Peggio dei documentari con gli sciacalli che sbranano i cerbiatti *
settembre 23, 2011 1 commento
all in all is all we are
all in all is all we all are
all in all is all we are
all alone is all we all are
Intervistare questo soggetto è come lanciare una palla a un cane e il cane invece di scodinzolare e correre a prenderla rimane lì piantato e ti guarda un po’ imbambolato come a dire Vattela a prendere tu la tua palla che io ho da fare, anche se non ha niente da fare, il cane, forse è solo stanco, forse è solo una brutta giornata, forse i cani sono pieni di brutte giornate, forse la tua palla non la vuole nessuno.
La moda delle chitarre anni ’80 è finita, dice il cane, quel modo di suonare non ha più senso, era ora che qualcuno inventasse dei nuovi effetti, dei nuovi suoni, un nuovo modo di trattare gli amplificatori: bisogna tornare all’udito come istinto primordiale, alla foresta in cui ti aggiri e ti perdi, cacciatore, e senti spezzarsi un ramo alla tua sinistra e ti volti di scatto e il cuore ti finisce in bocca e a quel punto ti ricordi a cosa serve l’udito: l’udito serve a orientarsi, a sapere dove sono i pericoli, è per questo che nelle orecchie c’è il labirinto, è per questo che certe chitarre sono un suono bugiardo, le senti e non sai da dove vengono, o dove ti stanno portando, ti perdi, ti farai sbranare, cacciatore, occhio.
Spalmato sul divano con un cartone di pizza appoggiato sulla pancia, anzi, sul petto, vicino alla bocca, per non sporcarsi, per non allungarsi troppo, il cane continua a parlare. Le prime volte che prendevo una chitarra in mano mi mettevo lì e facevo dei gran assoli a caso, da subito, prima di imparare gli accordi. Ci sono quelli che vanno agli scout o dal loro amico più grande o al liceo musicale o che ne so, si mettono lì per imparare la chitarra e la prima cosa che imparano sono gli accordi con la mano sinistra e i ritmi con la destra, il minimo indispensabile per poter accompagnare un cantante. Ma io non volevo accompagnare nessuno: prendevo la chitarra, mettevo su un disco e ci facevo sopra gli assoli a caso, così, una corda alla volta, per allenarmi.
Con il gruppo facevamo concerti lunghi un’ora, divisi in due: mezz’ora di canzoni diciamo normali e mezz’ora di fischi di chitarre con gli amplificatori altissimi, ci mettevamo lì a testa bassa e giravamo tutte le manovelle e schiacciavamo tutti i pedali finché il suono diventava incontrollabile e incalcolabile, vagamente narcotico, non so come dire, diabolico, nel senso proprio che divideva la gente: quando alzavo al testa dal manico della chitarra vedevo il pubblico sfoltirsi: ridevano, i rimasti, sotto cassa tutto passa, avanzavano e muovevano la testa e si annusavano e si riconoscevano e godevano insieme, li vedevo che godevano, ma ognuno per i fatti suoi, si guardavano e guardavano noi sul palco e poi si guardavano ancora e facevano sì con la testa e ridevano e poi tornavano a guardare noi sul palco, ma non guardavano noi, guardavano il solito punto dietro le nostre spalle in cui si fissano gli sguardi vuoti dei cani che non hanno voglia di andare a riprendere la palla, non stavano ridendo, non c’è un cazzo da ridere, amici.
*Estratto da croccantissima, autoproduzione di simone rossi
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