Carta taglia forbici – 3
ottobre 14, 2011 6 commenti
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Una piccola città lontana dall’Europa occidentale
Sua madre aveva vissuto per molti anni con suo padre, prima di lasciarlo per un altro uomo. Lui soffrì molto, e non dimenticherà mai il giorno in cui suo padre gli disse di non fare mai figli. Era il giorno in cui lui e la madre traslocarono in casa di un attore, un tizio che indossava sempre lo stesso jeans.
Il terzo marito di sua madre era gentile con lui e non condivideva l’opinione di sua madre sul fatto che fosse meglio per lui odiare il padre piuttosto che amarlo.
Una volta, un giorno che la madre era andata a trovare le sorelle in una città vicina, il terzo marito lo portò a casa di suo padre. Sua madre non seppe mai nulla e lui apprezzò molto il gesto. Quando la madre lasciò quell’uomo lui pianse, perché capì molte cose, e la prima tra tutte era che non si sarebbe mai fidato di una donna.
A scuola non riuscì a entrare in nessuna squadra, anche se aveva provato con tutte le sue forze. Pare che fosse negato per il basket, il baseball, il tennis, la pallavolo, il softball, la ginnastica artistica, il football, il calcio, e ovviamente anche la scherma. Di amici non ne aveva, se si esclude il custode nero con cui chiacchierava ogni tanto durante l’intervallo.
Un giorno, durante una lezione di biologia, fu chiamato in presidenza. La madre lo abbracciò non appena lo vide entrare nell’ufficio del preside, e il preside, un anziano con la barba bianca ben curata, gli diede una pacca sulla spalla e strizzò l’occhio. Quel giorno avrebbe assistito al quarto matrimonio della madre. Lo sposo si chiamava Jim e parlava moltissimo. Non era malvagio, ma stupido. Probabilmente alla madre interessava soprattutto la sua età. Jim aveva vent’anni meno di lei.
Quando ormai il giorno del diploma stava per avvicinarsi e i suoi peli erano cresciuti abbastanza da poterli considerare come amici fraterni, lui preparò l’ennesimo trasloco. La madre aveva convinto il suo amante a lasciare la moglie, e nell’arco di due giorni si sistemarono nell’appartamento di lui. L’uomo sembrava in balia di quella donna e acconsentì a tutte le sue richieste: si sposarono sulla spiaggia e offrirono un banchetto a base di sushi; lei lo tradì più volte, e lo convinse ad ascoltare tutti i particolari; lui le intestò la sua casa, la sua macchina e il cottage in montagna. Infine lui morì.
La sera del funerale, una volta che gli ospiti avevano lasciato la casa, il ragazzo spazzò per terra e diede una sistemata in soggiorno. Gettò i piatti di plastica e i bicchieri e diede una passata con lo straccio. La madre era in lutto in camera da letto, ma probabilmente dormiva. Lui pensò a una cosa e per la prima volta elaborò un pensiero articolato. Il succo era che il comune denominatore che univa tutti gli uomini che la madre aveva sposato era una chitarra: tutti sapevano accordarla. La madre l’aveva portata con sé da un trasloco all’altro, e sempre c’era stato un uomo pronto a farne quadrare il suono. Il ragazzo, allora, aprì la porta dello sgabuzzino e prese la chitarra.
Una piccola città dell’Europa occidentale
– Ti dico che le finlandesi sono molto più puttane delle altre.
– Non capisco perché. Per il freddo?
– Certo, per il freddo. Devono scaldarsi continuamente.
Non fu questa conversazione a convincerlo a partire, ma una serie di coincidenze. La parola FINLANDIA diventò un’ossessione, e visto che non aveva un lavoro e neanche una ragazza, decise di assecondare l’ossessione.
Partì a fine settembre con un volo charter. In aeroporto notò subito moltissime donne, ma era stanco per via del viaggio e non tentò nessun approccio. In albergo, invece, ci provò con una finlandese che leggeva un giornale nella hall, ma probabilmente era lesbica, perché non riuscì a portarsela a letto. Pare che le donne finlandesi si dividessero, infatti, in puttane e lesbiche.
L’inverno si avvicinava e gli abitanti della piccola città finlandese iniziarono a prenderlo in giro. Gli chiedevano continuamente cosa ci stava a fare lì. Oppure, se non aveva paura di restare bloccato per giorni nella sua piccola casa in fondo a viale Puskin. Lui non era tipo da ascoltare questo genere di sciocchezze e si diede da fare per conoscere tutte le donne a portata di mano. Ma sarà stato il freddo o la congiuntura sfavorevole, tant’è che l’inverno lo sorprese in casa, da solo, mentre riempiva il camino di legna. Rimase bloccato per due settimane, con un muro di neve che copriva le finestre e sbarrava il passo alla luce. Iniziò a dubitare sulla scelta di restare, ma smise di pensarci perché non aveva alternative. A novembre la temperatura si alzò di qualche grado e riuscì a fare un giro in centro. Bevve un intruglio in una taverna e conobbe un uomo, Jorg. Grazie all’alcol si raccontarono le loro vite, e dopo molte ore uscirono sbronzi, sfidando il vento che spellava le labbra. Una volta a casa lui accese il camino, mentre Jorg mise a bollire l’acqua per il tè. Poi si stesero sul tappeto.
Okkey, è ora che io sezioni la salma caratteriale che motiva, occasionalmente anche animandolo, ciò che, non senza una vena umoristica, avete convenuto si chiamasse “blog”.
Chiunque inciampi contro le vostre pagine si chiederà il perché della vostra scelta di non avere connotazioni politiche. In effetti non ce le ho nemmeno io, ma il mio caso è diverso perché io mi preoccupo di cambiare prima me stesso, contando sul fatto che poi i lettori comprenderanno la vacuità di una tragedia annunciata. Voi, da quello che amate scrivere, avete un’unica ansia: dire niente di tutto, badando solo alla rottura con le tradizioni dello scrivere lezioso e di maniera.
I vostri articoli spaziano dalle tematiche giovanili (nel senso dei temini del liceo) alle considerazioni colte (sul fatto) zeppe di citazioni che accostano tra loro autori di estrazione culturale – per lo più adatta alle antologie scolastiche – ad altri raffinati conoscitori delle leggi dell’esistenza, come sono stati Eckhart ed Eraclito, dei quali mostrate di non aver compreso una mazza. Ora mi sto ricordando di dire che da giovanotti semi acculturati quali siete, che hanno, forse, persino studiato mentre bigiavano la scuola… ci si aspetterebbe uno scrivere meritorio dell’onorificenza del precariato, non lasciando spazio al dubbio che precari siate non a ragione di un vostro talento pericoloso, ma a causa delle inezie di cui infarcite il vostro interessato interesse per il mondo.
Dai, alla fine non andiamo malaccio 😀
Io non corro il pericolo di essere toccato dal veleno dei contraccolpi di ritorno stimolati dal mio avervi criticato, e non lo corro perché nessuno di voi ha mostrato di capire il senso di quello che ho scritto…
Non siete i soli, d’altronde, ma la colpa non è del mio arzigogolato stile espressivo. È la natura della realtà che è un po’ stronza, ed esige di non essere compresa nemmeno quando spiegata con precisione chirurgica. In fondo, senza un Mistero da svelare, quale interesse ci sarebbe nel vivere, a parte il sesso? 😀
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