La depressione

Si parla di crisi economica. Ma se diamo retta all’etimo, dovremmo parlare di una crisi delle regole della casa.
Dovremmo domandarci se le scelte prese a partire dagli anni ’70 siano state positive o negative e se siano state inevitabili o prese per scarsezza dei loro promotori. È saggio rispondere che, economicamente e psicologicamente, in parte sono dipese da un clima generale e in parte da scelte specifiche sbagliate.
Consideriamo quella che potremmo chiamare “depressione”, sfruttando la parola per la sua duplice accezione. La depressione è un atteggiamento mentale che colpisce prevalentemente i maschi meridionali e in minima parte le donne settentrionali (passando per donne meridionali e uomini settentrionali) e che consiste in un timore per quello che ha definito “futuro nero”.
Chi è depresso non crede al futuro, non investe e dunque non crea ricchezza, finendo col non essere nemmeno di un qualche aiuto al proprio prossimo.
La depressione, tuttavia, è un atteggiamento realistico: ossia, realisticamente, ci si rende conto di non vivere in un mondo perfetto e di essere sottoposti ai capricci della casualità.
È, insomma, una risposta non del tutto sana a una situazione reale.
Servendoci di questa osservazione empirica, potremmo sostenere che la depressione nasca perché nessuno è convinto che il lavoro (e quindi l’investimento su se stessi) sia utile per avere successo.
Alcuni elementi ci fanno capire come in Italia la cultura pubblica non sia mai stata orientata né alla Rivoluzione Industriale né al Capitalismo. Questo è troppo individualista per entrare e radicarsi in uno spirito comunitario come quello italiano. Eppure Fanfani era della ferma opinione che cattolicesimo e capitalismo potessero essere compatibili, perché – l’uno con la confessione e l’altro con la “distruzione creatrice” – dicono che si può imparare dal proprio errore e andare avanti migliorandosi.
Ma qual è stato, in tempi recenti, l’inghippo che non ha permesso al capitalismo di affermarsi in Italia?
Nel ’68 la critica radicale al modello occidentale non ha avuto lo stesso svolgimento che ha avuto in altri paesi. Mentre altrove c’era il desiderio di rinnovare e migliorare, qui la lotta politica sessantottina ha assunto i contorni del radicalismo politico (terrorismo, stragismo, attentati, etc.).
Paradossalmente l’Italia ha criticato il capitalismo prima ancora di viverlo, ha avuto la post-modernità senza vivere la modernità in tutti i suoi passaggi fondamentali. Serviamoci di un aneddoto: una certa persona, diciottenne del ‘68, disse a suo padre, appartenente al vecchio sud tipicamente agrario, di volersi sottrarre al capitalismo rampante; fortuitamente era presente in quell’occasione anche Ugo La Malfa che disse: «Non si combatte ciò che non c’è». Come poteva esserci nel meridione di cinquant’anni fa il capitalismo rampante?
C’era una critica, ma non l’oggetto della critica, per cui il punto di partenza ragionevole (il rinnovamento, come negli altri paesi) conseguì risultati deleteri (come il cosiddetto “18 politico”, ossia l’eguaglianza priva di merito, la mera e meccanica parificazione coatta).
Citando Kant, se è vero che in tutto il mondo la cultura civica spiega come il mondo non sia “dato” bensì suscettibile d’ermeneutica e quindi di cambiamento, in Italia vige un Volkgeist che asserisce il mondo e la società come immutabili e l’individuo come organismo che deve adeguarvisi.
In questo contesto, l’unica cosa che ha permesso al timido liberalismo di non appassire e spegnersi è stata la cultura cattolica, per i motivi sopra spiegati (ecco perché Vaticano e impicci finanziari sono divenuti sinonimi anche nell’immaginario collettivo).
A questo punto, volendo per forza rispondere alla domanda su cosa abbia negato al capitalismo di mettere le radici nella Penisola, dobbiamo ammettere che non possiamo darci una soluzione definitiva e predefinita. Al limite, possiamo dire che una possibilità è: la cultura del paese non ha voluto.
Però, si potrebbe obiettare, negli anni ‘80 abbiamo assistito a una lievitazione della ricchezza. Vero, ma anche a una perdita del valore: non possiamo scindere ricchezza e valore in economia, perché è proprio tramite il prezzo che le risorse trovano la loro allocazione.
La depressione è endemica nel nostro paese, ma essa può essere sconfitta dimostrando che l’investimento (in tutte le sue accezioni) è possibile. Dunque creando ricchezza, ma non si può costruire ricchezza senza regole. Purtroppo il lato negativo del capitalismo è che è complicato da governare e lo è per molte ragioni. Capitalismo, individualismo e successo personali sono strettamente collegati: ovunque ci sia stato il capitalismo c’è stato benessere economico e democrazia (ovviamente entrambi con tutte le riserve del caso), ma rimane per questo il fatto che è intimamente indecente (mentre l’Occidente ricco spreca risorse, ogni anno nel mondo muoiano di fame 20 milioni di persone).
Quindi, nell’impossibilità di collocare le regole, occorrerebbe un’altra cura, ossia quella che potremmo chiamare “utopia sociale”, che in Italia è drammaticamente latitante.

Antonio Romano 

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