Fine pena mai: intervista agli sceneggiatori

Quella che segue è un’intervista seguita a una chiacchierata che ha fatto da preambolo alla proiezione del film Fine pena mai (2008), avvenuta tempo fa al Margot di Roma.

 

Simone Ghelli: Perché la scelta di un libro autobiografico come Vista d’interni  (2003) di Antonio Perrone?

Massimiliano Di Mino: Credo di non ricordarlo con precisione. Con molta probabilità eravamo alla ricerca di una storia estrema e drammatica, di una catabasi senza ritorno. Per dirla romanticamente è il libro che ha trovato noi. La storia che ci è cascata sotto gli occhi era forte e per di più vera, e la scrittura sentita, ma spesso ingenua, ci consentiva di muoverci con grande libertà, lasciandoci lo spazio di raccontare quello che volevamo; in altre parole, la cacciata da un paradiso, la persecuzione di Prometeo.

Pier Paolo Di Mino: Sia nel lavoro cinematografico che in quello narrativo (come in Fiume di tenebra), o in maniera ancora più evidente quando abbiamo ricostruito, diciamo secondo le indicazioni di Plutarco, le biografie di Pertini o di Garibaldi (i vari libretti rossi) abbiamo lavorato su una materia desunta dalla realtà. Indubbiamente la prima necessità sentita è quella di rivelare la natura fantastica e intrinsecamente metaforica del reale, di scappare dalla fantasia del realismo e da quella affine del fantastico. La realtà è un’apparizione, una rivelazione. E in maniera particolare i fatti biografici di personaggi che hanno assunto in maniera tragica il destino umano, come il nostro criminale nato, Tonio, sono una rivelazione sul destino, sulle pulsioni, sulle distorsioni e glorie di ognuno di noi. Quando abbiamo incontrato questo libro (abbastanza casualmente:uno dei registi è salentino, come Tonio e come la casa editrice che ha pubblicato la sua autobiografia) siamo rimasti colpiti dalla possibilità di attingere a un materiale poco filtrato dalla letteratura. Il libro si presentava come il reportage di un’anima.

Marco Saura: Dopo aver realizzato Italian Sud Est (2003), un docu-western alla ricerca perduta del lato solare, follemente gioioso, di una terra come il Salento, che ormai di solare ha ben poco, con i registi cercavamo una storia che spiegasse come il lato oscuro, niente affatto lunare, avesse preso il sopravvento. La storia di Antonio Perrone ci sembrò perfetta: una discesa agli inferi di un giovane borghese di un piccolo paesino vicino Lecce, che negli anni settanta studiava psicologia a Padova con Toni Negri e sognava di cambiare il mondo ergendosi ad Apostolo dello sballo (parole sue), e che una volta ritornato a casa fu costretto a scontrarsi con la violenta ignoranza di una terra frustata dall’isolamento culturale ed economico in cui era vissuta fino ad allora. Questo non solo gli farà perdere ogni ideale di libertà e di crescita collettiva ma lo renderà tra i protagonisti della Sacra Corona Unita, una mafia nata in quegli anni senza radici territoriali, come invece è accaduto con le altre mafie tradizionali, e che essendo formata, almeno nella sua prima generazione, soprattutto da cani sciolti come Antonio o da delinquenti da paese diventati spietati grazie al nirvana dell’eroina, non poteva far altro che morire in fretta lasciandosi alle spalle un mare di sangue.

 

S: Come avete lavorato alla “riduzione” del libro?

M: Dalla prima lettura del romanzo, con Pier Paolo e Marco, abbiamo immediatamente scovato un sottotesto e da questo desunto una nostra idea. E abbiamo provato a portarla avanti al meglio, fino a che abbiamo potuto. Giustamente quello cinematografico è un lavoro corale e le nostre esigenze si sono dovute incontrare con quelle dei parenti e amici del protagonista, con quelle dei registi, e non per ultimo con la produzione.

PP: Il lavoro cinematografico è simile a quello di chi partecipa alla costruzione di una cattedrale. Ogni operaio ha fatto la sua riduzione di questa storia. Noi sceneggiatori abbiamo lavorato sul testo, ma soprattutto sulla conoscenza diretta dei fatti, dei luoghi, delle persone, spogliando via via questi fatti e luoghi e persone dei loro connotati contingenti. Alla fine ci siamo ritrovati con la storia di una cacciata dal paradiso; di una tentazione fatale (vivere la vita contro ogni regola) che ha portato il nostro eroe al disastro.

MS: All’inizio doveva essere una docu-fiction, un tentativo di integrare il punto di vista di Antonio con quelli degli altri protagonisti dell’epoca (dai magistrati ai familiari, dai politici alla gente comune), le vere vittime silenziose di un fenomeno che da allora non avevano ancora trovato il coraggio di far riemergere dal loro inconscio ferito. Abbiamo lavorato soprattutto in questa direzione, anche se poi, per motivi meramente mercantili, la parte documentaristica è stata sacrificata per finire in un documentario separato dal film.

 

S: Negli ultimi anni nel cinema italiano, ma anche in letteratura, si è tornati a rappresentare sempre più spesso la violenza, molto spesso attraverso il filtro del genere (l’esempio che viene per primo è naturalmente Romanzo criminale, che dal libro è passato al cinema e infine alla televisione), con la volontà di rimettere mano al passato particolare del nostro paese: penso quindi in primo luogo al terrorismo e alla criminalità organizzata, che molto spesso hanno incrociato le loro strade. Indubbiamente un’opera come Fine pena mai si può dire compresa in questa tendenza, perciò vi chiedo: in che modo (se lo avete fatto) avete guardato ad altre opere affini? Voglio dire: vi siete sentiti influenzati da un certo tipo di immaginario?

M: La cosa curiosa è che pur non volendoci raffrontare direttamente con stilemi ‘gangsteristici’, siamo stati in qualche maniera costretti : parlando con le persone e i testimoni dell’epoca raccontata abbiamo scoperto che le mafie sono intrise di quell’immaginario; le mafie, e tutti i bravi ragazzi che le circondano. E forse lo è stata maggiormente la Sacra Corona Unita, mafia postmoderna che avendo poca tradizione ha dovuto fare sue quelle ‘ndrine, camorristiche e, perché no, italo-americane. In una scena del film il protagonista Antonio Perrone esce dal cinema dov’era andato a vedere Scarface, e gli amici per sfotterlo prendono a chiamarlo Tonio Montagna anziché Tony Montana. Non è stato solo un doveroso omaggio alla celebre pellicola, ma anche alla verità. Cosi come ce l’hanno narrata.

PP: Certo. Ma abbiamo guardato più che ai film d’oggi a quelli di allora. A quelli che anche Tonio e gli altri “scuri” avevano visto. È stato più che necessario farlo perché la particolare fantasia dietro i loro moventi è stata di natura cinematografica. Si sentivano tutti Scarface. In generale si può dire che la Sacra Corona Unita è stata una mafia postmoderna, senza radici tradizionali. Hanno copiato i riti dalle altre mafie, quelle storiche; ed hanno assunto uno stile prelevandolo dove meglio potevano, dove meglio ha potuto un’intera generazione: nelle sale cinematografiche. Questo, tra l’altro, è stato motivo di una particolare intensità tragica. Lo scollamento dalla realtà, la mancanza di regole e un certo amore per le pose hanno prodotto stragi insensate e atteggiamenti fuori controllo che in Salento sono ancora ricordati con dolore.

MS: Quando abbiamo iniziato a lavorare al film la “moda” delle pellicole neo-mafiose doveva ancora iniziare. Se non ricordo male il film di Romanzo Criminale uscì durante le prime stesure e Gomorra era ancora un piccolo fenomeno di nicchia. Indubbiamente la tentazione di usare un’arma potente come l’epica criminale per raccontare un pezzo di storia del nostro paese è venuta anche a noi, ma una volta conosciuta la realtà dei fatti un po’ ci è passata la voglia… Credo che nel film questo si noti, la discrasia tra l’immaginario cinematografico e la crudezza della materia ben rappresentata dalle cromature fotografiche.

S: Il film comincia con un lungo flashback in cui la voce fuori campo ci narra del destino cui è andato incontro il protagonista (un destino che sembra quasi già scritto), ma nel resto dell’opera si nota quasi una sorta di “simpatia” nei confronti del criminale: come vi siete posti voi nei confronti di Antonio e della sua storia?

M: Credo, dunque è solo una delle ipotesi, che ci siamo posti in maniera onesta. La voce narra direttamente da un inferno emendato, è la voce di un dannato che non senza difficoltà ricorda com’è arrivato fino a lì, le sue colpe e ingenuità. Un gioco cattivo che infine lo fagocita. Non credo che nella narrazione ci sia stata simpatia, ma solo voglia di capire se e come le stesse cose potevano succedere anche a noi; se c’è simpatia è la stessa con la quale Eco può raccontarci il suo falsario Simone Simonini, e se qualcuno obietta che quello è un personaggio inventato, rispondo che a maggior ragione, trattandosi il nostro protagonista di una persona reale e ancora viva, l’unica cosa che dovevamo fare per raccontarlo onestamente era sospendere ogni giudizio. Poi, a dirla tutta, se il personaggio ci stava così simpatico, l’avremmo fatto fuggire in Brasile, no?

PP: A me invece sta simpatico Tonio. Sì, io penso che abbiamo nutrito simpatia per lui. Abbiamo subito perfino un certo grado di identificazione. Paradigmatico è stato, in questo senso, l’atteggiamento di Claudio Santamaria (che interpreta Tonio), che in promozione lanciava messaggi in difesa di Tonio non proprio politicamente corretti. Tonio è stato un ragazzo come noi. Lui, come ha fatto la maggior parte delle persone della nostra generazione, ha confuso la libertà con la libertà di fare quello che ti viene in mente. Tonio è diventato un criminale. Il resto della popolazione si è arresa a una gestione della cosa pubblica criminale. C’è una differenza di grado, ma non di sostanza.

MS: L’ Antonio di allora non sta simpatico neanche all’Antonio di oggi. Sicuramente l’aver conosciuto tramite lettere e solo dopo la fine del film il vero Antonio di persona, un uomo annichilito da oltre vent’anni di isolamento totale in 41 bis, ci ha reso un po’ meno odioso quel giovane ingenuo che voleva cambiare il mondo ma che per cambiare se stesso è stato costretto ad abbandonarsi alla follia. Spesso succede così, quando si raccontano le storie “vere”.

 

S: Ritornando alla Sacra Corona Unita, voi avete accennato alla memoria orale acquisita sul posto: avete incontrato difficoltà nel reperire informazioni in merito? E come ha reagito il pubblico autoctono alla visione del film?

M: Memoria orale, ma anche corrispondenza con il protagonista e carte processuali. Ricordo poche difficoltà, le persone avevano, hanno, voglia di raccontare. Forse sentitisi dimenticati per una vita, avevano voglia di dire la loro verità. Certo, a volte i rapporti potevano sembrare esasperati, sopra le righe: uomini e donne prendono subito una morbosa confidenza con le telecamere. All’uscita del film credo non sia mancato qualche indignato, ma in generale è stato accolto con un entusiasmo non atteso, sopra ogni più rosea aspettativa. Pochi mesi dopo il film è stato fatto uscire con il supplemento del maggior quotidiano locale.

PP: No, i protagonisti di questa storia, e così le loro vittime, hanno parlato volentieri. Potremmo trovare tanti moventi a questo bisogno di raccontare. A un certo punto nasce il desiderio di parlare. Per capire. Per farsi una ragione. In parte si potrebbe leggere nella confessione anche un impulso dettato dalla vanità. Il mosaico che ne esce fuori, messo a confronto con le ricostruzioni storiche e con gli atti giudiziari è la materia viva, ancora dolente, con la quale, poi, abbiamo costruito una nostra versione della tragedia. E la rappresentazione di una tragedia per chi quei fatti li ha vissuti non è un’esperienza morbida. Molti salentini hanno reagito male, si sono sentiti offesi. La simpatia di Tonio è potuta sembrare loro una giustificazione di quel massacro.

MS: Devo fare un po’ il mediatore tra i miei colleghi… Alcuni salentini hanno voluto rimuovere l’evidenza arrivando a negare perfino l’esistenza della Sacra Corona Unita, mentre altri non vedevano l’ora di potersi liberare di quel fardello tenuto dentro di sé per troppo tempo. Lo stesso si può dire dell’accoglienza: chi si è rivisto in pieno e chi lo ha rifiutato. E perfino chi, come Daniela, la moglie di Antonio, all’inizio l’ha detestato e poi l’ha amato. In questo senso penso che il film sia ampiamente riuscito.

 

S: Quali sono secondo voi (sempre che riteniate che ci siano) le differenze tra la scrittura più squisitamente letteraria e quella per il cinema? Qual è, in sintesi, il rapporto che vedete tra la lingua scritta e quella delle immagini?

MS: Sto iniziando a confrontarmi con la scrittura letteraria solo ora, tra l’altro con un romanzo per ragazzi sugli sciamani amazzonici e gli alieni Incas. Lascio la parola a chi ha più voce in capitolo.

M: Tra le due scritture vedo in origine un abisso, che si sta pericolosamente colmando a favore del solo mezzo cinematografico. Ogni scrittura può insegnare qualcosa all’altra, per carità: una struttura, ad esempio, e, nel mio caso, un metodo, ma ogni traduzione per immagini è appunto una riduzione cinematografica. Sono due bellissime arti che lascerei distinte. Il cinema crea evocazioni tramite immagini, la letteratura dovrebbe farlo anche tramite la lingua. Tra i due linguaggi passa la differenza che trovo tra il sogno (la letteratura),capace di parlarti a più livelli e in maniera più profonda, e il dormiveglia (il cinema), nel quale possiamo solo cercare di portare con noi qualche frammento, qualche immagine che ci spieghi e ricordi chi eravamo e cosa facevamo fino a pochi istanti prima.

PP: Differenze fondamentali. Ed è lì il piacere. Penso che la nostra coscienza si poggi, malgrado i nostri sforzi perché non sia così, sull’anima. E l’anima è un arcipelago di persone con diversi caratteri. Insomma l’anima può essere soddisfatta solo praticando diversi generi. E diversi mezzi. Il cinema è spettacolo, è illusione, è andare dal mago. Quando scrivi cinema vuoi incantare e sentirti il padrone di questo incantesimo. Quando scrivi un romanzo vuoi che il lettore immagini da solo. Speri sempre che ti strappi di mano il gioco e si scordi di te.

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