La noia /1

La noia ha dominato la storia del pensiero quasi quanto l’idea della vita, della morte, della giustizia, di Dio, del comunismo, dell’antisemitismo, dell’ateismo, delle geometrie non euclidee, dell’infinità dei mondi, del metodo socratico e via dicendo. È un argomento complicato per due ragioni fondamentali: innanzitutto per la difficoltà di stabilire cosa sia realmente la noia (è una condizione sociale, una predisposizione dell’animo o uno stato psicologico? O, ancora più difficile, dove finisce la noia e comincia la depressione patologica?) e in secondo luogo per la quantità di forme che la noia ha assunto nella storia.

Uno dei primi a parlarne – e quasi sicuramente uno dei più illustri – fu Lucrezio, nel I secolo avanti Cristo. Negli ultimi versi del terzo libro del De rerum natura parla di un particolare stato d’animo, d’un “taedium vitae” che arriva all’improvviso, di un senso d’insoddisfazione che coglie l’uomo che non sa rassegnarsi all’idea della morte. Dice Lucrezio di quest’uomo: «Esce spesso fuori dal grande palazzo colui che lo stare in casa ha tediato, e subito ritorna giacché sente che fuori non si sta per niente meglio». È un uomo inquieto quello lucreziano, perché non sa la vera natura delle cose; la noia di Lucrezio è il risultato del non conoscere le cause dell’infelicità umana, e l’infelicità arriva quando l’uomo non sa accettare con spirito epicureo (del quale Lucrezio era estimatore e divulgatore straordinario) la morte, inseguendo faticosamente e inutilmente la vita. È chiaro che un uomo così travagliato e privo di pace finisca col fuggire la sua natura mortale fuggendo automaticamente se stesso. Alla fine, tutto questo lo porta dritto dritto al taedium vitae di poco fa, cioè al peso di cui non conosce né la causa né il rimedio e che gli soffoca l’animo. È emblematico di questa condizione ante-pseudoromantica quello che Lucrezio dice poco dopo del suo prototipo di essere umano, il quale ritorna a casa e «sbadiglia immediatamente appena ha toccato la soglia della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l’oblio, o anche parte in fretta e furia per la città e torna a vederla. Così, ciascuno fugge se stesso, ma, a quel suo “io”, naturalmente, come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato e lo odia, perché è malato e non comprende le cause del male».

Questa definizione di noia come malattia diventa una specie di costante nella trattazione dell’argomento. Nel De secreto conflictu curarum mearum, comunemente chiamato Secretum, Petrarca confesserà a Sant’Agostino di soffrire di “aegritudo”, cioè di accidia. È il poeta stesso che la definisce una malattia dell’animo – ancora oggi in italiano “egro” significa “malato” – che lo condanna all’insoddisfazione, al timore per il futuro, al disinteressamento e allo scarso impegno nella ricerca del bene. Proprio come l’uomo di Lucrezio, Petrarca non sapeva rassegnarsi all’idea della morte e, benché avesse ogni cosa, soffriva per la vanità dell’esistenza. Purtroppo, il poeta di Arezzo non sapeva che lui ne soffriva in quanto intellettuale, cioè in quanto uomo dotato di sensibilità e intelligenza. Ma è Leopardi quello che ha dato un contributo veramente interessante sulla noia. Lui già nel periodo fra il 1817 e il 1832 aveva cominciato a comporre lo Zibaldone appuntando quotidianamente i suoi pensieri, poi – più o meno nello stesso periodo – aveva preso a scrivere le Operette morali, e infine c’erano stati i Pensieri, scritti a partire dal 1837 circa e pubblicati postumi nel 1845. In tutte e tre queste opere parla della noia. Nello Zibaldone dice che «la noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere». Nelle Operette morali sostiene che «la noia sia della natura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali; e donde un corpo parte, e un altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gli intervalli della vita frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia». Ma è nei Pensieri che Leopardi diventa più sistematico e, per così dire, filosofico. Innanzitutto, al pensiero LXVII, fa una distinzione sottile ed essenziale fra noia e disoccupazione, cioè fra lo stato in cui versa l’annoiato puro e quello dello sfaccendato. Ci dice che la maggior parte degli uomini trova semplice occupare il tempo con qualche «occupazione insulsa; e quando è del tutto disoccupata, non prova perciò gran pena», ed è proprio questo che distingue lo sfaccendato dall’annoiato: il rammarico per la noia (sempre Leopardi ci dice che «di qui nasce che gli uomini di sentimento sono sì poco intesi circa la noia, e fanno il volgo talvolta meravigliare e talvolta ridere, quando parlano della medesima e se ne dolgono con quella gravità di parole, che si usa in proposito dei mali maggiori e più inevitabili della vita», ricalcando le orme dei suoi predecessori). Ma è col pensiero LXVIII che Leopardi diventa, per così dire, innovativo, affermando la sublimità della noia rispetto agli altri sentimenti umani. Giustifica questa affermazione sostenendo che «il non potere essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera» e l’«accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto» è «il maggior segno di grandezza e nobiltà, che si vegga della natura umana». Per Leopardi, insomma, la noia è una cosa positiva perché è il segnale dell’esperienza: chi conosce la vita si annoia di essa perché non lo stupisce più. È un libro già letto. Così ci dà una visione nuova della noia e la classifica come “sentimento”.

Molto vicino a Leopardi è Kierkegaard, che in Aut-aut identifica la noia (come anche la malinconia e l’angoscia) come una conseguenza della vita estetica. È curioso vedere quanti punti ci siano in comune con Leopardi e, se Aut-aut e i Pensieri non fossero cronologicamente incompatibili, verrebbe il sospetto di una scopiazzatura. Fatta eccezione per qualche rigurgito di petrarchismo nei pensieri – «mi collego all’antica tradizione che annoverava la malinconia tra i peccati cardinali» e «ma la malinconia è un peccato, è veramente un peccato instar omnium, poiché è peccato non volere profondamente, e sentimentalmente» (nasce quasi involontariamente un filo conduttore fra l’accidia dell’aretino, la malinconia del danese e il sentimento ambiguo della noia che sto analizzando per sommi capi) –, il resto è parafrasato da Leopardi. Anche Kierkegaard sostiene che l’annoiato «è già esperto di ogni sorta di piaceri, sazio di essi» e che «solo nell’istante del piacere egli trova distrazione», ma «presto queste cose non lo divertono più». Dice che quando subentra la malinconia (cioè la noia) «molte cose si possono fare per dimenticarla, si può lavorare, ci si può aggrappare a mezzi più innocenti di quelli di Nerone, ma malinconia rimane». Nerone, per Kierkegaard, era un annoiato in cerca di distrazioni: per questo aveva provato a divertirsi bruciando Roma e si era lanciato in una serie di efferatezze. Ma la punta è quando confessa «che il fatto di essere melanconico, in un certo senso, non è un cattivo segno, poiché accade di solito alle nature più dotate», ossia a quegli uomini sensibili descritti da Leopardi. E la noia di Kierkegaard si collega direttamente a quella dei suoi predecessori e a quella di Baudelaire quando dice che «questa malattia, o piuttosto questo peccato, è molto comune ai nostri giorni ed è per esso che tutta la gioventù in Germania e in Francia sospira». Il filo di continuità si mantiene, volendo sotto le mentite spoglie del Don Giovanni. Lo ha mantenuto Petrarca nei confronti di Lucrezio, Leopardi nei confronti di Petrarca, Kierkegaard nei confronti di tutti e tre e di Baudelaire.

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5 Responses to La noia /1

  1. Pingback: La noia /2 « Scrittori precari

  2. gnpolec says:

    Argomento interessante. Kierkegaard era Danese comunque. Giusto per essere precisi.

  3. gnpolec says:

    Argomento interessante però Kierkegaard era Danese non Svedese, se vogliamo essere precisi..

  4. scrittoriprecari says:

    grazie per la segnalazione: ci era sfuggito… correggo subito!
    Simone

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