La scena è viva, viva la scena

Alcune considerazioni su L’O di Roma, Il nome giusto, Palacinche, Gatto Mondadory e il telefonino fatato.

di Vanni Santoni

Tommaso Giartosio ha avuto per me la funzione di un Caronte della letteratura: ricordo bene, quando in un 2008 che appare già lontanissimo, mi intervistava per Fahrenheit di Radio 3. Parlavo del mio Gli interessi in comune con questo tipo dai capelli bianchi, gentilissimo, competentissimo, e avevo la sensazione che finalmente si iniziasse a fare sul serio: di avere, insomma, un piede nel mondo dei libri. Mi ha fatto quindi sommamente piacere ritrovarmelo vicino di casa presso Contromano di Laterza: il suo L’O di Roma – in tondo e senza fermarsi mai è uscito subito dopo il mio libro nella medesima collana e vi ho ritrovato anche una certa, sia pur involontaria, continuità formale: il mio itinerario attraverso Firenze è narrativamente circolare così come quello di Giartosio attraverso Roma è fattualmente circolare. Il libro segue infatti l’autore mentre, fissato un centro in piazza Venezia e un raggio di quasi due chilometri, traccia una circonferenza attraverso Roma e poi la attraversa con rigore a tratti folle, cercando di superare qualunque ostacolo, abitazioni private incluse, pur di non lasciare la linea immaginaria che ha stabilito.

Forte di una prosa sontuosa e di una cultura che tracima a ogni riga, Giartosio comincia con una bella dose di sornioneria («Lettore, lettrice: seguimi») ma ben presto si rende conto che ciò che sta facendo non può essere ridotto alla sola dimensione ludica. Appare evidente, non appena il nostro si mette al lavoro, ovvero in marcia, come la mappatura sia sempre, inevitabilmente, un atto politico (e infatti l’autore non manca di ricordare l’esperienza di Stalker – noi a Firenze avevamo Cartografia Resistente). Lo è specialmente in una città come Roma, la quale, ben lungi dall’essere città ideale, è una città eccessiva, irregolare, ibrida, formata di infiniti strati sovrapposti, nella quale i luoghi del potere e quelli della desolazione si alternano senza ritegno.

Un cerchio, dunque, vorrebbe forse riportarla all’ordine, ricondurla a una leggibilità: che il nostro, all’inizio del suo percorso, incappi in un’emanazione del MACRO, e lì in un’opera di Merz sulla successione di Fibonacci, è incredibile solo per chi non crede nella sincronicità. Ma già a questo punto si intuisce che l’avventura giartosiana va anche oltre la dimensione politica: sfora in un attimo nella metafisica (e infatti ecco Flatlandia, dove, ricordiamo, i cerchi sono la casta sacerdotale; ecco Manganelli, ecco l’Aleph di Borges. Ecco il ventre di Maria).

Lungi dall’essere rassicurante, il cerchio è un enigma. Un enigma fatto di luoghi reali – campi da calcio, campi veri, di arbusti e sterpaglie, fino agli interni borghesi e ai ministeri, e addirittura uno stato estero, il Vaticano – ma il cui senso sembra continuare a sfuggire al nostro camminatore, tanto che addirittura, dopo aver provato a spiegarsela in un altro modo, laterale («Non sei più uno scrittore, sei un performer», p.137), quasi ci fa temere la resa («Altroché armonia del cerchio: nessun filo conduttore, vengo continuamente sbalzato dal centro alla periferia, dall’alto al basso, dal grand hotel al terrain vague, dalla basilica al cacatoio, dall’estensione all’intensivo. Vuoi cominciare proprio ora a lamentarti? Voglio capire, solo capire.» p.192), finché poi, provato da due anni di “O”, non giunge alla soluzione. Appare Montale. Appaiono Leopardi, la Szymborska. Come a ricordarci che scegliere una forma e piegarvi il testo, qualunque esso sia, è un gesto poetico, e nient’altro che poesia è del resto la somma di geometria, politica e metafisica.

Sincronicità ha voluto che un altro libro che nelle ultime settimane ha colpito la mia attenzione di lettore avesse diversi punti in comune con L’O di Roma, pur essendo un romanzo puro. Si tratta di Il nome giusto (Ponte alle Grazie), solido esordio del quarantottenne Sergio Garufi. Il nome giusto comincia con la morte come L’O di Roma si apre con un cimitero; come quest’ultimo si svolge a Roma; similmente a esso tracima cultura e onora Borges; infine, addirittura, a pagina 19 e di nuovo a pagina 20, si parla testualmente della “O di Obiit”. Obiit, morì. La morte, l’enigma per eccellenza.

Il nome giusto tracima cultura, dicevamo, tanto che alcuni hanno parlato di un romanzo per bibliofili, ma mi pare, a conti fatti, una definizione inadeguata. È certamente un romanzo scritto da un bibliofilo, che ha per protagonista un bibliofilo e contiene della bibliofilia, ma è un romanzo, io credo, sulle donne. Anche per questo, oltre che per la comune passione per Borges, Wallace, Burri, Fontana, il narratore Garufi mi è rimasto subito simpatico: ha ben chiaro cos’è che conta – le donne, i libri, l’arte (manca giusto il vino) – e poi anch’io, la prima volta che provai a scrivere un libro, scrissi un romanzo, fortunatamente rimasto inedito, sulle donne. Quanta presunzione: a ventisei anni, forte di un paio di buone stagioni, mi credevo già in grado di fare una cosa del genere. Sergio Garufi ci insegna che bisogna averne almeno quarantotto, e anche allora sarà tutta una selva di dubbi, di rimpianti, di incomprensioni – una selva che ci porteremo, come il suo protagonista fantasma (tre volte fantasma: ghost, ghotwriter e addirittura ghostreader, giacché ha lavorato come lettore per conto di un giurato del premio Strega troppo impegnato per leggere personalmente i libri candidati), nella tomba. È un fantasma ossessionato da fantasmi, quello di Garufi, e sono fantasmi di donne: Anna, Cristina, Nicole, Alima/Enrica, Barbara, Simona, ecco le vere coprotagoniste del romanzo, quanto e più degli scrittori i cui nomi fanno da titolo ai capitoli (ma solo nell’indice). E attraverso le donne (o almeno: attraverso una donna) passa il sogno del protagonista, dichiarato come irrealizzabile fin dalle premesse, essendo egli defunto: l’amore perfetto, compiuto, la ricomposizione del corpo unico platonico. «Cum qua vixit sine ulla macula», lui e Anna leggono, durante una visita a Milano, sulla lapide di un anonimo servo romano, usata come materiale da costruzione per il campanile della Chiesa di Santa Maria presso San Satiro.

È una storia divertente, quella di Il nome giusto, ottima per deliziare il palato del lettore colto, che si divertirà a cogliere tutti i rimandi che l’autore mette in campo, eppure lascia disperati. Non basta la morte a monte, che in teoria dovrebbe alleggerire subito la narrazione, rendendo impossibile un dramma peggiore: lascia disperati perché ci ricorda che non potremo fare molto di più che accumulare alcune passioni, prima di rendere l’anima, e se lo avremo fatto per benino, con gusto e dedizione, sarà già molto. Pensare di fissare noi stessi tramite l’arte appare addirittura come un vano sogno: a pagina 205, il protagonista, e sembra di sentire l’eco del Flaubert di «ogni borghese, nei bollori della giovinezza, sia pure per un giorno, per un minuto, si è creduto capace d’immense passioni, di imprese eccelse…», dice: «in camera diedi un’occhiata alla mia biblioteca, come se quei capolavori potessero ispirarmi, indirizzarmi sulla strada giusta […] Sfogliai i capolavori dei miei coetanei, Le particelle elementari, Infinite Jest, e mi sentii ridicolo.» Una pietra tombale sulla condizione borghese, una lapide che non finirà neanche a tener su un campanile. E tuttavia l’epigrafe del nostro non spetta agli scrittori ma, di nuovo, alle donne: è dopo la litigata finale con Anna che decide di distruggere il proprio manoscritto; dopo di essa che si avvia alla morte, in fin dei conti consapevole che neanche i suoi libri – nemmeno quelli posseduti, che finiscono svenduti o nel maceratore della carta da riciclare – conserveranno memoria di lui.

A questo punto, come in un’analoga recensione di qualche mese fa provavo a smontare la vulgata secondo cui in Italia si produrrebbe solo letteratura ombelicale, oggi potrei provare a toglierne di mezzo un’altra, quella secondo cui in Italia uscirebbe roba tutta uguale. Basterebbero questi due libri a dimostrare come la scena editoriale sia vitale e ricca di romanzi “non allineati”, ma c’è di più. La scena italiana contemporanea sta ricominciando a produrre fumetti di qualità – un settore che ormai, più che agonizzante, sembrava morto e sepolto – e fuori dai canoni usuali. Passo al fumetto non per caso: così come Il nome giusto è un libro (anche) sulla memoria, e sulla possibilità di trasmettere memoria di sé, di memoria parla un volume a fumetti – che tuttavia andrebbe definito narrazione per immagini: sul perché ci arriveremo – che mi è capitato di presentare qualche giorno fa. Si tratta di Palacinche (Fandango), di Alessandro Tota e Caterina Sansone.

In questo libro, i due autori, lui fumettista, lei fotografa, ripercorrono la storia della madre di lei, esule giuliano-dalmata, con una narrazione mista fumetti-foto, gestita con efficacia: Tota alterna vari stili grafici mentre a livello fotografico le foto della Sansone, scattate, per omogeneità stilistica, con una Rolleiflex d’epoca, si alternano a quelle originali di sua madre e alle riproduzioni di documenti a essa appartenuti, come passaporti provvisori e “tessere di frontiera”. Narrazione per immagini, dunque, oppure semplicemente romanzo: se dal lato fumettistico la prima ascendenza di Palacinche è senz’altro Maus di Spiegelman (ma anche, per l’ibrido fumetto-foto, Perché ho ucciso Pierre di Alfred e Ka, e, per le scelte di palette, Jimmy Corrigan di Ware), sono parenti stretti di questo libro soprattutto Gli Emigrati di Sebald, nel quale le fotografie, sia pure in numero limitato, hanno un ruolo decisivo per la narrazione, e ancor più il Progetto Lazarus di Hemon, nel quale narrazione e fotografia intessono un dialogo (in questo caso nella ricerca delle radici di un ebreo ucraino ucciso dalla polizia nella Chicago del 1908) analogo a quello costruito da Tota e Sansone.

Il libro vince tutte le scommesse, innanzitutto quella del “tema controverso”, che supera con una leggerezza tale da far dimenticare quale sia, poi, la controversia: ripartendo dalle memorie reali, dai reperti oggettivi, e forti di una visione sempre ben temperata sulle corde dell’affetto, Tota e Sansone escludono la possibilità di letture ideologiche e strumentali, riportando a galla la storia, quella fatta di persone – e di altre persone che la raccontano. Verrebbe da dire che il fumetto italiano è vivo e lotta insieme a noi, se non ci fosse, a pagina 189, una nota a riportarci alla realtà: “Realizzato col sostegno di: Mairie de Paris, ‘Paris Jeunes Adventures’, Direction de la Jeunesse et des Sports”. Fa un po’ male scoprire che per veder realizzato il progetto di due artisti di casa nostra si debba ringraziare un ente straniero, e viene naturale chiedersi quando l’Italia si deciderà a dotarsi di un sistema di borse, premi e residenze per il supporto dei giovani che intendono realizzare opere letterarie di una certa ambizione.

Finanziamenti o meno, sulla presunta morte del fumetto italiano molto è stato detto e scritto. Ricordo che una volta ne presi atto direttamente: fuori da un concerto, un tizio in pettorina fluorescente mi fece omaggio di una copia di XL, il magazine di Repubblica destinato al pubblico giovanile. Quel numero conteneva uno speciale su Andrea Pazienza, era forse l’anniversario della morte, sicché accettai il regalo con qualche aspettativa. Dentro, vari “nuovi fumettisti italiani” si cimentavano con omaggi al più grande, e ricordo bene quanto poco quei lavori, vuoi perché derivativi, vuoi perché sterili, vuoi perché semplicemente non all’altezza, mi impressionarono. Certo, mi si dirà, non si può giudicare un autore da un lavoro breve, fatto magari in fretta, su commissione per di più, e che obbliga a insostenibili confronti con un artista di valore universale. Tutte cose vere. Tuttavia, tra quelle storie, ce n’era una che gettava un raggio di luce. Luce lisergica, se non addirittura atropica, ma comunque luce. Vi si narrava una storia con Pertini, personaggio caro a Pazienza, rivisitato in chiave onirico-delirante. C’erano di mezzo pipe volanti e arcobaleni. In quel tratto artatamente infantile, riconobbi qualcosa che avevo già visto. Era l’epoca d’oro dei blog e fiorivano, tra diari e raccolte di pensieri, anche i fumettisti improvvisati. Apparentemente simili tra loro nel tratto lineare, scarabocchiato, e nell’uso del nonsense e della violenza parodizzata, si attestavano in realtà su diversi livelli qualitativi, e su tutti spiccava I fumetti della gleba, a firma Dr.Pira. Lo avevo perso di vista, e quell’XL me lo aveva fatto ritrovare. Di solito chi comincia con un tratto del genere lo fa di solito per mancanza di formazione artistica e tende dunque a evolversi verso uno stile più “bello”, ma il Dr.Pira ha fatto una scelta diversa, e più radicale: si è attenuto alle proprie regole iniziali, e anzi, come Gauguin e Ernst studiavano l’arte primitiva, ha studiato a fondo, io credo, la produzione artistica dei bambini – si guardi come rappresenta un braccio muscoloso, delle babbucce da mago o anche un semplice cappello – fino a cavarne uno stile proprio, che valorizza la base infantile affiancandole una costante ibridazione di generi e un’occhio sensibile alle suggestioni pop.

Oggi il Dr.Pira esce con un volume che non è, come ci si potrebbe aspettare, una raccolta delle sue storie brevi, ma un romanzo a se stante. Per Gatto Mondadory e il telefonino fatato (GRRRžetic), il Dr.Pira sceglie una delle ambientazioni a lui care – il medioevo fantastico-ruolistico – e un personaggio già rodato in alcune storie brevi, il Gatto Mondadori (che dispiace un po’ veder ribattezzato Mondadory, forse per evitare problemi con l’editore omonimo) e fa partire una grandiosa sarabanda di delirio. Ma non si tratta di un delirio casuale: è un delirio programmatico, costruito sulle solide linee grafiche e testuali stabilite in anni di Fumetti della gleba. È un fumetto fantasy come lo vorremmo fare tutti noi, se avessimo ancora sette anni e fossimo suonati come campane: e così ci ritroviamo a seguire il Gatto Mondadory che, incaricato dal re di ritrovare il suo smartphone, si ritrova a dover salvare il mondo assieme a Luigi e al Mago Merlino, in centoventotto pagine di curatissime allucinazioni infantili. Unico passo falso, le pp.81-94, dove la scelta di un lettering “bello” per staccare il flashback dalla vicenda principale, rompe la sospensione dell’incredulità e rende il gioco troppo scoperto per essere godibile. Ma poi la narrazione riprende vigore, ed è difficile non emozionarsi quando, nella scena madre del finale (la si immagini con sfondi reminiscenti di Doré e personaggi, invece, reminiscenti dei disegni di un vostro amico di seconda elementare), gli gnomi, in una selva di croci date alle fiamme, gridano «Erigete i megaliti!» La confezione sontuosa, infine – copertina telata con rifiniture dorate, rilegatura a filo e interni in bicromia – costituisce un ottimo contraltare alla art brut del Dr.Pira, conferendo al volume un carattere a un tempo ironico e serissimo fin dalla confezione.

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2 Responses to La scena è viva, viva la scena

  1. Pingback: una multirecensione di Vanni Santoni « la vie en beige

  2. Dr.Pira says:

    IO NON SONO UN PRECARIO, HO UN SACCO DI CA$H! I FUMETTI PAGANO PIU’ DEL RAP. GET RICH OR DIE TRYING!

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