Non sono d’accordo con quello che scrivo
febbraio 3, 2012 8 commenti
Non sono d’accordo con quello che scrivo
(Recensione2)
Il testo di Carlo Sperduti che state leggendo è una recensione al testo di Carlo Sperduti che state leggendo.
Sin dalla precedente affermazione, fastidiosamente separata da questa con un a capo, come a dire “guardate, è una frase a effetto”, appare evidente quanto l’autore si compiaccia di quella che vorrebbe far passare come una trovata originale; forse, nel suo infantile entusiasmo, persino geniale.
Siamo però convinti che il lettore non sia tanto stupido, come le ingenue speranze di Sperduti vorrebbero, e che non cadrà nella trappola del pistolotto meta-letterario, espediente talmente trito che fatichiamo a credere lo si stia utilizzando proprio ora, impunemente, mentre lo si condanna. Siamo invece persuasi che lo spirito critico di ciascuno saprà giudicare questo pezzo per quello che è: un pretenzioso sfoggio di affettata autoironia, una masturbazione su pagina in cui lo Sperduti, fingendo di parlar male di se stesso, non fa altro che farci intendere quanto si consideri finanche al di sopra di se stesso. Non sappiamo immaginare presunzione di più alto grado.
…la tracotanza all’ennesima potenza…sei un genio!:)
Brevissimo estratto dalle confessioni di L.N. Tolstoj:
Oltretutto, dopo aver messo in dubbio la sincerità della fede degli scrittori, osservai più attentamente i suoi sacerdoti e mi convinsi che quasi tutti i sacerdoti di quella fede, cioè gli scrittori, erano persone immorali e per la maggior parte persone cattive, delle nullità, per carattere molto inferiori alle persone che avevo incontrato prima nella mia vita scioperata e nella mia vita militare, ma sicuri e contenti di sé come solo possono esserlo o gli uomini che sono veramente santi oppure quelli che non sanno neppure cosa sia la santità. Quegli uomini mi diventarono odiosi ed io diventai odioso a me stesso e capii che quella fede era un inganno.
Ma lo strano è che per quanto avessi capito ben presto tutta la menzogna di quella fede e l’avessi rinnegata, pur tuttavia al rango datomi da quella gente – al rango di artista, di poeta, di maestro – io non rinunziai. Ingenuamente mi figuravo di essere poeta, artista, di poter insegnare a tutti, senza sapere io stesso che cosa insegnavo. E così continuavo a fare.
Dal contatto con quegli uomini ricavai un nuovo vizio: una superbia spinta fino alla morbosità e la folle sicurezza di essere chiamato ad insegnare agli uomini senza sapere io stesso che cosa. Ora ricordare quel tempo, ricordare il mio stato d’animo d’allora e lo stato d’animo di quelle persone (come loro, del resto, ve ne sono ancora a migliaia) per me è penoso e terribile e ridicolo; mi suscita esattamente la stessa sensazione che si prova in un manicomio.
Noi tutti allora eravamo convinti che bisognasse parlare e parlare, scrivere, stampare il più possibile e il più presto possibile, che tutto ciò fosse necessario per il bene dell’umanità. E noi, a migliaia, smentendoci e ingiuriandoci l’un l’altro, non facevamo che pubblicare, scrivere, per istruire gli altri. E, senza accorgerci che non sapevamo nulla, che al più semplice problema della vita – che cosa è bene, che cosa è male? – non sapevamo cosa rispondere, noi tutti senza ascoltarci l’un l’altro parlavamo tutti contemporaneamente, talvolta indulgendo e lodandoci l’uno con l’altro affinché anche con noi fossero indulgenti e ci lodassero, e talvolta invece irritandoci e urlando uno più forte dell’altro, proprio come in un manicomio.
Il continuo, sempre di Tolstoj (devo specificare perché sembrerebbe scritto da me):
Noi tutti allora eravamo convinti che bisognasse parlare e parlare, scrivere, stampare il più possibile e il più presto possibile, che tutto ciò fosse necessario per il bene dell’umanità. E noi, a migliaia, smentendoci e ingiuriandoci l’un l’altro, non facevamo che pubblicare, scrivere, per istruire gli altri. E, senza accorgerci che non sapevamo nulla, che al più semplice problema della vita – che cosa è bene, che cosa è male? – non sapevamo cosa rispondere, noi tutti senza ascoltarci l’un l’altro parlavamo tutti contemporaneamente, talvolta indulgendo e lodandoci l’uno con l’altro affinché anche con noi fossero indulgenti e ci lodassero, e talvolta invece irritandoci e urlando uno più forte dell’altro, proprio come in un manicomio.
Migliaia di operai giorno e notte lavoravano fino allo stremo delle forze, componevano, stampavano milioni di parole e la posta le propagava a tutta la Russia e noi sempre di più continuavamo a insegnare, insegnare, insegnare e non arrivavamo mai ad insegnare tutto ed eravamo sempre impermaliti perché ci davano poco ascolto.
Terribilmente strano, ma ora per me chiarissimo. La vera intima teoria nostra era questa: fare in modo di avere quanti più denari e lodi possibile. Per raggiungere questo scopo noi non sapevamo far altro che scrivere libretti e giornali. E questo facevamo. Ma affinché noi si potesse fare una cosa talmente inutile, pur essendo persuasi di essere persone molto importanti, avevamo bisogno anche di una teoria che giustificasse la nostra attività. Ed ecco che inventammo quanto segue: tutto ciò che è reale è razionale. E tutto ciò che è reale si sviluppa. Ma tutto si sviluppa per mezzo dell’istruzione. E l’istruzione si misura dalla diffusione dei libri, dei giornali. Ma a noi pagano denari e ci rispettano perché scriviamo libri e giornali, quindi noi siamo gli uomini migliori e più utili. Questa teoria sarebbe andata molto bene se noi tutti fossimo stati d’accordo; ma giacché contro ogni idea espressa da uno veniva sempre fuori un’idea diametralmente opposta, espressa da un altro, questo stesso fatto avrebbe dovuto farci ricredere. Ma di questo noi non ci accorgevamo. Ci pagavano, e le persone del nostro partito ci lodavano, di conseguenza ci ritenevamo nel giusto.
Ora è chiaro per me che non vi era nessuna differenza rispetto a un manicomio; ma allora lo sospettavo soltanto vagamente e, soltanto, come tutti i pazzi, davo del pazzo a tutti salvo che a me.
Da che gli scrittori precari hanno iniziato a non sopportare i miei scritti, e di conseguenza a censurarli, mi sono dedicato a ignorare il loro blog, traendone inestimabili vantaggi che mi vergogno a illustrare in conseguenza di alcuni deprecabili aspetti sessuali, non ascrivibili a dei veri e propri guadagni. Questa mattina, esaurita la verve con la quale ignoro le cose di poco conto, ho aperto la pagina del loro blog, più per perversione che curiosità, e ho visto non essere cambiate le ragioni che hanno causato le mie critiche passate. Appena copincollato un’autocritica di Tolstoj, che secondo me non avrebbe scalfito loro e neppure i loro lettori, mi sono ritrovato nella casella di posta due sollecitazioni, che parevano quelle inviate da Equitalia cinque minuti prima di pignorarti la casa, che minacciavano di iscriversi al blog. Il fatto ch’io le abbia ignorate vorrà mica dire qualcosa?
Massimo: noi censuriamo solo quando offendi, tant’è vero che gli ultimi commenti non sono stati rimossi. Rimane in effetti preoccupante la tua compulsione nel leggerci e nel commentare: ignorandoci ne hai guadagnato tu e pure noi. Saluti.
Simone
però bravo questo Tolstoj…a copiare lo Sperduti!
Purtroppo dire la verità senza offendere riduce la verità trasformandola in cortesia, quando è noto che il vero è tutto fuorché cortese. La verità non dev’essere ridotta per andare incontro a ego delicati, ma dovrebbero essere gli ego a doversi elevare per sapersi scostare dalla centralità dell’essere, quella che hanno occupato abusivamente a causa dei canoni esagerati che la sincerità chiede per non comminare sfratti. È anche vero che, di solito, chi scrive e nel contempo trova in sé il modo di armonizzare intelligenza, sentimento e volontà… mortifica il bisogno di sporgersi dal proprio loculo e va per prati a parlare con gli uccellini (scritto nel modo vezzeggiativo che esclude significati estensivi e laterali). Un eterno dilemma che non è ancora stato risolto dallo scrivere.
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