croccantissima
settembre 28, 2011 22 commenti
croccantissima (autoproduzione, 2011)
di simone rossi
«(…) la semplicità è la qualità più difficile da ottenere, less is more,
ci vuole più tempo a scrivere un libro corto che un libro lungo.»
(p. 52)
Simone Rossi continua sulla strada dell’autoproduzione: su croccantissima (leggi l’estratto pubblicato su SP la scorsa settimana) c’è scritto che «questo libro non ha una casa editrice» e che «puoi ordinarlo a silkeyfoot@gmail.com».
Me lo immagino con i racconti in tasca – lo so, non è difficile immaginarlo visto che lo conosco – che li tira fuori e li legge come se fossero canzoni – anche se in fondo al libro dice che lui non legge, ma vi assicuro che la chitarra la suona. In queste storie – ma alla fine è una sola, e si capisce che ci sono vari fili tirati tra una storia e l’altra, anche se per vederli ci vuole orecchio – in queste storie, dicevo, si sente che c’è la musica, e il ritmo, le strofe e ritornelli, e i testi delle canzoni fioriscono un po’ ovunque – e poi nel mezzo capita anche la storia di questo cantante, questo Elliot Smith che intervistarlo «è come lanciare una palla a un cane», perché «invece di scodinzolare e correre a prenderla rimane lì piantato e ti guarda un po’ imbambolato».
La scrittura di Simone Rossi ha questa caratteristica: che ti rapisce come una musica, c’è poco da fare – è come dire che annulla lo spazio tra la scrittura e la lettura: ti viene insomma da leggerlo a voce alta, da cantarlo quasi. E poi, che non è cosa di poco conto, questi racconti parlano di cose piccole – nel senso che fanno poco rumore – ma “reali”, per quel che può voler dire la parola: cose che capitano a tutti, insomma (tipo il cellulare che non gli funziona più la sveglia, ad esempio, o fissarsi per giorni su una stessa canzone), ma con la capacità di trasfigurarle in una forma di surrealismo che mi fa pensare a certi pittori: a Chagall, ad esempio, o a Rousseau Le Douanier, che buttano tutte le figure per aria e saturano il colore – ecco, Simone Rossi sa dare colore alle parole, una tonalità precisa, ed è anche un po’ naïf, certo, e questa cosa dell’autoproduzione nasce anche da lì, in fondo.
Dunque, ci sono questi racconti che si direbbe nascano per colmare un vuoto – questa Marta che c’è e non c’è, che non si capisce se se n’è andata lei o lui, o forse nessuno dei due – e invece non è così, perché nonostante tutte questi morti – un funerale (di Marta?), e quel cantante di cui sopra che muore – nonostante i lutti, la scrittura ha una vitalità che non ti molla. Eccerto, altrimenti che ci starebbe a fare Gilles Deleuze nella lista di nomi alla fine? (anche lui morto, persino suicida, e però filosofo di un pensiero pieno di vita, dove i concetti guizzano da tutte le parti come pesci in un laghetto – e sì, anch’io sono un poco naïf).
Certo, poi voi mi direte che Simone Rossi dovrebbe tentare un libro più maturo (almeno uno di voi che lo direbbe lo conosco, e lui lo sa), che dai racconti dovrebbe passare al romanzo, smetterla con tutte queste idee buttate lì e non sviluppate, e che è un vero peccato: e io vi rispondo che la forza di questa scrittura sta proprio tutta qua, in questa incoscienza – nel senso che il Rossi se ne frega delle conseguenze, dell’ambiente letterario e delle sue regole (proprio come Rousseau Le Douanier, che disegnava tutto a due dimensioni, e chissà quanti gliel’avranno detto che non si faceva così, che le dimensioni ormai dovevano essere almeno tre). Io le raccolte di racconti le difenderò sempre con forza, senz’altro perché ne scrivo anch’io, ma poi perché un po’ mi hanno stufato tutti questi romanzi italiani scritti bene – alcuni bellissimi, davvero – ma poi alla fine mi sembra che manchi qualcosa, anche se un buon editor mi direbbe che invece c’è tutto, che gli ingredienti sono tutti al posto giusto.
E poi in questo libro caotico non c’è niente di buttato a casaccio: vedrete che a tirare certi fili e non altri le conseguenze cambieranno, e che di storie dentro ce ne sono diverse – e che almeno una vi scapperà sempre, non la troverete; e lì sta la forza di un libro: che non dice tutto (altrimenti, poi, come si farebbe a continuare?).
così, col vento nei capelli e le pernacchie nelle ascelle.
(grazie)
s.
Certo che chiamarsi “Sì mone” per dei veneti sarebbe praticamente un obbligo, ma nessuno di voi è di quella regione, vero? Eppoi metterci di seguito “ghelli” pare proprio una merci ficazione (i ghelli, o anche i daneé, in dialetto milanese, sono gli spiccioli). Scusate l’intrusione, ma quando c’è da far cultura è più forte di me… 😀
Rossi addirittura indica di brutto una politicizzazione del tipo “è mia e me la gestisco io”
puntate tutto quello che avete sui’rrossi. Vincerà lui.
mmmm… non c’è da giurarci sopra… coi tempi che tirano (per restare in tema) i ghelli (gli spiccioli), anche quando privati della dignità data dall’essere tanti, mantengono un ruolo ordinatore. I rossi sono ormai allo stremo, anche se hanno un piede che mette sotto pressione la catenella che impedisce alla porta di spalancarsi sull’orrore del quale vogliono impossessarsi. I rossi han mostrato ai giovani cosa si può essere disposti a fare per il bene dei cittadini, soprattutto per quello degli antagonisti. Date retta a me e puntate sui ghelli, non perdono mai.
Occasionalmente accade che chi scrive, per passione e non per lavoro, si chieda quale sia la ragione essenziale del proprio scrivere.
Non è come il chiedersi per quale motivo si vada al cesso al mattino; in questa ultima eventualità passione e lavoro condividerebbero la stessa valenza.
Tra le innumerevoli ragioni che vogliono soddisfazione dalla scrittura una è la mia preferita, e credo sia quella che le dita stringono quando si sventola il ventaglio costituito da tutti gli altri motivi: io scrivo per me stesso.
— Oh oh…— si dirà
— Che idiozia!
— Che scusa puerile
— Tutti sanno che il pensare esaurisce le funzioni del dialogo con se stessi
— Perché lasciar tracce così sconvenienti di sé?—
— Perché io non scrivo per avere in cambio una convenienza— risponderei se fosse del tutto vero.
Invece una convenienza c’è ed è data dal fissare, nero su bianco, concezioni migliorabili nel tempo che io trascorro cercando di migliorarmi.
Il pensiero scolpisce se stesso attraverso le emozioni che suscita, ma non è l’emozione il faro che cerco. Troppo mutevole è il sentimento perché possa sperare di rappresentare valori immutabili, e io scrivo per destabilizzare un errore.
L’errore che si commette quando ci si affida soltanto all’emozione, nella speranza di riempire un vuoto di valori.
L’ovvietà criminale che consiglia di andare dove porta il cuore è, dal mio punto di vista, analoga a quella che assicura il lavoro renda liberi.
Il vero cuore è quello che non contraddice la ragione, e la vera ragione è quella che senza il cuore si rifiuta di agire.
Che l’esistenza corrisponda a una donazione solo chi ruba non lo sa, e questo dev’essere sufficiente per associare al sacrificio di sé un valore che il sacrificare gli altri non ha il diritto di rappresentare.
Io scrivo, ogni volta, per ricordarmelo.
wiwa rossi
Cito: «(…) la semplicità è la qualità più difficile da ottenere, less is more,
ci vuole più tempo a scrivere un libro corto che un libro lungo.»
(p. 52)
C’era una volta un Re molto ricco e, di conseguenza, anche molto potente. Purtroppo per lui la vita che conduceva era esageratamente complicata: servi da punire, il volgo a cui dare esempio, cortigiani traditori, una moltitudine di cavalli che nitrivano per un nonnulla e una Regina bisbetica che era insopportabile. Non parliamo poi delle due figliole spendaccione e dell’unico figlio, un principino viziato, che trovava nella droga la sua unica ragione di vita.
Un bel giorno il Re si accorse di non poterne più di regnare sulla volgarità di un dominio costruito su una tale confusione, la quale gli impediva di distinguere la qualità dalla quantità dei problemi che dava il governarlo, così si decise a semplificarlo per riuscire a capirci qualcosa, in modo da prendere decisioni appropriate tese al suo miglioramento. Mandò la Regina da sua madre, lontano in campagna, e con lei le figlie, e liberò tutti servi donando loro i cavalli e il bosco attorno al Castello. Impiccò i cortigiani traditori e concesse al volgo la libertà di esprimersi senza rischiare la forca.
Il volgo ne approfittò in fretta e impiccò il Re, sostituendolo con i propri rappresentanti che subito andarono nel bosco, si ripresero i cavalli e i servi che li cavalcavano, sotterrarono i cortigiani impiccati, instaurarono la democrazia e chiamarono il reame col nome di “Stato del popolo emancipato”.
Intanto il principino non si era accorto di nulla, e nessuno si era accorto di lui, tanto la sua stanza era immersa nel fumo delle canne che si sparava di continuo.
Morale: Maggiore o minore che sia, la quantità complica o semplifica la quantità, mai la qualità, semmai la brutalizza.
Nel caso non ci fossimo capiti…
La semplicità è una qualità solo quando appartiene all’animo.
vaj massimo continua così, io non sono molto sicuro di capire quello che scrivi, ma va bene, davvero, hai il tuo stile, un po’ aforistico, cuore/mente, qualità/quantità, tutto/niente, boh, comunque secondo me confondi l’essere semplici con l’essere sempliciotti, e mi stai dando del sempliciotto, e secondo me sbagli, e comunque Castello si scrive con la minuscola, anche nelle favole dei principi sballoni.
e poi “è mia e me la gestisco io” è davvero una lettura che gli hai messo per far quadrare il personaggio: i miei lettori (inserire pernacchia) sono coinvolti nel processo di produzione (nel senso discografico di “finanziamento”) in una maniera un po’ più attiva dei vari vanity books o come vogliamo chiamarli.
ma che te lo dico a fare.
(ah, ti ho dato del tu solo perché vaj massimo era un raffinato gioco di parole sul cognome, visto che il livello del dibattito è questo. avrei potuto fare il carpiato “vaj al massimo”, che in queste giornate vascorosse ci stava pure bene, ma poi si tornava a rossi e non la finivamo più)
ciao linkami un tuo ebook se si trova da qualche parte.
ciao ghelli, ciao santoni, ciao eeeeh.
Non ci sono miei e-book in giro, tutta la mia produzione sta in qualcosa che supera di poco i venti mega nel disco rigido di un Mac che lo disprezza col resto dei suoi due terabite semivuoti. Non mi frega nulla pubblicare, almeno fino a quando non mi capiterà di incappare in un’intelligenza in grado di capire quello che scrivo e, in questo caso, che pubblicherei a fare? Chi conosce le realtà che io conosco non ha bisogno di leggere i miei scritti.
La semplicità è la mamma delle complicazioni. Entrambe, madre e figlia, sono da considerarsi delle quantità. Le quantità relazionano quantitativamente tra loro sul piano della quantità e il più o il meno che le riguarda nulla ha a che fare con la qualità, nel senso che sia la semplicità che la complessità possono essere qualitativamente apprezzabili non in funzione del più o del meno che le caratterizza. La qualità non la si misura attraverso la quantità, altrimenti si potrebbe dire che l’uomo è più intelligente della donna solo perché ha venti grammi in più di cervello. Si potrebbe persino ipotizzare che questi venti grammi servano all’uomo per far capire alla donna che ce li ha proprio per mostrare una responsabilità maggiore nell’insistere con l’essere stupido. Come la qualità di una materia è valutabile attraverso la direzione (disposizione spaziale) che le sue molecole hanno assunto nell’estendersi – spaghetti e zucchero sono carboidrati analoghi tra loro, ma disposti diversamente nello spazio – così la qualità interiore di un essere, ma anche di un suo scritto, è data dal senso che ha, mai dal numero di pagine scritte. Per ora accontentati di queste poche righe; capirai da te che ti friggerebbe il cervello se dovessi leggere, di mio, più di mezza paginetta alla volta… 😀
Lasciare sul tappeto dell’intelletto uno scrittore in agonia non è nel mio stile, quindi gli darò il colpo di grazia che la mia munificenza intellettuale reclama.
Qualità e quantità sono due princìpi universali. Sono universali perché applicabili all’universo nella sua totalità. Essi stanno su due piani diversi di realtà, anche se contigui tra loro. Se, però, li si volesse considerare nel rapporto reciproco che si otterrebbe osservando questi due princìpi su uno stesso livello di realtà, si otterrebbe ciò che è considerabile un’opposizione che si trasformerà in complementarità, quando vista su un piano più elevato di realtà, la quale darebbe origine, come è per tutte le complementarità, a una sintesi che è equilibrio armonico tra due polarità che, inizialmente, si affrontavano nel tentativo di escludersi a vicenda. È così che, se da un lato dell’asse che cerca il proprio equilibrio c’è il polo qualitativo… dall’altro lato si troverà quello quantitativo. È questo il caso in cui qualità e quantità si influenzano in proporzione del grado in cui si trovano a essere, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo. L’uno a scapito dell’altro. È per questo che se si ha una sola scatola di biscotti la si apprezza di più di quanto accadrebbe se ne avessimo la cantina piena. Eppure, come si capisce, i biscotti sarebbero sempre della stessa qualità.
Cercate, se volete mantenere a lungo la pregevole libertà data dall’essere scrittori precari, di non limitarvi a scrivere minchiate brevi, e di non contare neppure sul successo che non verrà contando le pagine da voi scritte. Smettetela di credervi intelligenti aggratis, perché l’intelligenza non ve lo perdonerà, mettendovi continuamente di fronte realtà che non capirete e che vi costringeranno all’ipocrisia, moglie dell’idiozia. L’onestà intellettuale non è merce che si acquista, e questo perché non è una merce, e la logica che la sostiene sarà raffinata in dipendenza della vostra capacità di riconoscere ciò che siete, perché senza questa capacità la direzione da voi presa sarà la vostra condanna. Cazzo, dovevo fare il guru… 😀
C’è sempre molto da imparare…
io massimo se avessi avuto un professore come te avrei dormito di gusto, ma sai di gusto? proprio di gusto. tra l’intellettuale sempliciotto e le supercazzole epistemologiche davvero non so quale sia peggio. forse le supercazzole.
no, forse i sempliciotti.
ma no, le supercazzole.
c’è sempre da imparare, sì sì.
L’unico professore valido che ho avuto, a scuola, è stato uno di italiano, un uomo seriamente balbuziente che si masticava la cravatta. Stando seduto sulla cattedra picchiava incessantemente i talloni contro la lamiera della stessa, con una ritmica maniacale che induceva al suicidio. Di lui ho un ottimo ricordo, e non perché non si capiva molto delle sue lezioni, in fondo per un perito scrivere bene non è essenziale, ma rammento la sua umanità, la smisurata pazienza frutto della sua amorevolezza. Avevo sedici anni quando quasi gli sfasciai il maggiolino giallo che mi lasciò guidare. Non si lamentò neppure, ero il suo studente più dotato e anche il più problematico. Non devo certo convincervi su questa ultima caratteristica. Non avete nulla da imparare da me, certo, ma avete il dovere di disimparare da voi stessi. Io vi sto aiutando solo a considerare i vostri spaventosi limiti intellettuali, e sono quelli che vi fanno apparire una logica stringente come fosse una supercazzola. Di solito questo è l’effetto che faccio alle persone che sono intellettualmente meno che mediocri, perché il mio esporre è geometricamente matematico. È troppo semplice criticare come hai fatto, senza chiarire dimostrando il perché ciò che ho scritto ti è sembrato una cosa priva di senso. Io così mi comporto quando critico qualcuno, sono circostanziato, non essendo più un bambino della scuola dell’infanzia…
yawn.
L’intellettualità che sbadiglia, quando non può dire altro, è adatta a darsi obiettivi così severi da poter essere centrati con due dita, un elastico e qualche freccetta di carta ripiegata tre o quattro volte. Non è ammirevole, ma sempre meglio di niente è 😀
questo vaj dev’essere un uomo molto solo. molto triste. me lo immagino tetraplegico, che schiaccia i tasti del suo mac con una biro, usando la bocca. oppure con un ocr molto moderno, un programma che scrive lettere quando parla. altrimenti è un generatore automatico di invidia e saccenza poco istruite. non so. so solo che uno che monopolizza un sito, che non è suo, che invade ogni commento, io l’avrei preso a calci in culo da mesi, al posto degli scrittori precari, ma proprio fisicamente, soprattutto per poesie come questa:
io sono
gocce che bagnano
gocce che uniscono
gocce che danzano.
vaj a coltivare le cose che mangi, vaj. lascia per un po’ internet, corri nei prati, cattura lepri, fai qualcosa, su. perfavore.
(volevo solo dire che questo qua sopra non sono io: il tentativo di scrivere senza minuscole è lodevole, ma ‘ste cose io non le dico, massimo: non ti conosco e non ho mai letto le tue poesie e secondo me tu non hai mai letto i miei libri, ma non è un problema, davvero, sbadiglio per rinfrescarmi il cervello, per me la discussione può tranquillamente finire al commento precedente: gli anonimi mi stanno molto sui maroni)
Quella poesia non l’ho scritta io, e detesto la vigliaccheria né più né meno di quanto la deprechi tu.
L’anonimo pensa che i tetraplegici siano necessariamente soli e tristi. Ho lavorato a lungo all’Istituto Don Gnocchi di Milano, nel reparto delle patologie più serie di questo Istituto che, allora, era ancora pro juventute. Ho assistito molti tetraplegici, e nessuno di loro avrebbe mai scambiato la coscienza che la loro condizione porta con sé, con quella presunta felicità di cui si compiacciono gli anonimi della paura di vivere per ciò che sanno di essere.
Ci sono, e da più di venti anni, software che scrivono a computer sotto la dettatura di leggeri soffi incanalati in un tubicino che è parte di una cuffia che i tetraplegici gravi, ma anche i quadriplegici, possono indossare a quello scopo. Gli ocr sono programmi che consentono la scansione di documenti testuali e la trasformano in testo convertibile in molteplici formati, e nulla hanno a che vedere con i software che scrivono sotto dettatura, sia del soffio che del parlato. Come sempre le persone, della qualità dell’anonimo che ha scritto sopra, non rivelano essere soltanto calunniatrici, vili e malvagie, ma anche estremamente stupide e mai una cosa che affermano risulta essere intelligente e vera.