Carta taglia forbice – 12

Parte prima – i paragrafi della terza persona [1 – 2 – 3 – 4 – 5]
Parte seconda – i monologhi della prima persona [6 – 7 – 8 – 9]
Parte terza – i dialoghi delle persone [10 – 11 

Epilogo

Un orologio sempre perfettamente esatto non esiste.
Il massimo della precisione ottenibile te la dà un orologio
fermo, che anche se non sai quando, è assolutamente
esatto due volte al giorno.

James G. Ballard, Cronopoli

C’è un pezzo di morte, un lezzo di carni che si asciugano per bagnarsi, una nostalgia scafata della vita, quando penso alla relazione. Due esseri umani, due bipedi fica pene, o fica fica, o pene pene, non importa, che incrociano i nasi in una camera, che è la contrazione dell’uno nell’altro. Infilarsi nel corpo alieno per sentire il proprio.
Roba già detta, pensata, letta, pronunciata, studiata, capita, maledetta.
Ma ogni volta il muscolo gonfia la curva e sceglie la posizione. Che è un’azione coatta, una rielaborazione delle pose già assunte, una riabilitazione di se stessi con il genere umano. Ogni volta è una nuova volta, in pratica.
Così erano storie di piccoli truffatori del muscolo cardiaco, storie di vendicatori di corna, di allibratori che scelgono di giocarsi il cavallo malato, queste storie piatte che non indossano maschere, perché la pochezza non la mascheri, resta attaccata come grasso o come sangue, non la togli, lei sporca tutto, non la cancelli.
Questo è il gioco che avete letto. Un corpo a corpo tra tossici dell’esistenza, un rendez-vous con il terrore di restare soli. Che è banale, certo, che è universale, certo, che tocca tutti quelli che sono in piedi e tutti quelli che sono a terra. Puoi strisciare e nasconderti sotto il tavolo o puoi correre sulla scogliera, ma sempre bipede resti. Puoi darti le arie, sentirti superiore al criceto che ti punge i piedi. Tutto puoi pensare. Ma quello che galleggia nella tazza è il tuo marchio, e non ha un bell’aspetto.
Il massimo della precisione ottenibile da un orologio fermo è una cosa che può cambiarti la vita. Oppure no. Neanche ci pensi. Neanche fai finta di pensarci. Ognuno ha la sua maschera, e qualcuno sceglie Arlecchino, molti Pantalone. Pochi restano senza, come lo sguattero in cucina. Come le piccole storie di Carta taglia forbice, ambientate in due dimensioni geografiche in cui cambiano soltanto i nomi. Il resto è sempre della stessa materia. Carni che si bagnano e fallimenti.
Non era necessario raccontarle, queste storie. Non si doveva. Si poteva.
Anche l’insulto del lettore gioca la sua parte, in queste storie. Anche l’arroganza dell’analfabeta che cita il buon senso letterario fa il suo gioco. Tutto gioca, niente conta in queste storie. Andavano raccontate così. Fanculo.
Ora ti chiedo di applicarti in un esercizio: guardarti da fuori; che non è assolutamente come mettersi di fronte allo specchio e osservare minuziosamente la figura che vedi, no. Piuttosto assomiglia all’idea di rivedere una fotografia di dieci anni prima: l’immagine è stata scattata da una persona di cui non ricordi nulla, e l’immagine non ti torna in mente; è come se quello sconosciuto ti avesse rubato l’immagine, a tua insaputa, e ora rivedi quel frammento di cui ignoravi l’esistenza. Ci sei dentro, appari, sei tu quello che guarda nell’obiettivo, ma non lo sai. Lo scopri solo dopo aver pensato che è buffa la posizione delle gambe, e che uno dei lacci delle scarpe è immerso in una pozzanghera, e dopo aver osservato la posa innaturale del braccio destro e la mano storta, che l’uomo fotografato non sapeva dove mettere.
Così non vedi solo te stesso dieci anni prima, ma l’incrinatura che ha attraversato il tempo che ti separa da quel momento: è una curva, non è piatta, ma abbandonata alla corrente e simile all’orizzonte degli eventi; è quella superficie immaginaria che circonda un buco nero e rappresenta il luogo dei punti di non ritorno; una volta attraversata si è condannati all’attrazione gravitazionale del buco nero.
Non è illuminante, lo so, ma facci il callo.

Marco Lupo

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