L’amore e la morte, più l’odio. E il potere /1
gennaio 4, 2012 2 commenti
Per Freud l’amore è istinto al piacere, per sua propria caratteristica si colloca all’esterno dell’individuo. La morte è autodistruzione, ossia compulsività: è quando l’atto perde l’impulso vitale che lo contraddistingue; per sua propria caratteristica tende a convogliarsi all’interno dell’individuo e se si convoglia all’esterno diviene pura violenza.
La relazione fra eros e thanatos l’avevano già intravista Empedocle e Flaubert, che col personaggio di Emma Bovary (che s’innamora dopo la morte del genitore, che in collegio prima fantastica sull’amore e poi quasi morbosamente sulla morte, interessanti le letture che Emma fa nel capitolo 52) la amplia fascinosamente. Ma non finisce qui.
Marcuse, in Eros e civiltà, teorizza che la civiltà, per esistere, debba reprimere le pulsioni. Perché l’eros è animalità, mente la “lotta” contro le avversità permette la sedentarietà e dunque la civiltà: ma la “lotta” altro non è che thanatos. Ma fin qui siamo nel territorio di Freud. Marcuse entra in Marx nel momento stesso in cui dice che la civiltà dei consumi, coi suoi diktat di efficienza e produttività, aliena l’uomo e lo diserotizza… lo uccide?… E della stessa opinione sembrerebbe Houellebecq ne Le particelle elementari: il sesso prende il posto dell’amore.
Dante prende Paolo e Francesca e li rende lussuriosi, ma qual è la loro vera colpa, visto che di lussuria nel loro rapporto non se ne vede nemmeno l’ombra? E, soprattutto, cosa rappresenta il cognato omicida che patirà pene ben più terribili di quelle che toccano ai due fedifraghi?
Nel Cantico dei Cantici i due santi sposi si amano, ma si amano come possono fare due persone che sono accettate dalla società (vedi cosa dice Marcuse): l’amore è più facile se è accettato.
Ma l’amore non è accettato se è tradimento, come nel caso di Paolo e Francesca. L’amore non deve rompere il patto sociale, la fiducia nell’istituzione.
Interessante la simbologia dantesca: l’amore è vento della passione. Ed è un vento terribile che sbatte gli amanti traditori contro la pietra. Eppure, il cognato che li assassina meriterà qualcosa di peggio: la Caina, perché lui rappresenta qualcosa che Dante non tollera: l’odio.
Amore e morte non sembrano più nettamente incompatibili, perché si profila un autentico contrapposto: l’odio.
Anzi, sembra quasi, a guardarsi intorno, che il culmine dell’amore sia la morte. A sentire Leopardi sembrerebbe così, visto che in Amore e morte cita una frase di Menandro che dice «Muor giovane colui ch’al cielo è caro»: il più grande pegno d’amore è la morte. Ma conosciamo Leopardi: uno storpio onanista depresso che vede nell’amore il piacere e nella morte la pace, che sostiene che l’uomo nasca per amore e inizi subito ad amare (magari sua madre) e al contempo nasce destinato a morire.
L’amore è unione, la morte disgregazione… si dice elaborazione del lutto quando ci si separa da qualcuno o da qualcosa. Ma perché amore e morte sono così strettamente connesse? A cosa porta la loro unione? Porta all’armonia. Il concetto di armonia è molto simile a quello dell’integrazione secondo Derrida.
Questa teoria è dimostrata anche dal mito greco di Cadmo e Armonia, che è pure una storia d’amore.
Chi sono Cadmo e Armonia? Cadmo è un adepto di Atena e sconfigge il serpente sacro ad Ares (a cui Cadmo strapperà i denti e li pianterà nel terreno, per far nascere da ognuno di loro un guerriero). Questo potrebbe significare che l’intelletto, cioè la misura, tende a combattere la forza della violenza. Della stirpe di Cadmo fa parte Edipo, ma poi vedremo il ruolo di quest’ultimo nel nostro discorso. Armonia è figlia di Ares, che è la forza disgregatrice della violenza (come il cognato dantesco o i video snuff), e Afrodite, cioè il magnetismo del fascino della bellezza (e non dimentichiamo che Afrodite regala a sua figlia Armonia una collana che rende bella chi la indossa).
Sembra improvvisamente ridicolo considerare amore e morte delle antitesi: essi sono intrecciati come yin e yang. La vera antitesi sussiste fra amore e odio.
L’amore si realizza nella morte, ma culmina nell’odio.
Antonio Romano
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“La vita demoniaca di un innamorato è simile alla superficie di una solfatara; […] è il disordine della Natura.” (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)
Per Barthes le bolle che fanno “ploc” sulla superficie della solfatara sono quelle cose che rendono amaro e indigesto l’amore, come la gelosia, l’ossessione, la paura di “perdere la faccia” e cose così. L’amore – dicono o dicevano – è un demone. Una componente seminuminosa, fluttuante, che non si può facilmente redimere o ridurre a fattore umano.
L’amore, in letteratura ma anche (credo) nella vita non letteraria e anonima, è qualcosa che nasce irrazionale. Affiora dalle parti basse della coscienza, anzi da ciò che sta al di sotto di essa, e viene al mondo mutilo. Quest’incompiutezza è dovuta al fatto che l’amore è essenzialmente ricerca. Il soggetto passa dalla ricerca senza oggetto all’individuazione dell’oggetto: la ricerca si sposta così da un piano potenziale all’atto di perseguire ostinatamente un intento. Che è poi una persona, ma anche un’immagine o un’idea.
Quando si supera il segno di questa caccia disperata, in cui la preda è per definizione elusiva, scatta quella che gli antichi greci chiamavano “hybris”. Il superamento del segno, il leone interiore che prende ad azzannare l’uomo dall’interno. Domarlo equivale a compiere su di sé una chemio psichica, pericolosissima e spesso inutile, un’aggressione autoinferta che va contro Natura anche se il demone Eros è colui che mette disordine nella Natura. Paradosso invasivo. L’amore è una contraddizione quasi sovrannaturale, con cui dobbiamo imparare a convivere. Un luogo non comune, abissale ed oscuro, che tiene in pugno la vita di chi ha aperto l’anima all’assoluto. Di chi, insomma, ha spalancato il cuore a ciò che non si può sapere, non si può domare, non si può guardare.
(Paola Polselli)