Storia delle Utopie Economiche nei Mercati Globali /1

Sul nostro blog, che è sì di scrittori ma anche di precari (ribaltando la bella definizione mutuata da Libero), c’è sempre mancata una rubrica: sull’economia per la precisione, e ancor di più considerando l’attualità. Se non abbiamo mai affrontato il problema di petto, è perché fondamentalmente siamo degli ignoranti in materia. Ma il destino ci è venuto finalmente incontro, e non potevamo non sfruttare la ghiotta occasione: il ritrovamento degli appunti dell’economista Malina Kendelthon, scomparsa in circostanze poco chiare. Per rispetto nei confronti del suo lavoro (che non possiamo rivelarvi come sia giunto tra le nostri mani), abbiamo deciso di mantenere il titolo che l’autrice aveva pensato di dare al libro che avrebbe dovuto raccogliere le riflessioni che seguiranno: Le regole della casa – dall’etimologia della parola economia, che in greco è composta da οἶκος (oikos: casa) e νόμος (nomos: norma). Lo pubblicheremo noi sotto forma di dispense con cadenza settimanale e suddivise per argomenti, poiché questi appunti sono a tutti gli effetti una sorta di ABC dell’economia; e non potevamo chiedere di meglio, in tempi che necessitano di ripartire dalle definizioni: in tempi così gonfiati di chiassosi contenuti da non sapercisi più raccapezzare.

1. Quale Crescita?

«Gli individui non devono necessariamente essere autoreferenziali; possono invece tenere conto degli interessi altrui in vista del proprio vantaggio.» (A. Sen)

Economia e crescita sono concetti nativamente correlati. La presenza dell’uomo sulla terra ha costituito il presupposto per la percezione di qualsiasi concetto economico da parte dell’uomo stesso che, per natura, attribuisce valore a fronte del grado di scarsità reale o percepita del circostante. Come l’economia in senso tecnico nasce a fronte della scarsità, così la crescita segue l’economia a fronte della natura incrementale dei comportamenti.

Crescita e sviluppo, tuttavia, non sono sinonimi. La crescita, nella sua accezione economica, è l’aumento di beni e servizi prodotti dal sistema economico in un dato periodo di tempo. L’aumento dei beni presuppone stati sottostanti di equilibri comprovati che, per loro natura, forniscono le giuste spinte all’incremento, all’espansione, in definitiva alla crescita. Lo sviluppo, a questo punto, non rappresenterebbe altro che lo stadio di realizzazione più ambito e nobile della persona umana, considerando un’ampia gamma di aspetti: personali, culturali, sociali, economici etc.

Eppure, tali apparentemente banali considerazioni, sono state solo accarezzate dalla consapevolezza storico-economica per moltissimo tempo; fino al 1954, anno in cui lo psicologo Abraham Maslow teorizza che il bisogno, in quanto stato derivante da una mancanza totale o parziale di uno o più elementi costituenti il benessere della persona, non rappresenta necessariamente una motivazione sufficiente per agire, per crescere.

Per la prima volta in quegli anni, d’altro canto, la condizione sociale permetteva pulsioni ad agire che non trovavano la loro origine necessariamente in uno stato di carenza. Il bisogno in senso psicologico non era sempre sovrapponibile a quello psicofisiologico (come ad esempio nei casi di dipendenza psicologica da stupefacente che non danno dipendenza fisica). Ma procediamo con ordine.

«Lo sviluppo è libertà» (A. Sen)

Lo sviluppo è una vasta branca delle scienze sociali che nasce nel contesto storico-politico del secondo dopoguerra. Secondo una distinzione comune, la crescita viene riferita alla quantità di beni e servizi disponibili, mentre lo sviluppo comprende anche elementi connessi alla qualità della vita di natura sociale, culturale e politica.

Il concetto di crescita economica si riferisce alla capacità di un sistema economico di incrementare la disponibilità di beni e servizi atti a soddisfare il fabbisogno di un data popolazione. Si suppone che la disponibilità di beni e servizi debba aumentare nel tempo, in quanto tendenzialmente cresce la popolazione e con essa la domanda di beni. La crescita economica è l’indicatore economico maggiormente utilizzato dagli economisti, dai governi e dalle organizzazioni economiche internazionali; ed è spesso associata al benessere della popolazione. Tuttavia, la relazione tra le misure della crescita generalmente in uso e il benessere è molto complessa e controversa. Analogamente, si tende a considerare la crescita economica come sinonimo di sviluppo, ma quest’ultimo è un concetto più ampio di quello di crescita economica – la cui misura, più semplice e più utilizzata, è il tasso di crescita annuale del prodotto interno lordo pro-capite (combinando e sintetizzando diverse tipologie di indicatori).

Il prodotto interno lordo (PIL)* misura il valore totale dei beni e servizi prodotti in un anno e dipende fondamentalmente dalla dotazione di risorse economiche o fattori produttivi: l’ambiente (i fattori disponibili in natura), il capitale fisico (i fattori a loro volta prodotti) e il capitale umano (i fattori facenti capo alle facoltà umane presenti nella popolazione, che nella forma più semplice consiste della forza lavoro, ossia il numero di individui disponibili al lavoro nelle specifiche condizioni sociali e legali).

La relazione che esiste tra il livello delle risorse economiche e il livello del PIL si dice produttività, la quale può essere misurata per ciascun fattore produttivo o per tutti i fattori insieme. Di conseguenza, i sistemi economici possono produrre un PIL più o meno elevato non solo in dipendenza della quantità delle risorse economiche, ma anche in dipendenza della loro produttività che, in senso lato, dipende dallo loro qualità.

Infine il tasso di crescita annuale si ottiene come variazione percentuale del PIL pro-capite di un dato anno rispetto a quello dell’anno precedente. Un’utile approssimazione del tasso di crescita del PIL pro-capite è data dalla formula seguente: (Tasso di crescita del PIL – Tasso di crescita della popolazione). Questa formula mette in evidenza come la parte della produzione che di anno in anno è disponibile per ciascun membro della popolazione dipende dalla capacità del sistema economico di tenere il passo con l’incremento demografico. La disponibilità di beni e servizi per ciascun membro della popolazione aumenta solo se il tasso di crescita del PIL è maggiore del tasso di crescita della popolazione. L’idea è chiara. O si produce di più di quanto si consuma per vivere o non possono sussistere condizioni né di crescita né di sviluppo. In caso di fallimento, il sistema sarà unico carnefice e vittima del declino.

A proposito di fallimenti, esistono differenze molto forti tra i tassi di crescita del PIL pro-capite nel mondo. Uno dei numerosi paradossi che si presentano nell’economia mondiale è che spesso i paesi con un alto tasso di crescita della popolazione hanno anche un basso tasso di crescita del PIL, e viceversa. Questo significa che la disponibilità di beni e servizi pro-capite in un paese “povero” (con un basso PIL pro-capite) tende a ridursi, mentre in un paese “ricco” (con un alto PIL pro-capite) tende ad aumentare. Dunque la differenza di disponibilità di beni e servizi tra chi vive nei due gruppi di paesi tende ad allargarsi, come si è verificato nel corso di questo secolo. Negli ultimi cinquant’anni questo problema non ha avuto una soluzione soddisfacente su scala globale, nonostante sia stato al centro dell’attenzione e dell’azione di governi, organizzazioni non governative e organizzazioni economiche internazionali, come mai si era verificato in precedenza.

*Il PIL pro-capite è il rapporto tra il PIL e la popolazione residente nel paese, cioè misura la produzione disponibile per ciascun membro della popolazione. Generalmente, il PIL pro-capite è utilizzato come base di calcolo del reddito pro-capite. Le organizzazioni economiche internazionali classificano i paesi in tre gruppi principali: paesi a basso reddito, a medio reddito, ad alto reddito.

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10 Responses to Storia delle Utopie Economiche nei Mercati Globali /1

  1. “Uno dei numerosi paradossi che si presentano nell’economia mondiale è che spesso i paesi con un alto tasso di crescita della popolazione hanno anche un basso tasso di crescita del PIL, e viceversa. “. Abbiate pazienza, ma non è un paradosso, bensì la norma, ovvero una legge demografico – economica abbastanza evidente: la piramide delle età dei paesi ricchi è a botte, con tendenziale crescita delle fasce d’età elevate (per la discreta funzionalità dei servizi che accrescono l’ISU), la piramide delle età dei paesi poveri è a triangolo isoscele, con base molto larga (fascia d’età fra i 0 e i 5 anni in media) che progressivamente si restringe fino ad una speranza di vita la quale purtroppo, per taluni paesi africani, ad esempio, non supera i 45 anni. Pertanto, compiendo una semplice operazione aritmetica, si capisce che il PIL annuo pro – capite diminuisce all’aumentare della popolazione, e viceversa: è una legge matematica.
    per non dare nulla per scontato, vorrei specificare meglio: nel paesi poveri, la fascia d’età più numerosa è quella infantile, non produttiva in quanto non costituisce forza lavoro, mentre la scarsità della forza lavoro giovanile è determinata dalla migrazione in massa e dalla mortalità precoce. Per questo il PIL non cresce.
    Al contrario, nei paesi ricchi, si trasferisce la forza lavoro giovanile proveniente dai flussi migratori, andando a contribuire al PIL interno, nonostante la fascia dell’età pensionabile non produttiva progressivamente si allarghi.
    Il vero paradosso, piuttosto, è che la popolazione riesce a crescere esponenzialmente fino alla sovrappopolazione in paesi con tale mostruoso tasso di mortalità, ma ciò è spiegabile proprio in funzione del tipo di economia, in larga parte un’economia ancora di sussistenza, la quale abbisogna di braccia da lavoro di massa; ecco spiegati i boom demografici (famiglie fino a 15 figli!) di cui si sono resi partecipi i paesi africani, l’India e la Cina fino ai primi anni Duemila e che ora per essere veritieri sono in regressione a loro volta (la legge sul figlio unico emessa in Cina sia un esempio).

    Sonia Caporossi

  2. scrittoriprecari says:

    Sonia, le tue mi sembrano delle giuste considerazioni: d’altronde ripartire dall’ABC significa proprio aggiungere tutte le altre lettere dell’alfabeto – potere della condivisione in rete 🙂

    Simone

  3. L’Africa rurale ancora soggiace a questa legge demografica che stritola, assieme al debito pubblico, la propria economia, mentre India e Cina, attualmente, sono in posizione di ripresa, per quanto in ritardo sullo sviluppo del terziario: infatti, in virtù della delocalizzazione produttiva dall’Occidente all’Oriente, fenomeno di punta della globalizzazione economica, India e Cina sono avanzate nel settore secondario e stanno attualmente cominciando a sviluppare un ingente terziario. In pratica, i paesi dell’estremo Oriente ci stanno rincorrendo a colpi di settori economici in cui inevitabilmente, da un punto di vista storico, sono sempre indietro di una posizione (quando noi eravamo in piena terza rivoluzione industriale, loro erano in prevalenza agricoli e cominciavano la meccanizzazione dei settori produttivi!). Ciononostante, questa avanzata, complice anche lo sfruttamento da parte delle stesse multinazionali occidentali, è uno dei moventi principali dell’attuale crisi economica delle nazioni ad Ovest del mondo, data anche (ma si consideri solo come un epifenomeno) la quantità di posti di lavoro in perdita per una manodopera che da noi costa enormemente di più.
    Sonia Caporossi

  4. scrittoriprecari says:

    Comunque, a mio parere l’autrice (che purtroppo non può intervenire per ovvi motivi) usa il termine paradosso relativamente al fatto che esistano ancora economie di sussistenza, e che dunque etica ed economia non si accordano come dovrebbero (ma questo si capirà forse meglio leggendo anche le altre parti di questo lungo intervento che per esigenze di web abbiamo dovuto spezzettare).

    Simone

  5. Eh, ma a rigor di logica quello non è un paradosso, bensì uno scandalo! 🙂
    Etica ed economia non si sono mai accordati, del resto: persino nella filosofia delle quattro parole del moralissimo Croce l’economia era un distinto sviluppo ancora amorale dello spirito, precedente all’etica (e per un liberale vecchio stampo, questo sì che era paradossale!).
    Comunque l’articolo, a parte la mia piccola puntualizzazione, è ineccepibile e solleva giustamente riflessioni sulla condizione interazionale dei mille piani economici e sociali di questo sordido mondo.
    Grazie per l’occasione di dibattito.
    Sonia Caporossi

    P.S. sono insopportabile, lo so!

  6. Macché, ce ne fossero di più come te! 😉

  7. la realtà è uno scandalo, sono fondamentalmente d’accordo….ecco perchè forse per chi percepiva la “logica” in quanto tale, questo fosse un paradosso….certo che il Nobel per l’economia non potevano non darlo a Sen in quanto autore del trattato “etica ed economia” 🙂 …finalmente direi!…quà è come tra religione e politica!…economia e politica …. due oggetti abnormi e contaminati a mio parere….economia di destra? o economia di sinistra?…a me non risultano manuali così denominati!…sono le persone a fare il mondo, la politica, l’economia, basterebbe buon senso molto spesso…quella logica di cui si parla… nella mia logica, ad esempio, economia e religione sono connesse dall’etica del bene per cui la crescita, per me, potrebbe essere concepita anche come un possibile effetto della distribuzione della ricchezza … voglio dire che bisogna sempre intenderci sul senso del perimetro di analisi…crescita personale?crescita del paese? crescita globale?..boh…alla fine sgomitiamo sempre….perchè non si hanno obiettivi comuni…

  8. Pingback: Storia delle Utopie Economiche nei Mercati Globali /2 « Scrittori precari

  9. Stefano Frasca says:

    Grazie per l’interessante scritto di Malina Kendelthon. Ho apprezzato anche gli interventi di Sonia Caporossi. Ogni analisi di questo tipo è utile e va divulgata con ogni mezzo.

    In merito al titolo del vostro Blob ho solo una piccola osservazione da fare: perché definirsi “scrittori-precari” ? Non vi pare di alimentare così la perversità materialistica o economicista del pensiero unico che ha tutto l’interesse a stigmatizzare i propri avversari devalorizzandoli? Non è meglio “scrittori umanisti”? O scrittori “senza stipendio fisso” (più ironico ma assolutamente ragionevole…). Perché suscitare l’interesse censorio di un manipolo di stronzi come i non-giornalisti di Libero abbozzando sull’identità/qualità di “precari”? Non è meglio “scrittori-viventi” o sopravvissuti?.

    Recentemente ho letto un libro intitolato “Mestieri di scrittori” di Daria Galateria pubblicato da Sellerio nel 2007. Raccoglie una serie di ritratti di noti romanzieri (scritti per una trasmissione culturale di Radio3) che trovo molto incoraggiante per ogni tipo di creativo… In fondo non bisogna dimenticare che vivere delle proprie passioni è una giusta aspirazione che non si realizza quasi mai nei termini che ci aspettiamo…

    Un ultima domanda. Chi di voi avrebbe immaginato che il profetico termine “fine del lavoro” impiegato da Rifkin sarebbe stato così apocalittico? Quindici anni fa si credeva che questo concetto avrebbe coinciso con una liberazione dal lavoro classico e ripetitivo per introdurci in una età dell’oro in cui ricchezza e tempo libero avrebbero coinciso. Forse la soluzione del problema è veramente nelle nostre menti, a partire dalla definizione dei concetti e dall’uso liberato delle parole.

    Grazie per le vostre parole.

    Stefano

  10. Ciao Stefano,

    ti ringraziamo per l’apprezzamento. Quanto alla nostra definizione, come abbiamo già spiegato in passato si riferisce alla nostra reale condizione (tieni conto anche del contesto storico in cui nasciamo, ovvero a fine 2008, quando di precariato non si parlava così tanto come oggi).
    Quanto alla tua ultima domanda, mi pare che per adesso la liberazione dal lavoro coincida soltanto con l’aumento della povertà e della marginalità sociale, poiché è una “liberazione in perdita”.

    Simone

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