La noia /2
dicembre 14, 2011 2 commenti
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Il filo si mantiene integro anche coi romantici. Bisogna, però, riconoscere ai romantici (e a tutti i loro eroi malaticci e instabili) e a Baudelaire in particolare, il merito di aver portato la noia a un livello realmente artistico. Per Baudelaire (che è il guru di questo salto di qualità) la noia non sarà più solo noia, ma si tramuterà nel terribile spleen. Cos’è lo spleen? È una malattia dell’evo moderno: uno stato di scoraggiamento, di noia e inerte umor nero che contagia i giovani borghesi. Baudelaire ha scritto quattro splendide poesie sullo spleen – per non parlare della poesia di apertura a I fiori del male che lui dedica Al lettore – e la noia è l’elemento costante del malessere del poeta (malessere tangibile nell’uggia in cui sguazzano quei versi), il quale non ha più niente per cui vivere in questo mondo di bruttezza e imperfezione. La noia di Baudelaire, cioè lo spleen, è una forma di noia decisamente raffinata, perché non ha a che fare con la vita, ma solo con la bellezza… col fenomeno estetico (lampante la somiglianza con Schopenhauer, che sosteneva che la felicità fosse la contemplazione della bellezza). Diventa, in un certo senso, la versione dandy della noia leopardiana: Baudelaire non trova più niente che lo stupisca e lo attragga perché è un uomo di mondo, e solo i suoi paradisi artificiali alleviano un poco il fastidio del vivere lo squallore della vita (l’oasi d’orrore nel deserto di noia). Ma in fin dei conti, al di là di questo torpore i romantici non vanno. Una mano ce la dà nuovamente Kierkegaard, che sempre in Aut-aut ammette che «appare dunque che ogni concezione estetica della vita è disperazione, e che chiunque vive esteticamente è disperato, tanto se lo sa quanto se non lo sa». Anche se la prima parte di questa frase è molto interessante perché ribadisce che è l’approfondimento della parte estetica della vita a far nascere la noia (Lucrezio, Petrarca, Leopardi, Kierkegaard e Baudelaire sono letterati e artisti), il vero portento è la seconda parte: quando dice che la noia può essere nota o ignota. Questo ci autorizza a pensare che allora anche Orazio e Montale, tanto per fare degli esempi, hanno trattato della noia senza accorgersene. Il carpe diem delle Odi e l’ottava sul male di vivere degli Ossi di seppia è la manifestazione di una dolorosa angoscia che travaglia l’uomo che non nutre più fiducia per il futuro del genere umano e dell’uomo stesso: si tratta dello stesso disincanto – frutto dell’esperienza – che colpisce l’annoiato leopardiano, ma come al solito Leopardi è più scientifico e Orazio e Montale più condizionati dalla loro angoscia. Per questo in Leopardi la noia nasce dall’esperienza e in Orazio e Montale si trasforma in carpe diem (più tardi, addirittura, diverrà melancholia, chiamata “depressione ansiosa” dalla psicologia moderna) e in male di vivere.
Infine, nel 1960, Moravia scrisse La noia e diede un’ennesima definizione che – per quanto innovativa – ritornava a quella dei suoi predecessori. La noia di Moravia (che a ragione Michel David definisce “ambigua”) è in realtà semplice; non perché sia semplice come fenomeno, ma perché è semplice identificarne la sostanza matrice. Scrive Moravia nel Prologo: «La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante di una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira al petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prendere sonno veramente» e «Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza» (assurdità? C’entra qualcosa Sisifo?). Si evince che la noia moraviana è lo stato astratto per eccellenza, lo stato della diversione, della alienazione (David avrebbe preferito questo vocabolo al posto di “noia” per evitare ogni ambiguità, ma non sapeva che la noia di Moravia è la semplice coscienza della coincidenza di Dio e assurdo, come dice Camus): lo stato in cui l’individuo e la realtà non coincidono. Anche per Moravia la noia è un male per borghesi, ma non nel senso in cui l’avevano inteso Kierkegaard e Baudelaire: per Moravia la noia non nasce dall’overdose di vita che si può permettere solo il borghese, ma è “l’effetto collaterale” dell’essere borghese. La società che Moravia critica marxisticamente è quella che vede nel possesso la propria adesione al reale, per la quale la realtà è insufficiente quanto la coperta del dormiente perché entrambe sono legate da dei limiti. Per il borghese (o, meglio, per l’archetipo del borghese) il limite è il denaro e per l’uomo in genere è l’essenza. Cioè, finché il borghese percepisce la realtà in rapporti di entrate e uscite sarà soddisfatto di essa tanto quanto l’uomo qualsiasi che percepisce la realtà in quanto tale (in termini convenuti di spazio e tempo, causa ed effetto, identità e diversità, etc… etc…). Ma quando il borghese si “disfa” del denaro (come Dino nel romanzo di Moravia in questione), allora si verifica la noia, l’alienazione dalla realtà con conseguente incomunicabilità. La realtà è inadeguata, assurda, inafferrabile, insufficiente, aliena perché l’individuo (borghese o no) non ha più in comune con essa il “codice” per comprenderla – ecco il nominalismo che permea il libro e per cui sono necessari per l’esistenza della realtà un codice e una nomenclatura. Ma nonostante l’apparente difficoltà, Moravia si rifà come, già detto, ai suoi predecessori; la coperta troppo piccola, l’insufficienza di cui pecca la realtà non è altro che la sua stessa precarietà. Quando Lucrezio descrive un uomo in preda all’ansia di sfuggire alla morte, quando Petrarca vive l’angoscia per il futuro, quando Leopardi afferma che la noia nasce laddove non c’è più niente della vita che c’interessi, quando Kierkegaard dice che Nerone ha ucciso senza pietà solo per divertirsi, quando Baudelaire rifiuta la vita e si rifugia nella bellezza, quando Orazio e Montale parlano dell’uomo che vive nella provvisorietà della sua esistenza, richiamano tutti la precarietà della vita. La facilità con cui essa smette di esserci. Quando Dino, l’annoiato di Moravia, sente che la realtà ha un limite, quel limite è proprio questo: la realtà che può smettere in qualsiasi momento di esserci, negandosi in ogni suo aspetto perché la caratteristica della realtà è proprio quella di essere reale, cioè di esistere.
Noia e precarietà come gemelle siamesi.
Ma probabilmente la più bella osservazione sulla noia la scrisse Cioran in Squartamento, dicendo che quando l’uomo – spogliato di ogni occupazione – inizia ad ascoltarsi non ode altro che il vuoto che è: l’eco di quel vuoto è la noia.
Antonio Romano
Pezzo pregevole, ma inserire Baudelaire tra i romantici non ti pare un po’ fuorviante?
Ciao! Bellissimo articolo, volevo sapere se ci fosse un modo di contattare l’autore, poiché sto scrivendo una tesi e l’argomento mi interessa molto!