Se fossi fuoco, arderei Firenze
ottobre 18, 2011 5 commenti
Se fossi fuoco, arderei Firenze (Laterza, 2011)
Non avendo io patente di critico letterario, per giudicare un libro mi sono inventato un metodo infallibile nelle vesti di accanito lettore: quella che definirei la prova acustica (il che comprende la valutazione del ritmo e della tonalità: e della storia in quanto struttura e della lingua), ovvero la lettura ad alta voce, preferibilmente con qualcun altro che ascolti – anche se già so che c’è chi mi obietterà che leggere un libro è un atto per definizione solitario, e che così facendo metto il testo alla prova in una sua dimensione per così dire teatrale: ma tant’è, a me piace che l’effetto si propaghi. Per essere ammesso alla prova un libro deve essermi piaciuto davvero tanto (ed è questo il caso), al punto che io abbia voglia non solo di rileggerlo, ma di farne partecipi anche altre persone – e dunque, per rispondere a coloro di cui sopra, che io ne abbia già apprezzata la lingua e lo stile, ma non solo: anche la struttura della storia – al punto, mi ripeto, che mi venga voglia di rileggerlo.
Ecco, lasciamo adesso in disparte le mie tecniche di lettura e ripartiamo da qui: da come Vanni Santoni organizza la sua materia.
Forte dei suoi precedenti – Personaggi precari (RGB, 2007) e Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008) – si può dire che l’autore continui il suo percorso su un binario ben definito: l’idea, cioè, che la trama sia l’effetto delle azioni compiute dagli attori (coloro che appunto agiscono) e che dunque non possa prescindere dai personaggi – in questo senso potremmo leggere la sua prima opera come la vera e propria configurazione di un metodo (eccolo che ritorna), come d’altronde si può constatare seguendo il suo blog. C’è insomma qualcosa di teatrale, ma ancor più cinematografico, nella scrittura del Santoni, che d’altronde è tra i fondatori del metodo (ancora!) SIC – ma non attendetevi effetti speciali o robe del genere, che l’autore voglia insomma stupirvi tralasciando il resto, perché è una scrittura tutta letteraria la sua, altroché: una scrittura che pedina i propri personaggi (era già così nel romanzo precedente) e che ne ruba anche la lingua, disseminata di toscanismi che esplodono in vere e proprie schegge di fiorentino quando è la volta dei dialoghi.
Fin dal titolo (con cui fa il paio una bellissima copertina, e che gioca con il celebre sonetto S’i fossi foco, arderei ‘l mondo del senese Cecco Angiolieri) si capisce che l’autore voglia mettere su carta il suo rapporto di amore/odio con la città: ma lo fa, appunto, con un incipit assolutamente cinematografico, che spoglia subito l’intento di qualsiasi parvenza melodrammatica. L’autore si apposta insomma in un punto strategico, panoramico, dal quale inquadrare l’arrivo del primo personaggio («Guardalo, sta venendo a Firenze»), che giunge per la prima volta nel capoluogo toscano – e che non riesce a perforarne il centro, prigioniero del diabolico sistema dei viali che riportano sempre allo stesso posto. Una volta scorticata questa prima pelle, ci ritroviamo proiettati – con un movimento che potremmo paragonare a quello di uno zoom – nell’intrico di strade e monumenti della città (di cui possiamo godere la disposizione grazie alla mappa riportata nelle prime pagine), dove la storia segue i passi (ed è proprio il caso di dirlo) dei vari personaggi che incontriamo, come in una sorta di staffetta in cui il lettore fa propri i diversi punti di vista adottati dall’autore. In tutto questo via vai di gente, resta l’impressione di una città che il Santoni voglia un po’ liberare da certi luoghi comuni, regalandoci istantanee di scorci meno conosciuti, o attraversando i punti nevralgici della movida studentesca e turistica con uno sguardo un po’ rasente i muri, che inquadra dettagli che sfuggono a chi sia abituato a vivere Firenze come se fosse una cartolina: anche l’ordine dei punti indicati nella mappa segue questo principio, che è quello di una sorta di “geografia del vissuto”. E infatti la furia iconoclasta a cui il titolo del romanzo sembrerebbe ammiccare si stempera durante la lettura, dove a prevalere è una forma di rabbia che nasce da un attaccamento nei confronti di un luogo che si vorrebbe cambiare e a cui si ritorna sempre: «La prima scelta di chi intende rimanere è sempre il Duomo. Scelta sbagliata, sbagliatissima, ma ci passano tutti». Ed è proprio sugli scalini del Duomo che il primo personaggio farà un incontro inaspettato, che lo porterà a deviare il percorso prestabilito nei suoi piani – ritrovare la ragazza incontrata al termine del suo deambulare per i viali, lassù in Piazzale Michelangelo, a cui aveva dato appuntamento per le dieci e mezza. In fondo, se dovessimo trovare un filo comune che esuli dalla dimensione spaziale, potremmo affermare che i protagonisti di questo libro sono accomunati da un certo senso di insoddisfazione che li porta a cercare qualcosa o qualcuno, in una Firenze a tratti umbratile e spettrale, che diventa scenario inedito di una storia raccontata col registro comico che tanto piace a noi toscani: forse Santoni vorrebbe dar foco a Firenze, ma non di certo a quella tradizione giocosa e dissacrante di cui Cecco Angiolieri fu tra i massimi esponenti.
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Simone, tranquillo, ci sta pure questo in ambito di critica letteraria:
http://en.wikipedia.org/wiki/Cognitive_poetics 😀
Bene, ora mi sento un po’ meno solo 😀
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