Quando il comunismo finì a tavola

Riportiamo un breve estratto del nuovo libro di Fernando Coratelli, Quando il comunismo finì a tavola. Trentatré anni per smettere di mangiare bambini (Caratteri Mobili, 2011), dove si narra degli anni (dal 1978 al 2011) che hanno cambiato la politica italiana, e in particolar modo la sinistra: poco più di tre decenni esaminati alla luce di quattro tappe fondamentali (l’omicidio di Aldo Moro, la caduta del Muro di Berlino, i movimenti no global e i terribili giorni della crisi del 2011) e di due indicatori particolari delle mutazioni sociali (il cibo e la musica).

 

«Già, che succede dopo la caduta del Muro? Succede che stanno per farsi largo gli anni Novanta, succede che sta per invadere il nostro mondo il sorriso ebete di Arcore, succede che la Mafia alza il tiro, succede che gli Stati Uniti si mettono a fare guerra all’Iraq, succede che un poliziotto destrorso diventato magistrato mette a soqquadro la politica italiana, succede un mucchio di cose. Tuttavia, il primo contraccolpo si ha pochi giorni dopo la caduta del Muro. A Bologna, anzi alla Bolognina per la precisione, Achille Occhetto annuncia a una platea di comunisti che il Partito cambierà nome. Rimaniamo tutti basiti a vedere Ingrao che va ad abbracciare Occhetto dopo il discorso in cui ha dato l’estrema unzione al più grande partito dei lavoratori d’Europa; restiamo con un palmo di naso a vedere Occhetto che piange e Fassino che lo rincuora toccandogli il braccio, mentre D’Alema si spertica in applausi e sorrisi – sa che il potere sta per arrivare a lui. Quella svolta segna la fine di qualcosa che in apparenza è dovuta al crollo del comunismo del blocco sovietico, in realtà è il punto di caduta di quel nove maggio Settantotto di cui abbiamo parlato prima. La morte di Moro toglie la possibilità al Pci di sedere al governo, di dimostrare di essere un partito democratico, che rappresenta più del trenta per cento degli italiani, che merita di avere voce in capitolo nelle scelte e nelle decisioni di ammodernamento del Paese. Quel colpo dietro le ginocchia, quella possibilità strozzata nel momento clou del quasi pareggio Pci-Dc spinge Occhetto e compagni alla decisione fatale. Loro dicono che lo si fa per uscire da sinistra dal Muro che crolla, lo si fa per allargare agli altri pezzi della sinistra che non si riconoscono nel Partito comunista, per diventare una forza irresistibile e inarrestabile del panorama italiano. Invece in quel tocco di Fassino, in quel sorriso di D’Alema, nell’inutilità esistenziale di Veltroni è racchiuso tutto il fallimento di quell’operazione. Non è il Muro che crolla a trascinare con sé il Pci, è l’incapacità dei baffetti al potere, degli occhialini da regista cinematografico, della magrezza delle idee.»

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