ContraSens – Ugualmente lunghi e soli
novembre 22, 2011 Lascia un commento
Piccoli accorgimenti fonetico-sociali.
Le lettere che contraddistinguono i suoni della lingua romena, e che di conseguenza ne affilano la musicalità in senso specifico, in questi testi non hanno subito traslitterazione. A seguire, una breve guida fonetico-esplicativa per la loro lettura corretta:
Ă: una -a più gutturale, pronunciata con la parte anteriore della gola, a bocca mezza aperta.
Â: una -a gutturale che tende alla -i.
Ț: corrisponde ad una -z dura, come in pazzo.
Ș: corrisponde al suono -sc, come in sciare.
Buona lettura.
Ugualmente lunghi e soli
di Adrian Schiop
Traduzione di Clara Mitola
Ho 37 anni, lavoro nella stampa, due libri pubblicati e un affitto sul Prelungire Ferentari1. Fumo Kent lunghe perché sono tirchio e mi si spezza il cuore a buttare i soldi per le sigarette light; per fortuna nella stampa e sul Prelungire Ferentari, l’opzione Kent da dottore è di tutto rispetto. Il testo qui l’ho scritto nel 2000, nel periodo in cui lavoravo come docente a Cluj, fumavo Viceroy rosse e mi piaceva il postmodernismo. Nella buona tradizione degli autori che riciclano correnti e testi di gioventù, ho deciso di pubblicarlo in quest’antologia.
“Chiacchieravo col mio fratello immaginario.
Gli mentivo, gli dicevo di essere in quarta
elementare, che doveva ascoltarmi sottomesso.”
Con il fumo è un’altra cosa, non è come quella faccenda. Per quella faccenda, vedi qualcuno, immagini che ti piace, fai un passo avanti, è ok, ne fai ancora un altro, sei ugualmente libero, poi ancora uno, nemmeno questo ti chiude, ancora uno e un altro ancora e di colpo ti accorgi che non sei più libero, che sei preso nel desiderio di qualcun altro come dentro una trappola – e allora, quando realizzi questo, ti passa la voglia; tutt’altro rispetto al fumo. Come se i tuoi stessi desideri ti dessero alla testa, non ho idea di come dirlo diversamente, così forse è meglio senza, semplicemente meglio – come nel momento in cui sei a letto con qualcuno e siete entrambi ugualmente lunghi e soli e solo l’aria si distende calma tra voi. Avete 20 anni e qualcosa, fumate entrambi più di un pacchetto di sigarette al giorno, e questo si vedrà con certezza a un certo punto, per nessuno dei due è arrivato ancora il momento di chiudersi in casa dopo esser tornati dal lavoro, con una birra di fronte, perché entrambi avevamo 20 anni e qualcosa, ugualmente lunghi e soli, e stavamo uno accanto all’altro a letto a fumare e potevamo mettercela o non mettercela, e in effetti non è così importante che no, e dopo un po’ uno ha chiesto “e come dici che è con la vernice?”. Fuori era notte e tranquillo e la porta della stanza, che dà direttamente nella corte, aperta per far uscire il fumo – ma che importanza aveva il fatto che fosse notte, in definitiva avrebbe potuto essere giorno e noi ce ne stiamo appoggiati spalla a spalla sulla riva del fiume Porumbacu, fumando o buttando i sassi in acqua, “aveva 19 anni, il corpo di uno di 15 e la testa di uno di 10-11, aveva un viso bello rotondo, respirava con la bocca e dimenticava di chiuderla”. Oppure no dai, è meglio che comunque sia notte, perché era estate e le notti d’estate sono calme e le voci, nel fumo freddo che si alza dal terreno, si sentono più chiare, “mi ha detto che dormiva in un canale e mangiava dai bidoni dell’immondizia di un fast-food”. Si, perché potevamo mettercela o non mettercela e in effetti soprattutto parlavamo e fumavamo, ugualmente lunghi e soli, “gli sfregavo le braccia come se facesse freddo, gli davo ragione quando diceva qualcosa, mi illudevo di lasciargli qualcosa oltre ai soldi con cui lo pagavo”. Arrivò da me in campagna con due amici, un ragazzo silenzioso e una ragazza più sfrontata ma molto simpatica (loro dormivano in un altro corpo del palazzo), e tutti e tre sarebbero partiti in due giorni per un festival d’arte medievale e ci saremmo incontrati ancora chi lo sa quando, “poi ha cominciato a crescermi dentro come un’impazienza, avevo voglia di sbattere i piedi, di filarmela da lì”. Si era fatto giorno e un po’ freddo, il fumo era uscito già da molto dalla stanza attraverso la porta aperta, e la luce cominciava a filtrare sporca tra le persiane, “e il pensiero più opprimente è che ora lui potrebbe pensare a me”.
Oppure, meglio, come in quella vacanza all’inizio del XX secolo quando, grazie a congiunzioni astrali favorevoli, Arthur, un ragazzino sassone di 11 anni, mi ha insegnato a fumare. All’interno di un avvenimento le cui conseguenze si sarebbero viste solo intorno al nuovo millennio, quando una mattina mi sarei svegliato con i polmoni bloccati e incapaci di pompare aria nel sistema, comunque, all’interno di un avvenimento dubbioso e che non trova qui uno spazio narrativo, mio padre, un pensatore assorbito dal darwinismo e dalle arti meccaniche, se non un medico di campagna distrutto e alcolizzato, fu trasferito per motivi disciplinari a Netuș, un villaggio sassone posto ai margini dell’ex Impero Asburgico, e io fui inviato dagli altri tre parenti che avevo a responsabilizzarlo, perché non perda la faccia anche lì. Solo due parenti rimanevano a occuparsi di Arthur, la mamma e la nonna – suo nonno era morto, e il padre aveva trovato un’altra. Nella fotografia sovraesposta che mi è rimasta, io gli tengo la mano dietro la testa e lui mi arriva più o meno alle spalle. Arthur indossa dei pantaloni corti con le bretelle e ha i capelli sistemati come per la festa, mentre io, dietro un sacco di capelli arruffati, guardo impaurito l’obiettivo. In modo retroattivo, in quella foto mi piaccio tanto quanto Arthur – ci sono alcune foto in cui mi piaccio, per il resto mi sono indifferente… il mio amico aspirava il fumo in petto e rideva di me che soffiavo, “non così”, gonfiava il petto magro, “prima aspiri un po’ d’aria in bocca e poi tiri il fumo in petto”. Mi piaceva guardarlo fumare, aveva mani piccole, grassocce e lentigginose; d’altra parte, niente di quello che faceva mi sembrava noioso. In quel periodo avevo paura dei cani e mi piaceva sfregare le guance sul manto dei gattini, leggevo SF e credevo che dopo il 2000 sarebbe capitato qualcosa di inedito alla mia specie, perché nei libri di SF tutte le cose inedite succedevano dopo il nuovo millennio. Me ne stavo steso con Arthur e suo cugino sull’erba pungente accanto a un fiume caldo come liscivia, cuocevamo patate sul fuoco e fumavamo radici marroni di granturco, ci imbrattavamo di fango e poi dopo che il fango si era seccato indagavamo gli effetti sui nostri piccoli corpi, “guarda, il mio si sta rompendo”. Nella luce polverosa, sovraesposta dell’ex impero austriaco, tutto sembrava leggermente desincronizzato, aveva, così, un’immobilità strana di cose che non sarebbero mai accadute: d’altra parte, qualcuno è rimasto lì a invecchiare, seppellito in luoghi semplici e chiari. Eravamo ancora lontani dalla guerra dei sette sessi che avrebbe presto frantumato il mondo e dato il ben noto assetto di oggi e, proprio vista sotto la luce tagliente del nuovo millennio, non era affatto chiaro come qualcuno di quelle parti, proveniente dalla luce impolverata dalle ceneri dell’impero, avrebbe mai potuto diventare contemporaneo…
La mattina mangiavo qualcosa di corsa, prendevo le sigarette e m’incontravo con Arthur. Se capitava fosse andato da qualche parte ero mal disposto tutto il giorno. Qualche settimana dopo averlo conosciuto, già ero arrivato a stargli addosso tutto il tempo. Certe volte restavamo da lui fino a notte fonda e allora ci mettevamo nello stesso letto, lui voleva dormire ma io non glielo permettevo, lo stuzzicavo perché mi raccontasse storie di ogni tipo solo per tenerlo lontano dal sonno. Dopo un po’ lui si addormentava e io rimanevo ancora sveglio, e quello stato di veglia isterica diventava, da un certo momento in poi, opprimente, doloroso… in effetti avrei voluto stringerlo forte tra le braccia, ma non sapevo il perché – dall’interno della mia mente non si poteva vedere di più. Più in là, quando ho capito che succedeva in quelle notti, Arthur era cresciuto e non avevo più a che fare con lui.
Oppure, piuttosto, come quel ragazzino timido di ottava classe a cui tu, il tipo più strano di decima, hai insegnato a baciare, l’hai fatto perché ti ami oppure, più esattamente, sei riuscito a fare in modo che ti ami proprio perché non lo sa. E quando dico questo, non penso al fard necrofilo che piaceva così tanto alle professoresse più giovani o al famoso rossetto nero che stona chiaramente con la faccia pallida, ma ho sotto gli occhi “le guardie del corpo”, le ragazze aggressive e inabbordabili con cui hai avuto cura di circondarti. (Oltre a questo, e a un altro livello, era la tua realtà contraffatta, moltiplicata in infiniti accessori e rappresa nella luce violetta di club esclusivi. E comunque, all’ultimo livello, era proprio il punto in cui la tua realtà si beve bellezza e inconsistenza: i tipi che attiravano la tua attenzione). Come, gli hai chiesto quando l’hai invitato a bere una birra – incollandoti come per sbaglio con la gamba alla sua coscia – non hai mai fumato erba, e lui ha riconosciuto con vergogna che no, che non ha nemmeno mai fumato una sigaretta normale, come, gli hai chiesto dopo due giorni, quando eravate già vecchia amici, non hai mai avuto una ragazza, e lui ha riconosciuto, con un guizzo fanatico negli occhi, che no, che nemmeno ha mai dato un bacio – e non hai paura di essere preso in giro quando si porrà il problema, glielo hai chiesto, e poi dopo due giorni ti ha preso in giro a sangue sull’argomento. Lo sai che non ti farai mai “il fidanzato”, che lui terrà a te giusto il tempo che si veda che è uno scherzo, un piccolo capriccio pedagogico dei tuoi. Cioè in tre giorni. Ma hai già superato il limite, senti che non puoi più continuare la storia, il tuo scherzo architettato con ingegno comincia discretamente a fare acqua, e il pezzo di realtà che lo sostituisce comincia a vedersi sul fondo. Lo aspetti sulla terrazza del Motoare, emozionato come un adolescente, e pensi che in fondo ti sei rotta di andare a letto con quelli più grandi e che vuoi altro: un ragazzo con cui uscire a vedere un film, con cui perdere ore intere parlando al telefono o che cerchi sotto le arcate fluorescenti di un gioco multiplayer, in definitiva vorresti un ragazzo della tua età, mentre tra te e lui – il tuo amico di ottava – non ci sono, diciamo così, che due anni. Vorresti dirgli che tieni a lui (oppure, comunque, qualcosa di simile) e che questo scherzo caldo e confortevole che comprenderà entrambi è la cosa più dolorosa che ti sia mai capitata fino ad ora – ok, vorresti tanto dirglielo, ma ti è molto chiaro che se lo facessi tutto andrebbe in pezzi: perché lui ha bisogno di te solo in questa apparenza contraffatta, estesa all’infinito, del “migliore amico”, e che se ti rende accessibile l’ultimo livello della storia, quello in cui la tua realtà si beve bellezza e inconsistenza, tutto il fanatismo con cui tiene a te andrebbe a quel paese. Perché siete nella stessa storia, ma in corridoi diversi, sovrapposti; zappate nello stesso pezzo di sapone quotidiano, ma su altri livelli di realtà. (Questo da una parte. Dall’altra parte siete contenti di aver parlato e di esservi toccati; piace ad entrambi il gusto acido della saliva al fumo di marijuana quando ve lo date l’un l’altro, di bocca in bocca; vi ha acceso; da qualche parte dovevate incontrarvi).
Oppure, perché no? Come due convinte non-fumatrici di 15 anni che, sebbene si sentano attratte l’una dall’altra e che si caricano di elettricità a ogni contatto casuale, nel momento in cui si incontrano evitano ogni contatto e perdono tutta la notte a parlare di ragazzi o delle troiette che fumano dei cessi del liceo. Nessuna delle due ha il fidanzato, uscite solo di sabato entrambe a vedere un film e la domenica in processione, con altre due amiche, verso l’unica pizzeria italiana della città – e avanti sempre così fino a quando diventano studentesse in una città abbastanza grande, cominciano a fumare e le cose, con un certo ritardo e per entrambe parzialmente, si risolvono. Esiste un momento in cui ognuna immagina che l’altra l’ha fatto ma nessuna ha il coraggio di aprire la discussione. E proprio dopo che, inevitabilmente, cominciano a imbattersi in desideri esclusivi, preferiscono non parlarne. Si vergognano come nel momento in cui, adolescenti, dovevano spogliarsi nude una di fronte all’altra. Danzare insieme sembra dia diritto a una perversione. Non sono più contente d’incontrarsi casualmente per il campus e durante le vacanze passate a casa, nella piccola città, non si cercano più… ma non so in che misura tutto questo conti davvero, e non più che altro il fatto che le cose sarebbero potute andare, diciamo così, diversamente e che solo per casualità sono state così – perché in almeno sei scenari alternativi della realtà, le cose sono avvenute diversamente: la più timida tra le due, ad esempio, avrebbe potuto fare una gaffe a un certo punto (un’osservazione banale, inoffensiva, sfuggita nel mezzo di una pausa della conversazione, con il senso bruscamente deviato, “dirottato” dal contesto) o semplicemente uno di quei contatti a suo tempo non repressi avrebbero acquisito di colpo una consistenza irriducibile che non si sarebbe più potuta astrarre e la catastrofe (a quel punto) non si sarebbe più potuta evitare, vi sareste vergognate così tanto (della vergogna delle altre) che vi sarebbe sembrato meno traumatizzante continuare ciò che (senza aver desiderato coscientemente), avete iniziato già e (non vedo perché sarebbe impossibile) dopo qualche minuto spaventoso (con la testa sottoterra, con i pensieri da un’altra parte, con gesti ciechi, meccanici), di tale tensione che di quelli successivi avete perso il ricordo (perché in pochissimi casi l’accidentato conserva il ricordo dell’incidente), avete iniziato (come la nonna di Il fatto del giorno, violentata dal nipote di 15 anni che, guardando indifesa il marito, “si muove al ritmo dello stupratore”) a sincronizzare i movimenti.
* Tratto dall’antologia Il mio primo tiro (Editura ART, 2010)
1 È il nome di una delle arterie urbane più grandi di Bucarest, che attraversa il quartiere Ferentari appunto.
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