ContraSens – La sigaretta come una preda

Piccoli accorgimenti fonetico-sociali.

Le lettere che contraddistinguono i suoni della lingua romena, e che di conseguenza ne affilano la musicalità in senso specifico, in questi testi non hanno subito traslitterazione. A seguire, una breve guida fonetico-esplicativa per la loro lettura corretta:
Ă: una -a più gutturale, pronunciata con la parte anteriore della gola, a bocca mezza aperta.
Â: una -a gutturale che tende alla -i.
Ț: corrisponde ad una -z dura, come in pazzo.
Ș: corrisponde al suono -sc, come in sciare.
Buona lettura.

La sigaretta come una preda
di Vera Ion
Traduzione di Clara Mitola

Scrivo, lavoro a Bucarest, ho smesso di fumare, faccio esercizi di respirazione tutte le volte in cui ho la sensazione che il mondo fuori da me si trasferisca nella mia testa. Ho smesso di fumare sigarette perché erano care. Adesso non mi piace più. Il fumo mi sembra una sciocchezza, mi innervosisce e, se sono in un posto in cui si fumano solo sigarette, mi sembra inutile. D’altra parte, il giorno dopo essere stata in qualsiasi club di Bucarest, mi ammalo. Non vedo da moltissimo tempo quella mia migliore amica di quando avevo 14 anni, so che è entrata in pubblicità. La saluto con questa occasione e spero si ricordi in che scala siamo state quando seguivamo l.

Più o meno quindici anni fa, tra i palazzi di quattro piani di drumul taberei1, andando alle lezioni private di tedesco. io e la mia migliore amica di allora, una tipa carina e cattiva che non aveva amiche donne a parte me, il resto solo amici maschi. avevamo la puzza sotto il naso, cattive e cool. ci disgustavano molte cose e molte cose ci giuravamo. io giuravo che non mi sarei messa mai il rossetto. lei che sarebbe entrata a teatro, a recitazione. avevamo stivaletti depeche mode con placca metallica, i capelli lunghi e odiavamo i rockers. stavamo al terzo piano di un palazzo di quattro piani al capolinea del 90, ogni mattina passavamo attraverso i palazzi e andavamo a scuola insieme. attraversavamo la piazza e lo aspettavamo di fronte al palazzo. innanzitutto si portava a spasso il cane per dieci minuti, poi andavamo via.
i suoi genitori litigavano spesso, erano quasi divorziati. sua madre, tutte le volte che entravo da loro, se ne stava in costume da bagno su un telo sul divano e guardava la televisione. d’estate, con un ventilatore accanto. aveva sempre un trattamento per il viso o una nuova lozione per il corpo da applicare e per questo motivo la pelle le risplendeva e nella stanza c’era un odore di medicinali. la maggior parte delle volte se ne stava con un fazzoletto umido sulla fronte, in mutande e canottiera, sul telo, con le gambe aperte e il ventilatore puntato addosso. la prima cosa che notavo quando vedevo sua madre era la cellulite sulle gambe aperte, nella parte interna delle cosce. guardava tutti i tipi di talk-show in tv e sembrava sempre stanca. suo padre lo vedevamo di rado, ma quando lo vedevamo ci portava in tutti i tipi di posti speciali – a pattinare, ai concerti di musica sinfonica, a teatro, al cinema. era generoso e taciturno, non entrava nelle nostre cose, faceva finta di non sentire quello che dicevamo o chi guardavamo per strada. a teatro ci andavamo anche con sua madre, ma con lei era stressante, doveva controllare tutto il tempo quello che facevi. una sera, in autobus, si è arrabbiata perché ho parlato con una persona straniera. il tipo si era meravigliato di quanto fossi bassa e aveva detto qualcosa del tipo “essenze forti in bottiglie piccolette”, cosa che mi aveva reso molto orgogliosa. ma quando sono tornata dalla mia amica, la prima cosa che ho visto è stata la faccia della madre, che in quel momento somigliava ad un bulldog. ha detto che sono una disgraziata e che non va bene parlare con gli stranieri, soprattutto in autobus. alla fine, ho scoperto più tardi che il papà aveva un’amante in spagna, hanno divorziato e lui si è trasferito lì. quando eravamo in settima2, erano ancora tutti e tre ma il padre veniva a casa solo nei fine settimana.
la mia famiglia non aveva scossoni del genere, stavamo tutti e cinque, genitori, nonni e io, in un appartamento. la mattina c’era la fila per il bagno e sempre tensioni in relazione a chi entrava, quanto ci restava e quando usciva. il nonno era il primo, alle sei. la mia camera era giusto accanto al bagno. nel sonno sentivo i rumori della mattina – i suoni che fanno gli uomini quando sputano, come una specie di grugnito prolungato, dalle profondità del petto. anche mio padre tossiva di mattina, accumulava il catarro e lo sputava. lo sapevamo tutti ma non ne parlavamo, per una sorta di tacito accordo, che quei versi gutturali erano colpa del fumo. non so esattamente dove fumasse mio padre, era l’unico fumatore della casa. credo in cucina dove lavorava con la matematica. dalla finestra della nostra cucina potevi vedere tutto quello che succedeva alla famiglia blatz che era al terzo piano del palazzo vicino. certe volte, il signor blatz stava anche una mezz’ora di fronte alla sua finestra, immobile. che fa? chiedevo. fuma anche lui una sigaretta.
nell’appartamento i territori erano suddivisi. avevo il mio territorio – la mia camera, ma non era mia completamente, non potevo farci proprio tutto quello che mi saltava in mente, perché dovevo sempre tenere a mente che qualcuno poteva aprire la porta per vedere che facessi. e allora il controllo ti modificava rapidamente il comportamento e fingevi di fare quello che dovevi. quando dovevo dormire dopo pranzo avevo inventato una tecnica completa per non essere scoperta. non ho mai dormito dopo pranzo per tutti gli anni in cui fingevo di dormire quel paio d’ore al giorno. di solito leggevo o giocavo a calcio da sola con un cuscino. quando leggevo stavo sulla pancia, con il cuscino a reggermi la testa e il libro sotto il cuscino. se sentivo la porta aprirsi, lasciavo il cuscino cadere sul libro, mettevo la testa sul cuscino e chiudevo gli occhi – tutto durava un secondo. quando giocavo a calcio – le mie mani erano una squadra e le gambe l’altra squadra, e il cuscino era la palla –, non appena sentivo la porta lasciavo cadere il cuscino, lo abbracciavo e chiudevo gli occhi. sempre in un secondo. ho avuto molti amici immaginari fino a quando non ho avuto amici veri. tra i miei amici, marius lăcătuș era quello a cui davo la buonanotte ogni sera prima di dormire. dopo che mia madre spegneva la luce, mi alzavo dal letto e contavo la settima posizione sul poster con la nazionale alla parete, poi accarezzavo lăcătuș e gli dicevo buonanotte. avevo anche una lista di amici immaginari, la maggioranza celebri. per introdurre qualcuno nella lista, dovevi toccarti il naso tre volte. per entrare tu “in lista”, dovevi toccarti una volta il naso – ed eri lì –, c’era una specie di campo immenso in cui passeggiavano tutte le persone che avevo introdotto da molto tempo nella lista– elvis, paul mccartney, lăcătuș, jonson donovan, jim morrison, milli vanilli, florin răducioiu, kevin costner, aurelian temișan (buttato fuori dalla lista dopo circa due settimane) e molti altri. l’unico non famoso era un ragazzo, mihăiță, del quarto piano del palazzo a cui ho anche detto di avere l’onore di essere nella mia lista tra tutte quelle celebrità. mihăiță si è sinceramente emozionato.
la mia prima sigaretta è stata sulla strada verso le ripetizioni di tedesco, nella scala di un palazzo, credo fosse una kent rubata dal padre della mia amica. il nonno insisteva che prendessi lezioni private di tedesco, perché il tedesco, diceva lui, si impara da piccoli e quanto prima lo impari, con maggior facilità lo ricorderai. all’epoca, la cosa in assoluto più lame era imparare qualcosa. imparare era una dimostrazione di debolezza, di mancanza di spina dorsale. ci difendevamo dall’imparare e in effetti il concetto non mi era neanche tanto chiaro. era ok leggere molto o scrivere quello che ti veniva, ma imparare era una totale perdita di tempo. a tedesco ci andavo ogni mercoledì, ci restavo due ore e cercavo di far credere alla prof che ero attenta e che seguivo la lezione. anche con lei sembrava ci fosse un tacito accordo per il quale lei fingeva di non notare che studiavo solo così, superficialmente, e che dimenticavo subito ciò che avevo imparato e ripetuto a pappagallo per mantenere l’apparenza. facevo gli esercizi di tedesco e poi tornavo a casa passando per il campo di basket, dove seguivo i ragazzi di cui ci eravamo reciprocamente dichiarate innamorate.
la mia amica in un certo modo aveva il ruolo principale nel dramma, la nostra amicizia era sul modello personaggio principale + supporting hero, il tipo che le piaceva era anche lui il personaggio principale nelle sue amicizie e aveva altri due amici che erano supporting heros e che mi piacevano nello stesso modo. le nostre amicizie erano di casta, in un certo modo. io non mi sarei mai permessa di farmi piacere qualcuno di un’altra categoria – cioè il tipo che piaceva alla mia amica. farsi piacere i ragazzi era un gioco fico perché all’inizio dovevi stabilire chi ti piaceva, fatto che era random in un certo senso, perché comunque non gli parlavi se non accidentalmente. e poi cominciava la parte più forte – quando lo seguivi nel corridoio della scuola, lo guardavi dalla finestra quando giocava a basket, quando arrivava, quando andava via. Andavi al bagno nello stesso momento in cui ci andava lui, sapevi quando era di corvetta e andavi a inumidire la spugna dieci volte in un’ora, guardando in lontananza con la spugna bagnata in mano. scoprivi dov’era e facevi la strada fino lì due volte al giorno, e se ti vedevi con lui facevi finta di niente. una volta sono entrata nella scala del tipo che piaceva alla mia amica e ci sono stata qualche minuto buono. è stato uno dei momenti più carichi di adrenalina delle nostre escursioni fino a tedesco. credo stesse nel C8. c’era anche un altro tipo del palazzo, del corpo G. più alto e più atipico – ad un certo punto, mi era piaciuto un tipo più grande che avevo scoperto stava in uno dei G e da allora, ogni volta che passavo accanto a un corpo G, vivevo una condizione speciale, intensa.
i percorsi fino alle ripetizioni di tedesco sono strettamente legati al fumo. quando fumavo, imitavo i gesti di mio padre, in un certo modo mi sentivo adulta come lui. mi piaceva soprattutto il momento in cui accendevo la sigaretta, e il primo tiro aspirato in petto ma soffiato fuori un po’ più rapidamente, come una sorta di tiro di riscaldamento. Il resto era noioso. mi piaceva il momento in cui spegnevo la sigaretta, aveva qualcosa di speciale, soprattutto all’inizio quando non avevamo che una o due sigarette rubate ai nostri genitori, che dividevo con la mia amica – quando spegnevi una sigaretta, lo facevi con una specie di coscienza chiara della fine, però pensavi anche al senso di quella successiva in un certo modo… di solito le rubavo dalla giacca di pelle marrone di mio padre, dal taschino del petto o dal pacchetto che era sul tavolo quando lui non era in camera. adesso mi rendo conto che le mie skills di mentire e rubare provengono soprattutto dal quel periodo. il nostro processo di maturazione era strettamente legato alla skill di mentire il meglio possibile, sebbene nessuno gli desse molta importanza. il pacchetto migliore era quello di kent lunghe, che i genitori strappavano solo da un lato e non avevano la possibilità di notare quante sigarette mancassero. c’erano poi i pacchetti di lucky strike che fumava mio padre, che di solito rubavo dal taschino. aveva una giacca di pelle marrone che era l’orgoglio della famiglia – o così l’avevo percepita io quando mio padre l’aveva ricevuta come regalo da uno zio militare che stava all’estero in delegazione anni interi e ci mandava videocassette con il festival di san remo. una sera lo zio ci ha portato questa giacca di pelle marrone, e ce ne stavamo tutti all’ingresso intorno a mio padre che se la provava di fronte allo specchio. gli stava benissimo. le sigarette le teneva nella tasca interna del petto. quando rubavo una sigaretta, avevo tre o quattro gesti precisi – tirare fuori il pacchetto, aprire il pacchetto, estrarre la sigaretta, chiudere e mettere a posto il pacchetto allo stesso tempo. con una sola mano. la sigaretta la tenevo nella manica o negli slip, giusto sotto l’elastico. nelle mutande era il posto migliore, che non si rompeva, nella manica si rompeva nella maggior parte dei casi. sia io che la mia amica mostravamo le sigarette come una preda – quello che riuscivamo a prendere da casa, quelle sigarette che erano rimaste intere, quali che si erano rotte e si potevano riparare.
sentivo una sorta di legame segreto con mio padre quando gli rubavo le sigarette, sebbene sapessi che si sarebbe arrabbiato se avesse scoperto che fumavo. in segreto ero matura e responsabile come lui. quando accendevamo una sigaretta, certe volte la mia amica diceva “basta, non mi va più” dopo qualche tiro, e allora la fumavo tutta io. mi sentivo forte e protettrice, le dicevo – o pensavo – qualcosa del tipo “non fa niente, se non ne vuoi più la finisco io”. come una specie di gesto di protezione, con l’aria di una persona che è “più grande”.
una sensazione molto intensa l’ho provata un giorno, quando sono andata in un bar con un gruppo più grande e ho fumato quasi metà pacchetto di LM azzurre. era un bar a due fermate da scuola, pieno di fumo, con certi tavoli tipo cubi, sedie tipo cubi e qualche slot machines. era l’inizio di marzo e avevo appena ricevuto un braccialetto di cotone da un ragazzo della C. noi eravamo nella A. il ragazzo era strano, non veniva a scuola più di tanto e si diceva giocasse d’azzardo tutto il giorno. nel tempo è anche stato trasferito. aveva genitori con i soldi, e il fatto di assentarsi non gli rovinava i voti più di tanto. era alto, con la faccia pallida e non parlava molto. un giorno, il primo marzo, mi ha dato il braccialetto di cotone e poi siamo stati al bar con tutti gli altri, visto che il primo marzo non si andava a scuola. c’era fumo e molta gente al tavolo. io e la mia amica non dicevamo una parola e ci guardavamo intorno. gli altri del gruppo parlavano soprattutto tra loro, ridevano forte. di ridere, ridevamo anche noi anche se non parlavamo. ridevamo alle battute, fumavamo con i piedi sul tavolo e le spalle appoggiate al muro. sono rimasta un paio d’ore, ho fumato mezzo pacchetto di LM azzurre e quando sono tornata a casa ho scritto nel diario “sono felice”. dopo di che le LM azzurre sono diventate le mie sigarette preferite. cambiavo sigarette in base a chi mi piaceva, era una sorta di prova di devozione, in seguito mi è piaciuto un tipo con cui ho fumato Assos e ho comprato Assos per un bel pezzo.
quando mio padre ha scoperto che fumo è stato dopo un bel po’ di anni. nel frattempo ci eravamo trasferiti dal terzo al decimo piano, in un altro palazzo. sono scesa dall’autobus e ho acceso un avanzo di sigaretta, sapevo esattamente che riuscivo a fumare un quarto di sigaretta dall’autobus fino ad un pino da cui ogni sera staccavo qualche ago che masticavo per strada. quella sera mio padre era alla fermata, mi aspettava, ha visto che mi accendevo una sigaretta e mi ha seguito fino a quando non l’ho fumata. l’ho visto quando sono arrivata al pino e mi ha detto che sono fatti miei se voglio rovinarmi la salute, si è arrabbiato e mi ha detto che se mi vede un’altra volta lo dice a mia madre. la quale mi ha scoperto a fumare alla finestra nello stesso periodo – la sera, dopo che si andava a letto, andavo alla finestra l’aprivo e fumavo una mezza sigaretta, sporgendomi fuori quanto più possibile. se sentivo la porta, la buttavo immediatamente e dicevo che ero alla finestra a guardare la città. quando mia madre mi ha scoperto con la sigaretta, mi ha detto che se mi vede ancora lo dice a mio padre. la situazione si è risolta quando, una sera al mare, mio padre era rimasto senza sigarette e dopo aver guardato dalla mia parte per un bel po’ di minuti, e poi verso mia madre, mi ha domandato se non avessi qualche sigaretta, che era rimasto senza. allora mi sono sentita di nuovo matura, protettrice e più sveglia di tutti loro messi insieme, ho tirato fuori il mio pacchetto da dieci e gliene ho data una.

1 Drumul Taberei è il nome di un quartiere di Bucarest, situato a sud-ovest della città.
2 Il sistema scolastico romeno calcola i vari cicli scolastici in modo continuativo, la settima classe corrisponde al terzo anno di scuola media.

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