La società dello spettacaaargh! – 16

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Caro Jacopo,

torno molto volentieri sul libro di Federica Sgaggio: è un libro molto denso, nel recensirlo ho potuto scegliere solo alcuni nuclei tematici del libro e, come suggerisce la tua interessante espressione «eros per la logica», solo alcuni nuclei emotivi. Forse, a proposito della tua espressione, essa sintetizza ciò che manca a volte nella filosofia, la capacità di esprimere l’autenticità del sentimento che muove verso il sapere, dando forma e vita all’etimo del termine. A giudicare dalla dedica e dall’introduzione del libro (o anche da questa intervista), quell’eros nasce per una considerevole parte dall’esperienza in redazione, dal contatto con quegli ambienti che nel giornalismo vengono prima delle retoriche messe su carta (o su una pagina web), e forse questi aspetti avrebbero bisogno di essere raccontati e testimoniati al pari di quelli linguistici.
Ma è un altro aspetto quello che mi ha maggiormente colpito.

Prendo in prestito una tua affermazione, per muovere da essa il mio discorso:

Dai miei interventi precedenti era possibile trarre l’idea della tecnocrazia come causa di una condizione antropologica, mentre dal Paese dei buoni e dei cattivi mi sembra traspaia l’idea di una tecnocrazia come esito di una condizione antropologica (questo naturalmente è solo uno dei fili conduttori che è possibile rinvenire): l’esclusione di coloro che per natura o cultura non aderiscono al canone della produzione a tutti i costi si rivela funzionale al potere e alle pulsioni di appartenenza/esclusione.

Ecco, questo passo stimola in me riflessioni, lo trovo prezioso, fecondo. Riconosco anch’io nel libro di Federica, grazie alle tue parole, l’emergere di questo esito che muove verso la pura materialità, quando si parla in particolare di «merito». Lo avevo notato, sì, ma mi era sfuggita la relazione che stabilisci tu, in particolare tra il libro e questi nostri scambi.
Mi impressiona confrontare la massiccia opera di semplificazione della retorica del «fare»1 con l’articolo 4 della nostra Costituzione, che recita:

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Oggi l’idea che esista un «progresso spirituale» al pari di uno «materiale» è quasi inconcepibile: sfido chiunque a parlarne con un italiano medio. Ed è dolorosamente fuori dal dibattito pubblico, mi pare, anche un quesito come che cosa è il progresso?, quesito per nulla scontato. Si parla (straparla, viene da dire) piuttosto di debito da risanare, di produzione, di conti che devono tornare e di ingranaggi che devono girare senza essere rallentati od ostacolati, e poco altro. Ma, secondo me, se si toglie l’ambito spirituale, e se al contempo nella retorica aziendale del fare si promuove un piano –meta in cui si toglie legittimità al dibattito politico (perché è un ostacolo al fare!), il «dovere» è di concorrere solo al piano materiale, e si carica il concetto di lavoro di una violenza politica (e naturalmente economica) che prima non aveva: ciò che è rapido e ciò che è molto è positivo; il lento e il poco sono negativi, secondo questo piano. Compassione, pietà, cura rallentano, quindi sono elementi tutto sommato negativi. «Tanto muore», dice il medico che risparmia sui farmaci del paziente malato terminale (quindi improduttivo, inutile). È qualcosa di devastante, se si pensa a professioni quali per l’appunto il medico, o l’insegnante, o lo scrittore. Il progresso che passa per le mani e la testa di uno scrittore, per esempio, non può essere quantificato nel numero di libri che scrive, o nel numero di pagine prodotte, in un dato arco di tempo. Dovremmo allora considerare Alessandro Manzoni il prototipo di tutti i fannulloni odierni, considerando quanti anni ha impiegato per le vicende di Renzo e Lucia!
Mi viene da pensare, allora, che ambiti come la cronaca nera e l’annessa retorica che promuove lo schierarsi emotivamente (affrontata in maniera magistrale nella parte iniziale del saggio di Federica), tutto il meccanismo di emozioni per cui tu parli, intelligentemente, di «educazione sentimentale», presentino un aspetto che merita di essere affrontato e approfondito nelle sue varie declinazioni e manifestazioni. E secondo me si tratta di un gomitolo bello grosso!
Perché se dubitare, discutere, porre domande, se rallentare criticamente, se contestare, vanno contro questo modello che abbiamo chiamato “tecnocratico”, allora idealmente questo modello, prolungando la forza delle sue semplificazioni, è in «accordo categorico con l’essere». È questa l’espressione con cui genialmente Kundera chiama, ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, «un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse». Siamo dunque nel mondo del kitsch, un mondo dove il sentimento è oggetto a sé, sottratto all’empatia. Kundera, come ricorderai, usa il tema della merda partendo dalla genesi (perché l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio, e l’uomo defeca), e il dilemma per cui arriva al kitsch è questo «o la merda è accettabile (e allora non chiudetevi a chiave nel bagno!), oppure il modo in cui siamo stati creati è inaccettabile».
Nel modello tecnocratico del fare, metafisicamente non solo la merda è accettabile, ma deve essere sottratta al regno dell’osceno per essere tale: questo perché, se la merda non è accettabile, e se si ammette il dubbio critico che cosa è osceno?, il modello presenta una falla nelle sue fondamenta. Perché ti dico ciò? Perché la «cara piccola Sarah» cui la Palombelli si rivolge, così come i dibattiti pomeridiani e le interviste agghiaccianti di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque, sono tutte intrise da un sentimentale potentemente kitsch. Esso trova la propria giustificazione in un presunto diritto di informare, che, come si evince, si autoassolve nel momento stesso in cui inscena un possibile processo. E in questa assoluta e acritica assoluzione, afferma un principio, quello di poter trattare qualunque argomento: un piano –meta, questo pseudo-giornalismo, che in realtà abbatte l’osceno ed educa sentimentalmente a vivere oltre questo abbattimento. Lo rende intellegibile, partecipabile emotivamente, socialmente e, soprattutto, simbolicamente. Cito ancora dal libro di Kundera:

Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. I sentimenti suscitati dal Kitsch devono essere, ovviamente, tali da poter essere condivisi da una grande quantità di persone. Per questo il Kitsch non può dipendere da una situazione insolita, ma è collegato invece alle immagini fondamentali che le persone hanno inculcate nella memoria.

I cattivi, insomma, hanno una funzione ben precisa in questo schema: accogliere sulle proprie spalle «tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile». L’effetto principale prodotto da questo tipo non è tanto quello che Federica racchiude nella metafora dell’autobus2, ma di far entrare nell’autobus l’osceno. Siccome fuori ci sono i mostri, più i mostri sono fuori, più sono raccontati e sviscerati, più sottrarrò terreno alla semplice idea che dentro l’autobus possa accadere qualcosa di sbagliato, di immorale, criminale o osceno. L’osceno diventa senso comune, attraverso queste narrazioni (altrimenti sarebbe un punto nero, una zona oscura inespressa non sondata dalle narrazioni collettive), e attraverso queste narrazioni subiamo una educazione sentimentale che è funzionale al sistema di produzione, poiché riversa le sensazioni negative all’esterno, verso nemici altri, e che, simbolicamente, forse trovano la loro più efficace rappresentazione nei minuti d’odio di 1984.
Forse le mie parole sono intricate, e ti chiedo scusa per la fatica che forse farai per orientarti tra esse. Ma è il mio gomitolo: il kitsch nell’arte, il kitsch come produzione che espelle il senso dell’osceno e rimuove con esso il senso del sacro da ogni ambito della realtà. Quel meccanismo per cui, ogni tanto, uso quella frase provocatoria, «Benigni è il male».
È questo il mio aaargh.

Matteo

1 Una interessante trattazione è quella di Gustavo Zagrebelsky nel breve saggio Sulla lingua del tempo presente (Einaudi, 2010), pp 47-52.

2 Metafora che dice molto, forse, del forte pessimismo di Sgaggio. Perché fermo? Che cosa c’è fuori dall’autobus? La metafora omette campi di senso che non mi paiono affatto secondari.


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18 Responses to La società dello spettacaaargh! – 16

  1. Massimo Vaj says:

    Inutile suddividere schematicamente, in classi di appartenenza, i vari modi nei quali la necessità mostra di non essere inutile. La merda – chiamata “cacca” nelle biblioteche – è una necessità biologica, e su questo è inutile disquisire, ma è pure necessaria a stabilire correlazioni analogiche di entusiasmante portata. Tutto ciò che è scarto, feccia, schiuma, scoria, è utile nell’essere inutile, perché costituisce il punto di contatto tra due cicli vitali, assicurando la contiguità necessaria alla realtà che non può interrompere la sua corsa affannosa, pulsando verso la perfezione. Che la cacca – fate conto che quando si fa cultura chiamarla merda è poco fine – sia custode della continuità ciclica spaventa anche me, e l’idea di trapassare schiattato su un cesso con le tempie violacee per aver spinto troppo mi ha reso quasi stitico. Eppure… qualcosa mi sussurra che tirare in ballo la cacca dei santi non sminuisce le ragioni della loro santità.
    La cacca, in sé, non è affatto kitsch, come non lo è lo stercoraro che se la rotola in giro con dentro le uova dei suoi piccoli. Kitsch è negare alla cacca le sue ragioni d’essere, kitsch è imbellettarsi per nascondere la cacca. Kitsch è usare i fosfati al posto del letame, soffocando così il respirare della terra e, insieme a quello, sterminare i vermi che la mantengono viva.
    Kitsch è trattare di “metafisica” quando non si sa cosa sia la metafisica. Kitsch è credere di essere già quello che si è capito. Kitsch è non essere santi.

  2. matteoplatone says:

    Ancora tu?
    ma non dovevamo non vederci più?

  3. Massimo Vaj says:

    A dirla tutta non ci siamo mai potuti vedere… ma non nel modo in cui due occhi nella stessa testa non riescono a guardarsi. Ognuno di noi detesta nell’altro ciò che a lui manca, e a me manca la capacità di sparlare non dicendo mai nulla di sensato. Mi manca e, tuttavia, non ne sento la mancanza… 😀

  4. matteoplatone says:

    No, no, io detesto la gente che dice “uh, allora me ne vado, mi fate schifo” e poi torna, o che dice “uh, non dici mai nulla di sensato” e poi però commenta, e replica. E se son nebbia, che fai, parli con la nebbia? ah ah ah ah ah ah ah poraccio.

  5. Massimo Vaj says:

    Non amo le citazioni, anche se ne riconosco l’utilità: fanno risparmiare un sacco di tempo perché racchiudono, in poche parole, dei concetti nei quali chi cita è rimasto incagliato per non averne compreso il senso. Questo arenarsi è causato dall’annaspare di una mente che non sa di essere lo strumento dell’intelligenza e crede di bastare a se stessa. È per questo che una siffatta mente, quando tenta di flirtare con un’intelligenza che non sa riconoscere, si chiude in bagno a piangere… 😉

  6. Massimo Vaj says:

    Il mio essere tornato non è dipeso dalla mia volontà. Sono stato trascinato qui dall’afflato che spinge ogni persona responsabile a mettere un piede nella fessura che l’imbecillità lascia sempre aperta alla possibilità di redimere se stessa. È doveroso, per ogni apocalittico come io sembro essere, ricordare a coloro che si affidano alla certezza di essere nel giusto, solo perché non sanno cosa sia giusto, che la fine del gioco non dipende dal risultato dato dal lancio dei dadi sul tappeto della propria disperazione, ma dal grado di onestà intellettuale che mostrano di avere sullo scaffale in cui la vita li ha messi. Spero tu non sia allergico al tanfo del lucido da scarpe…

  7. matteoplatone says:

    No, solo al narcisismo frustrato di chi si mette in posa per la foto davanti alla webcam cercando la giusta postura dell’indice per sembrare abbastanza interessante.

  8. L’autobus è «politicamente» fermo, Matteo.
    La mia idea è che il simulacro di democrazia diretta che c’è fuori non sia politica nella misura in cui essa non costruisce percorsi comuni esterni al nucleo anch’esso identitario del «noi siamo contro e facciamo comunità».

    Per esempio: nemmeno a me piace il «porcellum», ma sono contraria al maggioritario che l’abolizione del «porcellum» comporterebbe.
    Quanta gente nella mia situazione ha firmato per il referendum pur sapendo che firmando avrebbe ottenuto un risultato politico diverso da quello che considerava accettabile secondo le proprie idee e le proprie aspettative, eppure rassegnandosi a pensare che era il messaggio emotivo-comunitario quello che andava trasmesso con la firma?

    Quando al resto, hai assolutamente ragione; d’altra parte pure lo scrivo, che «subiamo una educazione sentimentale che è funzionale al sistema di produzione, poiché riversa le sensazioni negative all’esterno, verso nemici altri» nell’inglobare il «male» come elemento di descrizione. È – mi sembra – l’idea centrale del libro.

  9. @Matteo: secondo me è proprio l’autobus e chi lo guida a essere osceno – ma il mascherone (del kitsch) sembra funzionare benissimo. Io aggiungerei anche la dimensione del patetico nella sua doppia accezione: che suscita compassione, e che è al tempo stesso artificioso e stucchevole.

  10. claudiab. says:

    Purtroppo sono di corsa e non riesco a leggere ora il thread, ma lo leggerò più tardi. Volevo solo dire che per me il kitsch è anche altro, non può essere ridotto a patetismo che rimuove il senso del sacro, secondo la definizione originaria. Per me il kitsch nasconde senz’altro anche un lato rivoluzionario. Le agghiaccianti interviste di Barbara d’Urso più che kitsch sono trash. Il kitsch per lo meno prevede un’estetica e veicola un gusto. Peraltro, non ho neppure mai concordato con l’affermazione di Kundera e in un’epoca in cui sono le avanguardie ad essere divenute prepotentemente kitsch, essere kitsch oggi è surreale e quindi è il vero gesto rivoluzionario, ma di questo al mio post su La rotta per Itaca domani (Fine del momento pubblicitario). Scusate la fretta e la confusione, ciao a tutti e bravi come sempre. Ah, un saluto veloce a Vaj, che oramai è il mio mito.

  11. Massimo Vaj says:

    Cacchio dici, Matteo, quel dito sorregge il dentierone di plasticona che ha il vezzo di scivolare sempre e soltanto quando poso per rendermi interessante 😀
    Non è il mio bel viso che deve convincere le intelligenze che considerano il mio scritto, e tu lo sapresti se avessi un’intelligenza in grado di valutare qualcosa. Qualsiasi cosa.
    Il mio volto, invece, serve a convincere l’utenza femminile che aver bisogno di chiarimenti esplicativi dati da un corpo vivo, ma non vegeto… nel mio caso convenga… 😛

  12. @Claudia: secondo me c’è un po’ di entrambe le cose – anche il trash ormai è stato sdoganato, e a parer mio difficilmente può esistere oggi un trash inconsapevole, senza una regia ben orchestrata alle spalle…

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