunque, in ogni tempo, e il Potere concede al popolo – oggi si dice “alla gente” – la sua settimana di bancarelle. e no, non se esce. non ora, non nei prossimi duecento anni.
    e-

  4. Pingback: Un’immagine del bene « YATTARAN

  5. Massimo Vaj says:

    L’accettazione è parente stretta della tolleranza. La necessità di dover comprendere suonerebbe meglio.

  6. glauco martufi says:

    No, Jaco, non ti saresti integrato neppure negli anni settanta.

    “Loro” (loro…) erano culturalmente già così, anche se la loro Cultura era un dito (o due) più elevata di quella che negli ultimi trent’anni è “scesa dalle colline”.

    E’ stata dura, credimi e molti sono cascati, altri siamo stati in sonno (o in esilio).

  7. jacopo nacci says:

    @Enrico, ecco, vedi? Per me la festa patronale, almeno qui, ma anche la fiera – per quanto le bancarelle vendano tutto sommato oggetti prodotti in serie – sono esattamente il contrario dei non-luoghi: sono Luoghi, anche se temporanei.
    Capisco il discorso sul Potere, capisco il discorso sulle bancarelle, ma non di meno trovo vi sia una differenza radicale, anzi, un’opposizione frontale, tra la festa del paese e la cancellazione del paese.

  8. enpi says:

    non so, secondo me celebrano sempre i Potenti – di turno. chi comanda, legittimato dal Santo, o dal Partito.

  9. enpi says:

    però sì, la tua analisi è molto più interessante e dettagliata, di come la sto mettendo io. e le feste dei patroni [padroni], nei paesi, sono storicizzate, durano da 200, 300, 900 anni.

  10. jacopo nacci says:

    Enrico, non credo che la mia analisi sia più dettagliata: mi sembra che stiamo proprio parlando di due cose completamente diverse. Io mi riferisco alla cancellazione dell’identità dei luoghi, alla trasformazione di un centro storico in uno scenario asettico mediante precise operazioni estetiche. Questo non ha niente a che vedere con la celebrazione del Potere, anche se ha chiaramente a che vedere con il tipo di potere che sta operando.

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  12. Silvia says:

    “Sì, ma la gente ha sempre bisogno di lamentarsi”, è stata la risposta della titolare del ristorante in cui lavoro, quando ho provato ad accennarle che a non tutti l’idea della festa in centro poteva essere gradita, anche se lei si preoccupava, assieme a noi dipendenti, dei disagi che tale evento avrebbe portato, come ad esempio il pagamento del parcheggio esteso per l’occasione fino a mezzanotte senza esenzione per chi in centro sarebbe stato costretto ad andarci in auto perché ci lavora e no, non poteva permettersi di fare venti chilometri al giorno di bicicletta, tanto meno poteva permettersi di dare cinque euro al parcheggio quando ne guadagna sì e no quaranta al giorno. Essendo il suo ristorante sulla via principale della festa (un camminamento che costeggia da un lato il meraviglioso giardino privato di palazzo Baldassini e dall’altro una piazzetta semiverde sorta un anno fa per seppellire la pavimentazione di una domus romana risalente al I secolo), una via ribattezzata dagli art director “street food”, perché lì, nei gazebi, cucinavano ogni ben di dio, compresi i favolosi arrosticini abruzzesi e gli immancabili orgasmici bomboloni, noi saremmo stati inglobati e coinvolti, per forza di cose. Ho lavorato per due settimane zigzagando con i vassoi pieni in senso contrario alla fiumana: ho rivisto amici, persone che non vedevo da una vita, tra un ordine e l’altro ho conosciuto e scambiato con tutti, comprese le vecchiette che si sedevano ai nostri tavoli col paninazzo in mano, scambiati per una versione avanzata e più signora delle storiche panche della festa dell’unità. “Allora ci porta due caffé, un cappuccino e un prosecco”, “signora mi dispiace, ma questo è un ristorante giapponese, il caffè non l’abbiamo, al massimo posso portarvi del tè senza zucchero o del sake”, “cò è il sake?!”, “è una bevanda giapponese”, “gim via và, maché c’è i cines!”. Essì, è stato anche divertente. Ma i gazebi se ne sono andati e così le persone, ed è arrivata la bruma autunnale, un silenzio ottuso, l’erba secca a forma di gazebo sopra la domus sepolta, il figlio della mia titolare che ci racconta che in un locale poco distante una sera è arrivata la polizia e ha chiesto i documenti a tutti i clienti seduti ai tavoli all’interno, perché il vecchietto di un albergo si è lamentato del casino per strada. Poi ti ricordi del locale poco più in là che deve pagare una multa stratosferica perché il conte, titolare dell’albergo davanti, non ha gradito che all’inizio di luglio da lì uscisse della musica a l’una di notte, oppure di quell’altro locale, quello in cui ci troviamo più o meno tutti perché piace davvero a tutti e che sta nel bel mezzo del nulla, sulla spiaggia, in cui per tutta l’estate siamo stati costretti a ballare musica senza bassi e che anche alla festa di chiusura, il 16 settembre, ha dovuto chiudere alle tre, nonostante quel centinaio di persone ancora presenti, e pensi ad una forma di narcosi indotta, pensi alla depressione dei divieti di cui più nessuno si accorge, alla stupidità e alla cretinità semantica di certa segnaletica stradale, pensi al coito interrotto delle serate, al lungomare vuoto di gente a mezzanotte e mezza d’estate, pensi alle multe ai ciclisti senza campanello, e alla fine capisci che dare una festa demagogica nazionale per un popolo sottoposto a repressione travestita di legalità alla fine non può che renderlo grato ed entusiasta, e chi critica alla fine è perché la gente ha sempre bisogno di lamentarsi.

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