La società dello spettacaaargh! -17
ottobre 10, 2011 12 commenti
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Ciao Matteo,
nel tuo ultimo intervento ti soffermi sul ruolo dei mostri nell’espulsione dell’osceno. Mi è venuto spontaneo domandarmi quale fosse il ruolo delle vittime. È una questione sulla quale sto meditando da un po’ di tempo, andando più che altro a intuito: la chiamo la questione delle tecnomistiche, e riguarda la trasformazione delle vittime in simulacri sentimentali.
Chiamo tecnomistica quel fenomeno che si verifica a seguito della mediatizzazione dell’identità – l’immagine, il nome proprio – di una vittima di un incidente o di un’ingiustizia, quando questa identità è posta letteralmente alla portata di chiunque; spesso accade qui che questa identità sia trasformata in un simulacro di dolore collettivo. Non è il caso di un personaggio famoso, di uno scrittore o di un musicista che abbiamo amato, non è il caso del nostro vicino di casa, non è il caso di nessuno a cui fossimo in qualche modo legati:*1 parlo del caso limite nel quale la vittima è per noi una perfetta sconosciuta fino a un momento prima della mediatizzazione, eppure, una volta che la mediatizzazione è in atto, ecco che fioccano – accanto alle manifestazioni di rabbia e alla riflessione – manifestazioni d’affetto di rete, che assomigliano a segnali di appartenenza rivolti agli altri, segnali spesso copincollabili sotto forma di link, o espressioni serialmente riutilizzate, come «Piccolo angelo, non ti dimenticheremo mai».*2 Nutro la forte convinzione che, se quel cordoglio fosse vero, cioè motivato dal valore che attribuiamo a quel soggetto, staremmo zitti, per rispetto, per non appropriarci di quel nome a nostro uso, l’uso di mostrarci addolorati; insomma, l’uso collettivo dell’identità mi sembra la dimostrazione di fatto che non c’è alcuna empatia; e ritengo, di contro, che un dolore reale possa essere procurato proprio dal vedere un essere umano usato come simulacro sentimentale.*3 Mi sembra che, analogamente a quanto accade sul piano intellettuale con il classico errore che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa, sul piano emotivo sembra esservi la possibilità di un credere di sentire ciò che non si sente. La differenza sostanziale mi pare però che mentre la facoltà del logos può, sul piano psichico, autoemendarsi, perché attivamente opera, le facoltà collegate al sentimento siano per natura ricettive, e quindi rischino di rimanere prigioniere di se stesse.*4
È la possibilità di un piano meta- emozionale, che copre una concreta assenza di empatia, che pone una barriera tra il sé e la percezione emotiva del valore dei soggetti esterni in quanto soggetti, che agisce, insomma, in modo analogo, ma nella sfera delle emozioni, ai piani meta- linguistici e intellettuali di cui abbiamo parlato negli interventi precedenti. E, come accadeva lì, anche qui c’è una realtà al di sotto dei piani, una realtà fatta di soggetti, di altri, e nella mia idea c’è la possibilità di rapportarsi a questi soggetti, a questi altri, in una dimensione spirituale pura, nobile, reale, ma accessibile soltanto dopo una totale cancellazione delle immagini, dopo lo smantellamento di tutti i simulacri sentimentali.*5
Se così fosse, sarebbe davvero necessario, e sarebbe davvero bene, spogliarsi di ogni simulacro in una spietata furia iconoclastica, affidarsi a un esercizio costante delle facoltà intellettuali, in un terrore dell’idolatria, un’astrazione totale giunti al fondo della quale, solo, si sarebbe in grado di accedere a una corretta vita emotiva e sentimentale, una reale empatia.
Eppure, Matteo, qualcosa non mi torna, e ti chiedo aiuto.
Ho spesso pensato che l’affidarsi al solo intelletto possa, nel migliore dei casi, sfociare in un appiattimento della dimensione etica sulla dimensione estetica, in un certo gusto per l’art pour l’art, e magari nel rifiuto di ogni rappresentazione del sentimento (kitsch?) e di ogni considerazione filosofica del sentimento*6 (kitsch?); questo nel migliore dei casi; nel peggiore condurre a una forma di cinismo e disincanto, all’assolutizzazione della dimensione operativa, a ciò che anche qui abbiamo chiamato dominio della tecnica, o, laddove anche la tecnica sia rigettata, a un distacco freddo, un delirio di onnipotenza, una versione filosoficamente potenziata del cinismo e del disincanto.*7
E allora occorre capire se il simulacro, l’immagine sia sempre una forma di idolatria, cioè se stia in rapporto di reciproca esclusione con il sentimento, con la percezione reale del valore reale – e allora fuori i poeti dalla polis, o, come dice un mio amico marxiano: suonare il flauto non è sovrastruttura, ma suonare il flauto nell’attuale assetto produttivo è sovrastruttura – oppure se sia solo faccenda di grado, e su quale scala, e se la narrazione e l’emozione ch’essa suscita possa essere – come io penso – una via allo sviluppo e alla scoperta della complessità spirituale. Ma questo significa anche capire cosa distingue una narrazione capace di svolgere, mediante il simulacro, un’azione di sviluppo, da una narrazione che imprigiona nel simulacro.
È un dispiacere leggere considerazioni intelligenti, come quella di Eckhart, o di Eraclito, fatte scivolare nello zuppone di altre affermazioni totalmente che non sono la conseguenza di esperienza personale della realtà sovra individuale chiamata Intuizione spirituale. Il risultato è insignificante.
Togliere “totalmente”, grazie, è scivolato insieme alla fretta.
@Jacopo: io abbraccio la tua apertura finale, poiché non mi ritengo adatto all’iconoclastia (né, pertanto, alla divisione tra immagine e suo modello). L’immagine nasce all’incrocio di almeno due sguardi (di chi la in-forma e di chi la guarda), ai quali, nel caso specifico, bisogna aggiungere la potenza moltiplicatrice (sul piano del medium). Immagino che l’idolatria nasca dalla sintesi di queste tre istanze: uno sguardo produttore di cliché, che si propoga in un terreno (quello del pubblico) fertile ad accoglierlo, a farlo suo senza opporre alcuna resistenza. Lo so che detta così è un po’ tagliata con l’accetta, e che la faccenda è molto più complessa
Assolutamente, Simone. Per quel che mi riguarda c’è ancora molto da lavorare: in questo diciassettesimo intervento sento puzza di ambiguità semantiche e assunzioni indebite. Al solito, ho messo giù un po’ di materiale: la costellazione va diramata e insieme complicata. Matteo serve a questo. 🙂
“serve”? Ah, vile tecnocrate travestito da Otaku, ti ho sgamato 😀
L’intelletto totale di un individuo non è sovrapponibile alla razionalità di cui questo individuo è capace, e non è neppure necessariamente in contrapposizione con la sua sfera sentimentale, nella quale le emozioni sono generate. La razionalità è frutto della logica, ed è il modo nel quale la possibilità di indagare la ragione d’essere della realtà, chiamata anche intelligenza individuale, si attua a partire da presupposti i quali non sono necessariamente razionali e logici. Così, quando questi presupposti non corrispondono ai princìpi attraverso i quali la verità è attuata… logica e razionalità vanno a farsi benedire producendo risultati incoerenti. Cosa consente all’individuo di far procedere, attraverso i princìpi della logica, la consequenzialità di pensiero partendo da supposizioni che possano vantare la loro sovrapponibilità alla verità dei fatti?
L’intelligenza che suppone è un’intelligenza che si trova a essere sul piano della supposizione e, dunque, dell’idea e dell’invenzione personale. Si può essere molto intelligenti senza avere certezze sui princìpi essenziali che ordinano l’esistente, quelli definibili come universali perché applicabili all’intera manifestazione della realtà relativa.
L’intelligenza individuale è conseguenza di quella universale, che è suo principio e sua causa. In quanto individuale si pone sul piano in cui l’individuo agisce come individuo. Partendo dall’intuire individuale l’intelligenza si muove dalle ipotesi generate, e attraverso il principio di non contraddizione e le correlazioni analogiche che stabilisce con la realtà, considerata nel particolare dei suoi componenti o nei suoi aspetti generali, per deduzione o per induzione trae le sue conseguenze, alle quali l’individuo attribuisce il carattere che deve avere, per lui, la ragione.
Spesso il risultato così ottenuto è in conflitto con i sentimenti dell’individuo la cui mente ha prodotto, attraverso il ragionamento impropriamente definito “razionale”, convinzioni personali e soggettive… che sono definite “oggettive”.
L’intelligenza individuale è come un carro armato, condotto da un soldato bambino, che ignora le ragioni della guerra che sta combattendo.
C’è un altro genere di intelligenza, che sovrasta quella alla quale ha accesso l’individuo che si affida al ragionamento incapace di individuare i princìpi dai quali procedere, ed è l’intelligenza universale.
È, questa, l’intelligenza che intuisce attraverso l’immediatezza data dal poter comunicare col centro di sé.
Questa comunicazione non avviene attraverso il pensiero, ed è frutto di un intuire superiore che è caratteristica dell’intelletto universale che attua le sue possibilità nell’individuo in grado di utilizzarlo, e questo a causa di qualificazioni spirituali che lo hanno messo nella condizione di potersi aprire all’intuire superiore di cui l’intelligenza di ognuno è capace.
Quando il canale di comunicazione tra l’intelletto universale e quello individuale è stato aperto dal Mistero assoluto, la personalità spirituale e centrale è di fronte all’individualità periferica razionale e, quest’ultima, deve scegliere se continuare a formulare ipotesi o piegarsi alla Verità indiscutibile conosciuta senza la mediazione della mente.
L’individuo è sempre libero di scegliere, perché il Mistero assoluto è Libertà assoluta che tutto può, tranne che contraddire se stessa negando all’individuo la libertà di decidere per se stesso.
Quando è stata scelta la possibilità di essere liberi la consapevolezza dei princìpi è assoluta, e si vedono le ragioni che ordinano il manifestarsi del tutto e le leggi universali che ne stabiliscono la modulazione del movimento. Non è, questo vedere, corrispondente alla consapevolezza di ogni cosa, ma corrisponde al primo passo che è l’entrata cosciente nel Mistero centrale, il Quale è anche il principio e la ragione d’essere di ogni realtà. L’individuo che ha scelto di poter essere libero, attraverso il sacrificio della propria esteriorità, non ha più bisogno di affidarsi a ipotesi personali, né il suo sentire emozionale può più distinguersi dalla sua ragione sovra razionale la quale, da quel momento in poi, potrà contare su una logica che procederà da princìpi assolutamente certi. Di una Certezza assoluta analoga all’infinità interna del Mistero assoluto, la quale non può esaurirlo.
L’autore del post confonde tra loro la mistica, passiva per definizione e natura, e la conoscenza metafisica della quale Eckhart è stato un espositore. L’affermazione di Eckhart sulla necessità di defilarsi, per non essere di ostacolo alla spiritualità, sta a significare che un insegnamento esteriore, come è quello dato da un essere a un altro essere, non può aprire allo spirito. È il Mistero che, attraverso lo spirito che è intelligenza universale, decide se ci sono le condizioni per un’apertura spirituale, che sarà attuata attraverso la mediazione dell’influenza spirituale tra un maestro e un individuo che deve essere iniziato. Mai una iniziazione avviene in conseguenza di un insegnamento dato. L’aspetto esteriore del rapporto maestro discepolo, che è riferito all’insegnamento anche verbale, è a termine e dev’essere il più breve possibile, servendo al discepolo per essere autonomo nel comunicare col centro di sé. Prima il maestro rende superflua la sua presenza e meglio sarà per tutti.
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