La società dello spettacaaargh! – 21
novembre 7, 2011 2 commenti
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Caro Matteo,
vorresti trarre le conclusioni di questo nostro dialogo, e ti capisco, ma davvero non saprei come e quali. Mi sento come fossimo di fronte a una soglia, al di là della quale troveremo il significato di tutto quello che abbiamo fatto in questi anni. Tutto ciò che ho fatto in questi anni – negli ultimi diciassette anni, c’è stato un uomo che ogni singolo giorno è stato protagonista dei nostri pensieri: quanto è stremante e assurdo – è stato cercare di comprendere un presente che ogni volta era già passato, un volgere lo sguardo a ciò che era appena accaduto, perché vedevamo in noi e attorno a noi una mancanza di comprensione; in certi casi ancora oggi, oggi che sembra già passato; c’è ancora chi usa una strumentazione di lettura della realtà che ai più svegli appariva vecchia già diciassette anni fa.
Cosa abbiamo veduto? Ciò che abbiamo veduto, che abbiamo tentato di mostrare a chi ci stava accanto, è una possibilità dell’essere umano, un abisso nel quale si può cadere, la nostra caricatura mostruosa proiettata sullo schermo gigante del potere; siamo stati costretti a una ridefinizione degli schemi concettuali, a una problematizzazione del conflitto tra desiderio e norma, tra libertà e regime, a una comprensione più profonda del disincanto postmoderno, alla presa d’atto di un’insufficienza del relativismo di sinistra, e di una nuova soglia della reificazione. Il pagliaccio ci ha terrorizzati, c’è chi è rimasto irretito, c’è chi è stato svegliato dal brivido. A chi ragionava solo sul piano della vulgata materialista cercavamo di mostrare quanto la deriva psichica che il pagliaccio rappresenta fosse tragica, terribile. A chi ragionava solo sul pagliaccio, infondendogli forza, materializzando lo psichico, cercavamo di mostrare come il pagliaccio fosse nient’altro che la proiezione della nostra miseria quotidiana, dello schifo che ci portiamo dentro. Questa scoperta è vera per sempre, vale comunque. E ci ha cambiati indelebilmente.
Eppure è ancora poco. Eppure è già passato, sento che, anche se il pagliaccio potesse dominarci altri cent’anni, ormai è già passato. Ora lo scenario si amplia nel tempo e nello spazio, sembra emergere all’orizzonte il mostro di fine-livello; viene il momento di prevedere, il momento delle profezie, delle strategie, e io mi sento stanco, e senza armi cognitive: ci metterò dodici vite anche solo per capire come è fatto e dove colpirlo, il mostro di fine-livello.
Strange Days come i Doors, Matteo. Sarà che davvero ora mi trovo senza un soldo in tasca, sarà che mi ammalo più spesso, sarà che vedo gli amici attorno a me perdere il lavoro, uno dopo l’altro, come tessere di un domino. Sarà quel che sarà, ma a me questo autunno sembra postumo. Quando esco di casa, allontanandomi dal monitor sul quale scorrono le immagini di un’apocalisse in corso, mi ritrovo a percorrere i non-luoghi della mia città. Ho sempre preferito i luoghi ai non-luoghi, eppure in questi giorni la significazione si è rovesciata: sono i luoghi, ora, a sembrarmi atemporali, immortalati, fuori dalla storia e senza nulla più da dire; mentre i non-luoghi all’improvviso rivendicano un’identità, mi raccontano di quando pensavamo che la storia fosse finita, e mi raccontano, ora, che la storia intanto continuava, è continuata, travolgendo quella presunta fine fatta di disincanto e distanza che credevamo di aver deciso noi (e con che arroganza): la storia riafferma la sua concretezza, ci impartisce una lezione, ci mostra cos’è una fine.
Giorni fa ho fatto un sogno: c’era la fine del mondo, la voce era girata, non so come, se in tv o tra la gente o attraverso altri canali, so che però tutti venivano a sapere che c’era la fine del mondo, un po’ credendoci, un po’ no, un po’ non sapendo bene in cosa consistesse, che cosa significasse l’espressione “fine del mondo”. A un certo punto, nel sogno, sto camminando sul lungomare di Pesaro: è notte, e tutta la gente è scesa sulla spiaggia e guarda l’orizzonte, e capisco che stanno aspettando la fine del mondo. In quel momento alzo gli occhi sul mare e vedo le Pleiadi cadere: prima vengono giù Celeno e Maia, poi Pleione, poi le altre. Non esplodono, non si spengono: vengono giù, come fossero solo appese. Capisci, Matteo? La fine del mondo del mio sogno era fatta così: come cascasse il cielo del presepe.
Le Pleiadi sono legate a Samhain, la festività del 31 ottobre, la notte nella quale le porte tra gli spazi e i tempi si spalancano, nella quale ordine e caos si mescolano, è il buio come possibilità. Cerco di immaginare che cosa ci attende, e lo spettro delle ipotesi è amplissimo: vivremo in uno scenario in cui hanno vinto i piani meta- di una finta sinistra ecologista e sofisticata, come accade nello straordinario Muori Milano muori! (Elliot 2011) di Gianni Miraglia? Oppure in uno scenario opposto, nel quale, come ho scritto qualche giorno fa su facebook scherzando, ma nemmeno troppo, tra dieci anni saremo nei boschi a cercare di tirare giù i droni? In entrambi i casi – anche nel primo, sì, perché ho il sospetto che l’accumulo di piani meta-, nel caso continui, sia vicino a generare un salto di qualità nella realtà – il tempo in cui abbiamo vissuto e al quale queste nostre riflessioni appartengono, sta per essere relegato nella cantina del cosmo, alla periferia dell’Essere. Alla fine rimane solo questa sensazione di un salto, senza che io riesca a dire minimamente come sarà fatto, che forma avrà, cosa comporterà, questo salto. Guardo questo pianeta autunnale scivolare in una atemporalità negativa, strappato allo spazio del tempo progressivo e riposto altrove, a prendere polvere in uno ieri eterno dove non passano langolieri, ma in cui trascorrono solo fantasmi, ombre. Che significa questo se non che il mio sistema mente-corpo sta contemplando la fine del suo mondo? E questo cos’altro può significare se non che perderò molto di ciò che do per scontato; scoprirò, forse con dolore, che molti giudizi analitici erano giudizi sintetici incancreniti: oggi in molti abbiamo paura e in molti protestiamo, in molti proviamo rabbia, ma quasi tutti – e non potrebbe essere altrimenti – anche se in misure diverse per ognuno, convochiamo nella nostra mente valori e ragionamenti, collegamenti e automatismi che, se pure ci paiono ora leciti, sono, come probabilmente dopo ci accorgeremo, parte integrante del sistema che vogliamo combattere e che crediamo di combattere. Dunque non traggo alcuna conclusione, Matteo, perché sento che il significato più profondo di tutto ciò, se mai lo scopriremo, ci sarà chiaro solo dopo. Sento solo che dobbiamo essere pronti a perdere molto di ciò che crediamo – probabilmente senza nemmeno esserne coscienti – ci costituisca.
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