“Il Principe”, Scrittura Industriale Collettiva

In vista della imminente – ma non così imminente – uscita di In territorio nemico, aka “Grande Romanzo SIC”, Scrittori precari ripubblicherà, ogni primo lunedì del mese, tutti i racconti collettivi scritti col metodo Scrittura Industriale Collettiva (grazie ai quali il metodo SIC è stato sviluppato fino a permettere la stesura di un romanzo) in una versione interamente revisionata e corretta. Si comincia con Il Principe.

Scritto nel 2007, Il Principe è il primo racconto SIC. Nato con l’obiettivo di essere un semplice banco di prova per il metodo e un’occasione per cominciare a lavorare, il suo soggetto fu scelto in modo del tutto casuale e definito in cinque minuti. La nostra unica preoccupazione era cercare di capire come organizzare il lavoro tra direttori artistici e scrittori, e tra schede e fasi di scrittura. Tuttavia, grazie al lavoro del primo Gruppo Scrittura, Il Principe crebbe pian piano, fino a diventare un racconto dotato di una propria dignità. Ambientato a Padova, tra velleità studentesche, amori e malattie mentali, il racconto ha la caratteristica di essere stato costruito usando solo i tre elementi base del metodo SIC (schede personaggio, schede luogo e schede situazione), con un gruppo scrittura ancora ignaro della metodologia completa, anche perché molte delle attuali meccaniche SIC sono state progettate proprio grazie al lavoro fatto su questo racconto.

Versione scaricabile: Il Principe (PDF).

Il Principe

Direttori Artistici: Gregorio Magini, Vanni Santoni.
Scrittori
: Jacopo Campidori, Francesco D’Isa, Enrico Nencini, Eleonora Schinella.


Al “da’ mano fratello!” dell’ambulante, Paolo si scosta, quasi evitasse la lama tesa di un coltello. Una vecchia ricurva sotto la sporta della spesa esclama:
– Vai in mona, Mozambico!
e aggiunge, rivolta a Paolo:
–  Questi sono tutti delinquenti!
Paolo la manda subito al diavolo:
– Ma cosa vuole! – le urla, e spalanca con rabbia la porta del supermercato.
“Peggio dei vu cumpra’, i padovani,” si dice, e comincia a guardarsi intorno spingendo il carrello.
È il tardo pomeriggio del venerdì, e come ogni venerdì Paolo è stanco per il lavoro e inacidito per la visita di rito all’Istituto. Gli sforzi che compie per rabbonire le furie insulse di suo zio Marino finiscono di sfinirlo per il fine settimana. La gente si affolla tra gli scaffali dell’Esselunga. “Più fuori di testa dello zio, i padovani,” borbotta tra sé.
Paolo spinge il carrello, carica una cassa di birra, una bottiglia di whisky da poco, un pacco di wurstel, uno di merendine. Tra un prodotto e l’altro gli si appiccica addosso una melassa erotica. Al supermercato gli viene sempre voglia di scopare: passa dalle merendine ai culi, dai polli ai seni, e si stizzisce perché sa che tornerà a casa con polli e merendine ma senza seni e culi, al massimo con un sorriso della cassiera che gli piace, accompagnato come ogni volta da un “perché non le hai parlato, idiota?”
Anche Anna entra all’Esselunga di malumore. Doveva comprare solo assorbenti, pane e shampoo, ma i coinquilini come al solito l’hanno incastrata e si ritrova con una lista della spesa di mezzo metro. “Sempre io a fare la spesa, sempre; mai che gli venga in mente di riempire il frigorifero, che a quei mentecatti venga in mente di trascinarsi al supermercato; dovrebbero essere loro a fare la spesa per me, loro che fagocitano qualsiasi schifezza e finiscono sempre tutto, barcollanti, con le occhiaie strabordanti, due bambini strafatti,” pensa.
Riempie il carrello, continuando a maledire i coinquilini e il loro appuntare le cose da comprare in modo casuale, senza rendersi conto che la costringono a ripercorrere gli stessi corridoi tre volte, avanti e indietro, tracciando una riga su ogni prodotto conquistato. Durante queste operazioni, Anna è come avvolta da una nube grigia; se mai dovesse esprimere qualcosa ad alta voce, sarebbe un generico “vaffanculo”.
Finita la lista, mentre si avvia alle casse, getta lo sguardo su degli strani ninnoli. “Che roba è questa? Ah, il Tamagotchi!” e ne ricorda la pubblicità martellante che da un po’ di tempo le fa il ritornello in testa.
Proprio dietro l’angolo, Paolo si sta avvicinando, struscia i piedi, lo sguardo inclinato a livello natiche. “Le donne più porche sono qui, è inutile negarlo, e anche le più belle, forse,” pensa mentre cammina fra gli scompartimenti, valutando il da farsi una volta di fronte alla cassiera e soppesando con gli occhi il culo ancora buono di una cinquantenne. Dai fonodiffusori una colata di note fa danzare i carrelli della spesa, adesso sta andando Johnny Cash, e Paolo lo respira a pieni polmoni, si riempie la bocca, lo stomaco, e ondeggia a ritmo.
Svoltato l’angolo, i suoi occhi passano da una confezione di pannocchie al culo di Anna; al profilo di Anna; al culo di Anna; ai capelli, al pavimento, e di nuovo al culo.
Anna si rigira tra le mani il pulcino elettronico. “E dai, ma lo vedi quanto costa, che ti frega? Posalo e pensa a quello che devi… Anzi, sai cosa, lo frego…” Si guarda intorno. “Se ne accorgerà qualcuno? Chi vuoi che mi veda?”
“Mi ha guardato, ne sono sicuro. E ora? Che faccio? Accidenti, quella mi ha guardato! Cosa faccio?” Paolo è fermo a quattro metri da Anna, finge di interessarsi a un colino per il tè. “Quella continua a guardarmi, che faccio? Paolo, se non fai niente sei un cretino. Avvicinati, affiancati, guarda quello che guarda lei, vedi che succede… Ma per l’amor di Dio, Paolo, avvicinati, quella figa ti guarda, quel culo guarda proprio te, vuole conoscerti, è chiaro! Paolo, dammi retta, hai fatto colpo, stavolta è fatta.”
Paolo le passa radente, si sporge un poco sui suoi capelli castani per respirare un briciolo di lei, rallenta come per dire qualcosa, non ha il coraggio di dire nulla, continua avanti, si ferma poco più in là, la guarda di nuovo.
Anna ormai vuole assolutamente il gingillo, ma non ha alcuna intenzione di comprarlo. Si guarda ancora attorno e infila rapidamente la confezione nella borsetta; in quella, nota Paolo che si è spostato alla sua destra, e nel suo cervello parte una vocina: “Quello mi sta guardando, mi ha visto di sicuro, è lì che fa finta di niente, ma non mi perde d’occhio, si è accorto che ho rubato il Tamagotchi, devo rimetterlo al suo posto, potrebbe essere uno della sicurezza, va’ che faccia seria…”
Paolo prende coraggio, comincia a camminare, dondolante, verso Anna. Lei estrae il Tamagotchi dalla borsetta. Lui si avvicina e comincia a guardare i Tamagotchi, li tocca tutti, come se li contasse, ne soppesa uno, pensando a quanto si può deformare a piacimento il desiderio di un bambino, al punto di volere una simile stronzata. Si chiede se a dieci anni lui un Tamagotchi l’avrebbe preteso, e il sorriso che gli vien fuori incrocia gli occhi di lei. Anna fa finta di niente e guarda la sua confezione, il cuore le batte forte per la tensione del tentato furto. Paolo non resiste più, guarda Anna e sorride di nuovo.
“Parlale, idiota!”
– Ma tu hai capito come funziona questa cosa?
“Bravo!”
In un’onda di autostima si rivede per un attimo diciassettenne, sudato, nudo allo specchio, quando subito dopo essersi masturbato si era sorriso, e si era detto:
– Tutto mi è qui alla mano perché lo voglio, – e aveva capito di aver concretizzato una sensazione che aveva sempre avuto, fin da quando, bambino, correva giù per le discese a rotta di collo, finché non gli mancava il fiato, in sprezzo al pericolo. La sua teoria preferita, eccola applicata.
– No, non direi, – fa Anna, e intanto rimette l’uovo sulla rastrelliera, lentamente, in modo da fargli vedere che lo sta riponendo.
– Avevi in mente di comprarlo?
“Che domanda stupida, l’ha appena riposto.”
– No, ho cambiato idea, – dice lei, e gli scocca un sorrisetto furbo come a dire “so che mi hai vista, ma non hai prove.” Ma quel sorriso per Paolo significa “ti sei accorto che ti guardavo, eh? E ora invitami anche a uscire, una di queste sere.”

Da cosa nasce cosa: parlano, discutono, si presentano, ridono, si conoscono, vanno insieme verso la cassa, si scambiano il numero. Paolo è al settimo cielo: “la chiamerò subito, oggi non si sa come ma ho fatto proprio colpo!” Anna non è troppo sicura, crede proprio che non gli darà spago: “È simpatico, ma niente di che.”
Paolo rientra in casa con un solo chiodo fisso nello testa, chiodo che ha la forma delle chiappe di Anna e il suono della sua voce che gli comunica il numero di telefono. Trascorre alcuni minuti rigirandosi tra le mani la cornetta, ci si gingilla, ma sul momento di comporre il numero ci ripensa: “una ragazza è bello sudarsela, le fai la corte, ci provi, spendi energie, ma questa me l’ha praticamente messa in mano, ha tolto all’approccio ogni attrattiva.” Subito dopo pensa che in realtà se la sta facendo sotto dalla paura.
Anna rientra nel suo appartamento, riversa i sacchetti sul tavolo, non riesce a trovare gli assorbenti tra le cose dei suoi coinquilini e urla, rivolta al corridoio, che si vengano almeno a prendere la loro roba. È seriamente incazzata, deve averli dimenticati armeggiando col Tamagotchi, magari li ha scordati per colpa di quel tipo di cui non ricorda il nome. I coinquilini vengono a prendere la roba ma si piazzano a sedere e ridono come pazzi, guardano Anna e ridono, poi, senza degnare di uno sguardo la roba sul tavolo, si mettono a parlare tra loro.
– Due palle. Che facciamo stasera?
– Lo sai, non c’è mai niente, finiremo in Piazza della Frutta come al solito.
– Eh sì, eh.
– Anna, ma tu non uscivi in Piazza della Frutta, una volta?
Anna al solo guardarli prova disgusto, repulsione, farebbe di tutto pur di non restare lì ancora un secondo, qualsiasi cosa pur di scappare.
Paolo, ancora roso dalla voglia di telefonare, prende a sistemare la spesa nella dispensa, e trova una scatola di assorbenti. “Facile che siano di Anna, visto che siamo arrivati alla cassa insieme.” Non ci pensa più un secondo e chiama.
Anna aspettava un motivo per uscire di casa; Paolo la invita a uscire di casa, ed eccoli seduti uno di fronte all’altra che bevono una birra, timidamente impacciati al tavolino di un bar.
Non è che lei sia realmente attratta, ma ha davvero voglia di un bel sogno, di innamorarsi: ci si può anche innamorare dell’amore a prima vista, e ritrovarsi a condividere le più dolci carezze dell’idillio con uno sconosciuto.
Neppure Paolo è molto attratto da quel tipo di ragazza, e a rivederla ha pure un viso bruttino: un naso un po’ troppo largo, una fronte lievemente sporgente. Ma il culo, e che due tette: rotonde, piene… Alla loro vista è il sesso di Paolo a prendere il sopravvento, parlando la sua lingua formata da un unico lemma, “scopare”, ripetuto senza tregua.
In amore, i giochi di luce possono essere decisivi: basta cogliere un istante, un’angolatura particolare, una lieve sfumatura comportamentale ed è fatta: la foto si imprime a fuoco nella memoria e si è innamorati. La sanno lunga i fotografi di moda, che si adoperano con mille trucchi per ottenere e presentare al pubblico quel fortunato sguardo, riuscendo a far apparire spaventosamente belle le loro già belle modelle. Ma due persone che si sforzano di innamorarsi sono come una troupe di fotografi maldestri: per quanto si impegnino nel posizionare le luci, per quanto possano spaccarsi la schiena con macchine, obiettivi e fondali, il risultato ha sempre un qualcosa di goffo, fuori posto. Eppure, un po’ perché da soli proprio non ci si sta, un po’ perché in fondo tutti hanno voglia di sesso e affetto, e un po’ perché hai voglia a criticare, da che mondo e mondo si prende quel che ci tocca, in breve tempo la frittata è fatta.
Anna si butta a capofitto nella relazione, nonostante una vocina spesso e volentieri le si affacci nella testa per mormorarle un po’ di dubbio e disappunto. Ma lei la mette sempre a tacere, che non ne vuole sapere, non vuole rovinare ogni storia come ha sempre fatto, solo perché è una bambina che non sa mai accontentarsi. Vuole essere padrona delle proprie scelte, vuole decidere lei la propria vita, è lei che ha il timone, non è mica una banderuola. Si rassicura un po’ pensando all’aria serena e matura di Paolo quando la guarda.
Dal canto suo Paolo è rimasto deluso per non averla scopata alla prima uscita. Anche alla seconda niente, “non ci stava, la troia,” in realtà non ha fatto alcun tentativo, e ad Anna, che aveva una voglia che non stava nella pelle, non era certo sfuggito. La terza volta Paolo pensa “se non la scopo oggi, non la scopo più.” Va a finire che è Anna a rompere gli indugi saltandogli addosso, e a quel punto lui è davvero sicuro di amarla, vuoi perché era da troppo tempo che non sentiva il calore dei seni di una donna, il piacere dei suoi baci, la dolcezza dei suoi abbracci, vuoi perché in fondo è un romantico, vuoi perché l’astinenza fa stare proprio male, in ogni caso Paolo parte per un altro mondo, e dal quel momento in poi per lui tutto è sospiri, ansiti, desiderio, voglia di rivederla, desiderio di essere solo con lei, ovunque, sempre, forse per sempre. Quando poi va a cena a casa di lei per la prima volta, oltre alla spensierata atmosfera studentesca dell’appartamento, la cosa che lo colpisce di più è una scacchiera in un angolo del salotto. Gli sale una nostalgia improvvisa per i tempi in cui si dilettava di scacchi, per la sua giovinezza: “ma dov’è finita?” si chiede.
Quella notte, tenendo tra le braccia il corpo di Anna, Paolo rievoca con senso di trionfo il proprio passato: Giurisprudenza, Padova, l’abbandono di Giurisprudenza, l’assunzione come barista, come commesso di un rivenditore di autoricambi, come commesso di un negozio di forniture da ufficio, il rifiuto di un buon lavoro presso un conoscente della madre per non tornare in quella fogna di Treviso, infine l’assunzione come contabile. E sempre quella paura di scoprire di essere estremamente banale e mediocre, e lo strazio con quelle puttanelle con la faccia della mamma, la paura della cilecca che gli impediva di avvicinarle… “Tutto finito..!” La storia con Anna l’avrebbe fatto sentire di nuovo vivo.
Lei invece rimane dubbiosa. Vive la relazione da una certa distanza, come se il suo corpo avesse il pilota automatico e lei dall’esterno lo vedesse amare, giurare amore, godere dell’amore, ma senza un vero coinvolgimento, sempre ben protetta in un punto d’osservazione lontano da tutto, come se dicesse “fate fate, non badate a me, io vi guardo soltanto.” Spesso chiede a Paolo se la ama veramente, glielo chiede quasi dopo ogni rapporto, ma la domanda reale che Anna fa in questi momenti è “ma io ti conosco? E tu?”
E ogni volta che qualcuno – ad Anna un’amica nel bagno di Lettere, a Paolo un collega alla macchina del caffè – chiederà loro come va col rispettivo partner, entrambi risponderanno:
– Bene.
Ma Paolo dirà “bene“ con soddisfazione, assentendo col capo, a far intendere che le cose vanno proprio bene, stanno bene insieme, non litigano, si amano; Anna invece dirà “bene,” ma dicendolo si guarderà i piedi, e le capiterà di pensare a Simone, il suo primo e unico vero amore, e a come lui amasse sentirla russare sul suo petto dopo aver fatto l’amore: “ma perché lo trattai così male quando me lo disse? E perché l’ho lasciato, poi?”

Paolo apre gli occhi, una mattina, ancor prima di dare una manata alla sveglia si accorge che sta già pensando a lei.
Mentre si fa la barba continua a pensare: “da quanto tempo non mi sento così, sono veramente innamorato, non c’è nient’altro che possa desiderare, che bella sensazione…”
– Ahi!
“Ci fosse una volta che non mi taglio, quando mi faccio la barba! Va be’, chi se ne frega! La presento a mamma… E se non si piacciono? Potremmo anche scappare da qualche parte, ma lei scapperebbe con me? La porterei in capo al mondo, forse, a far che in capo al mondo? Chissà che mi farebbe…”
Paolo arriva a sorridere sul lavoro, i colleghi contabili lo guardano e ridacchiano, fanno commenti e congetture, lo hanno capito che è innamorato perso. A lui non importa che ridano, anzi ne è contento.
“Che poi di queste cose te ne accorgi subito. Quando è la ragazza ideale, quando è quella giusta, lo senti, non ci sono storie, te ne accorgi, punto e basta. E sei felice. Basta pensare alla mia fissa di essere impotente: quante scopate mi sono perso perché avevo paura? Quante? E con lei invece tutto è andato liscio, senza problemi. Mi sentivo sicuro perché lei ha saputo mettermi a mio agio, e se non è un segno questo, allora mi chiedo come si fa a riconoscere il vero amore.”
Anna cammina per strada, guarda le vetrine dei negozi, si studia i capelli, il trucco, la bocca. Poi una libreria, il nuovo libro di Stephen King. Ed eccola lì, alla cassa, che controlla cauta che non ci siano compagni di Lettere in zona che la possano vedere mentre compra quella roba là, e paga trentaduemilanovecento lire per l’ultimo libro del re del brivido, oramai ce li ha tutti, leggerà anche questo, anzi non vede l’ora di buttarsi sul letto e immergersi nella lettura. Avrebbe voluto comperare un regalo anche per Paolo, “ma non legge nulla lui, l’ultima volta che gli ho regalato un libro l’ha appoggiato sul comodino ed è ancora lì, non l’ha neppure mai aperto. Non la sopporto questa cosa, non ha interessi, non ha ideali, non ha niente. No Anna, così diventi cattiva però, non puoi dire questo. Però è vero. Ma non lo dire lo stesso. E poi è così appiccicoso, fosse per lui staremmo sempre io e lui, lui ed io. Ma io mi annoio così, non sono fatta per queste relazioni oppressive. Ecco la parola giusta: oppressivo. Sempre lì col fiato sul collo, sempre indignato, sospettoso, mi fa duemila domande, e con chi sei stata e dove sei stata… Sarà che hai trent’anni ma rilassati un po’, che palle, io non la reggo questa situazione, mi soffoca. E poi mai un regalo, ma è possibile? Con quelle sue teorie, ma se ci crede lui mica significa che devo crederci anche io. È un tirchio, ecco la verità, non gli va di spendere soldi, altro che «amore che si dimostra giorno per giorno», è un tirchio, punto e basta. E non sono cattiva, è la pura verità.”
Paolo e Anna si incontrano sempre a sera, eccetto il fine settimana, quando fanno qualche breve scampagnata, o stanno in casa, finché una domenica lui si decide e la trascina a pranzo dalla madre, a Treviso, e da quella volta ce la porta quasi ogni fine settimana. Pur avendo preso la prima visita come un’incombenza fastidiosa ma necessaria, Anna rimane sfavorevolmente colpita dall’atmosfera che respira in quella casa, in cui quella donna appesantita e triste passa il tempo a ricevere continue, telegrafiche telefonate, e a rievocare l’infanzia dell’unico figlio. Si chiede se avrebbe mai proposto a Paolo di andare a pranzo in villa da suo padre e scuote la testa, inorridita, all’idea.
Ben presto, stare con Paolo diventa molto simile a stare con uno che sta con te solo perché ha bisogno di farsi una scopata ogni tanto. La cosa ad Anna andrebbe anche bene, in fondo, ma non sopporta i modi di Paolo: decide cosa, come, dove e quando, salvo poi lasciare che tutto vada a catafascio facendo sempre le stesse cose, ubriacandosi quasi ogni sera, litigando con la madre quando vanno a pranzo da lei, lamentandosi che è stanco, scopando in fretta e male.
Paolo, colmo di testardaggine maschile, si lega invece a lei con una forza figlia della stessa rabbia di non saperla amare, colmando il vuoto del sentimento con uno dei trucchi involontari più vecchi del mondo – utilizzare un altro sentimento, a cui si cambia nome e aspetto. Vestendo i comportamenti dell’amore, Paolo ne evoca anche la potenza. Il risultato è genuino, dopo tutto, ma orfano di padre: è un effetto senza la giusta causa, funzionante come un orologio, ma sul fuso orario sbagliato.
Anna, al contrario, colma di femminile, affettuosa freddezza, non può condividere la sua rabbia. Per lei l’incapacità di amare è un’eco che rimbalza da un muro all’altro della sua anima, e non può cristallizzarsi in un errore; è una costante attitudine a sbagliare senza fare grandi sbagli. In questo movimento, Anna è alla deriva, e allontanarsi pian piano da Paolo le viene naturale come a una vela essere sospinta dal vento.

Un sabato come un altro, qualche mese dopo, Paolo e Anna tornano in macchina da una gita in campagna.
– Mi vuoi dire adesso cos’è che hai? Per cos’è che sei arrabbiata con me?
– Ma no, perché? Hai fatto qualcosa per cui dovrei essere incazzata?
Quella mattina Anna si era svegliata con un’aria strana, non parlava granché, ma fingeva che tutto andasse bene.
– Io strana? No non ho niente, solo mal di testa.
Paolo aveva capito che sotto c’era qualcosa, l’aveva letto nei suoi occhi, ma di che cosa fosse, non ne aveva la minima idea.
– Non ti ricordi più che avevamo detto d’andare al fiume?
Paolo aveva imprecato tra sé, e si era chiesto com’era possibile che avesse voglia di fare gite, dopo la sera precedente. “Ma non ha sonno? Io ho un coma pazzesco, una sete della madonna, mi viene ancora da vomitare…”
Comunque fosse, i due erano partiti, ma così tardi che il sole sarebbe calato di lì a un paio d’ore. Soffrendo ancora i postumi della sborni,a Paolo aveva camminato nell’erba della campagna, respirandone l’odore frizzante e ascoltando il canto dei pochi uccelli, fingendo che tutto quello lo interessasse, mentre cercava di capire che cos’avesse Anna che non andava.
– Ma si può sapere che hai?
– Niente! E falla finita!
Avevano camminato lungo i prati, in silenzioso fastidio, fino al fiume, e ancora su.
– Senti, se dobbiamo stare così, possiamo anche tornare indietro.
Anna aveva risposto solamente:
– Ok.
Adesso in macchina Paolo insiste per farla parlare, e lei continua a tacere. “Questo stronzo… Non gli importa proprio niente di stare con me. Ci rivediamo dopo giorni, e preferisce stare tutta la sera a ubriacarsi; ci rivediamo il giorno dopo, e neanche è in grado di capire quel che ha fatto.”
– Mi dici qualcosa per favore?
– La smetti?
“E poi non dice nulla, né una scusa, un perdonami, niente; come se nulla fosse, con quella faccia di merda che si ritrova… Bello sei, tutto ubriaco, ti prendono tutti per il culo e non te ne accorgi neppure… Voglio vedere se si degna di dirmi qualcosa, voglio vedere se almeno si degna di chiedermi scusa.”
– Non capisco proprio cos’hai, non riesco proprio a capire che cosa t’è preso.
Quindici ore prima. Serata tra aperitivo e pub con gli amici (di Anna, che gli amici di Paolo il venerdì sera è tanto se vanno a mangiare la pizza). Entrambi completamente sbronzi. Con una differenza: dopo il quarto Negroni, Anna aveva messo un freno, che “se continuo a bere ancora poi sto male, e non mi diverto più“. Dopo il quarto Negroni Paolo invece aveva sentito il bisogno di un gin lemon, e di uno spritz, e di una birra, e di un Manhattan, e di tutto quello che poteva seguire, fino a che, troppo oscillante e precario per restarsene in piedi, non aveva preferito caracollare a terra e dedicarsi al suo giramento di testa in santa pace.
Anna aveva pensato che Paolo in effetti le faceva schifo; e ora in macchina lo pensa ancora più chiaramente.
– Se ti interessasse tanto cosa penso, magari ieri non facevi in quel modo là, no?
– E dai, ieri ho solo alzato un po’ il gomito!
Lei assorbe come un panno e lascia calare nuovamente il silenzio. Paolo sopporta per alcuni minuti, con gli occhi fissi sulla statale, ma la cintura di sicurezza gli mette sempre più ansia. Poi dice:
– A mia madre farebbe piacere averci a pranzo il prossimo sabato.
L’uscita manda Anna in bestia. Ma per meglio offendere Paolo, mantiene calma la voce:
– Ancora?
– Non ti va?
– Tua madre mi ha rotto le palle.
– Che cazzo dici? Che cazzo ti ha fatto mia madre!?
– A me niente, figurati, a parte l’imbarazzo.
– Ma imbarazzo di che? Non è colpa sua se sei timida e…
– Che c’entro io? Io dicevo per quelle nenie stucchevoli sulle tue fotografie, e tutto il resto, e per quei tizi vomitevoli che telefonano, quando non entrano, fanno un cenno, e vanno via: ma che è? E quell’altro due settimane fa che raccontava barzellette sconce… Mio dio Paolo, io ero imbarazzata per lei, e soprattutto per per te.
– Ma che cazzo stai dicendo? Che ne sai tu!?
– Ma amore, lo capirebbe anche un bambino che tua madre è una troia.
A quella frase Paolo viene colto un’ondata di panico che gli fa girare la testa. Sbatte le palpebre esterrefatto. Vede davanti a sé, come proiettate sul parabrezza, una serie di immagini in successione: un picnic nel bosco con la madre e il suo nuovo fidanzato, che ancora si chiamava “il suo amico“; la porta del bagno che si apre e sua madre seduta sulla lavatrice, bianca e nuda con le cosce grasse divaricate, di fronte a un uomo in ginocchio; vede il matrimonio della madre con il fidanzato, la morte di lui, gli occhi sbarrati di lei che strillano nella notte…
Senza rendersene conto, Paolo prende a digrignare i denti. Anna tace un po’, poi esclama un:
– Mi avete proprio rotto voi due! Del tutto!
Paolo grida a squarciagola:
– Sta’ zitta!
Anna si spaventa un po’: “questo oltre che stronzo è pazzo.” Volta la testa verso il finestrino. Si sente solo il rombo irregolare dell’asfalto e del vento
. Il silenzio si prolunga. La nebbia illuminata sopra Padova si avvicina. Anna si accorge che è diventato buio nel breve protrarsi del loro litigio: si ritrova a rimpiangere la luce del giorno e il silenzio che ha preceduto quegli scatti d’ira. Non fa in tempo a terminare il pensiero che Paolo rallenta gradualmente, accosta, e le intima:
– Scendi.
– Tu sei pazzo.
– Scendi, ho detto.
– Lo sai, vero, che se mi fai scendere con me hai chiuso?
– Anna, fammi il favore. Scendi.
– Ma che stai dicendo!?
– Vaffanculo scendi stronza!
Lei allibita obbedisce: apre la portiera, esce. È sicura che Paolo non ripartirà, figurati, ma quelli invece prende e sgomma via. La lascia là, poco prima dell’ex-manicomio, tra la scritta Dio c’è su un cartello stradale e quella Padova Boia su un muretto. Ai piedi del muro, una piccola lapide a forma di colomba. Anna resta ferma, in quei pochi metri quadrati simbolicamente intensi, e tra i meno invitanti del mondo.
“Animale.”
L’auto corre lungo la strada, passa proprio accanto all’istituto, casa di zio Marino. “Va a finire che c’è chi sta peggio di lui,” pensa Paolo.
“Tanto non fa sul serio, adesso io mi incammino e lui mi viene dietro, a chiedermi scusa, a pregarmi di rientrare in macchina.”
Paolo lancia un ultimo sguardo verso le finestre dello stabile, illuminato come una scacchiera verticale che trema nello specchietto, mentre gli sfreccia accanto, già sui centoventi.
Anna si incammina, così se torna indietro, quel bastardo, non la troverà lì ad aspettarlo come una mentecatta: così impara, quello stronzo.

* * *

La prima vecchina parla fitto con la seconda vecchina, spettegolano, parlano delle vicende amorose di Gregorio, il giornalaio, che si è lasciato dalla moglie per una più giovane di lui.
“E sì che sua moglie era anche una bella donna…”
“Ma io lo dicevo, gli uomini sono tutti così…”
Affetta il prosciutto.

Anna è stanca, ha pianto, le fanno male i piedi per il freddo e l’umido, ha camminato troppo, troppo ha imprecato, si fa strada attraverso Brusegana, una frazione ormai divorata dalla statale e dallo sviluppo urbano, imbocca la prima strada che le si para sotto i piedi, volta l’angolo, scopre una pensilina dell’autobus. E allora tira un sospiro, si pulisce il viso alla meno peggio dal trucco, sciolto dalle lacrime. “Mamma mia, come sono messa.” Entra nel primo negozio aperto che vede, un piccolo alimentari, vuole chiedere informazioni sugli orari. Non ne può più: vuole solo tornare a casa.

“Non ci sono più le brave ragazze di una volta, ecco qual è la verità!” sentenzia la prima vecchina.
“E anche Brusegana non è mica più quella di una volta!” chiosa la seconda.
Si pulisce le mani al grembiule.

Il campanello attaccato sopra la porta tintinna. Anna entra. Come tutti i piccoli alimentari, il negozio espone cibi molto umani mescolati a merci ampiamente disumanizzate. Un vecchio neon spande una luce stranamente calda, giallognola, accogliente, nella stanza attraversata dal bancone-espositore: rispetto al grigio e al freddo che c’è fuori, ad Anna pare di sentire aria di famiglia, o almeno di famiglia adottiva.
Non c’è nessuno in negozio, salvo quello che probabilmente è il proprietario, un uomo sui quarant’anni, giovanile, obeso e latteo. Ha un nasino piccolo, degli occhietti acquosi e una boccuccia stretta stretta incastrata tra due guance enormi. I capelli biondicci sono corti, tirati all’indietro su una fronte bassa. Un cartellino sul petto, col logo di un distributore di salumi, dice: “Enrico”.
– Buonasera – esordisce Enrico sorridendo bonario: – Cosa posso servirle?
Anna lo guarda, le ricorda qualcuno, qualcuno che ha già visto, altrove.
– Mi scusi, volevo solo un’informazione, volevo sapere se avevate l’orario degli autobus, perché fuori non c’è scritto niente.
– Eppure fuori gli orari ci dovrebbero essere. Dove deve andare?
– Devo tornare a Padova, ma non so assolutamente come fare, né dove ci troviamo.
Anna sorride per sdrammatizzare e guarda Enrico, e di nuovo non ce la fa a non fissarlo negli occhi, che quella faccia è troppo sicura d’averla già vista. Enrico osserva a sua volta la cliente, il suo sguardo interrogativo si piega verso il basso con un po’ di imbarazzo quando si rende conto che la sconosciuta deve aver appena finito di piangere. Anna se ne accorge ed esce di nuovo:
– Vado a controllare se ci sono gli orari.

La seconda vecchina dice la sua: “L’autobus per Padova? È già passato, il prossimo dovrebbe passare verso le nove, se non mi sbaglio…”
“Ne è sicura?” fa la prima, “A me sembrava che ce ne fosse uno ogni ora.”
“Macché, c’erano una volta, ma non li hanno mai rimessi. Quei delinquenti del comune…”
Si aggiusta i capelli all’indietro guardandosi riflesso sul vetro del bancone.

Il cartello c’è. L’autobus per Padova è effettivamente alle nove e venti. Anna è basita, non sa come fare, mancano ancora più di due ore e il freddo le sta mettendo le radici dentro, così rientra. Enrico sorride pacifico:
– Tutto a posto?
Il lampo di riconoscimento scocca di nuovo e stavolta è chiaro e intenso: in piedi dietro il bancone c’è nientemeno che il Principe, o qualcuno che gli assomiglia. Un fratello più grasso, forse.
Enrico è nato nel 1956, ha 40 anni. È nato e cresciuto a Brusegana, dove vive con i genitori, entrambi pensionati. Subito dopo la fine dell’ITI, ha cominciato a lavorare come commesso nel negozio di alimentari del padre. Il padre è fiero di lui e sa che il negozio per cui si è tanto sacrificato sarà in buone mani anche quando lui non ci sarà più. Enrico non ha amici: passa la maggior parte del suo tempo in negozio e la sera non esce quasi mai. Un paio di sabato sera al mese, però, Enrico si lava, si riveste, prende la macchina, compra le sigarette e va a Padova a bazzicare le compagnie di giovani, tra cui quella di Piazza della Frutta.
I blocchi di cemento che designano l’area pedonale della piazza, alla sera, sono i trespoli degli universitari, che vi si appollaiano sopra per sfumacchiare: è là che Enrico si trasforma nel Principe, che è quasi una sua seconda personalità. Anche il Principe ha quarant’anni, ma si sente più giovane, praticamente un ragazzo. Diversamente da Enrico, il Principe è sicuro di sé, quasi spigliato. Le ragazze di Brusegana non lo hanno mai visto, ma quelle di Padova lo riconoscono quando lo vedono arrivare col suo passo pomposo, le spalle larghe, il mento alto, le mani nelle tasche del cappotto cammello. È più alto di Enrico di un paio di centimetri, e sembra anche meno grasso. In piazza nessuno sa niente di lui: i ragazzi gli hanno affibbiato il nomignolo di Principe quando si sono resi conto che nessuno sapeva come si chiamasse. Quando arriva, col suo cappotto e i capelli tirati all’indietro con la brillantina, accettano che si unisca a loro, lanciandogli battute bonarie e scroccandogli le sigarette.
Anna pensa “ma guarda te, il Principe,” e pensa anche a Piazza della Frutta, a quando faceva la studentella alternativa ma chic, al paio di tipi che a suo tempo la palpeggiarono nella penombra del colonnato. Tempi che sembrano ormai appartenere a un mondo lontano ed estraneo, e ora il Principe, che allora ignorava con un po’ di timore, le sembra improvvisamente il simbolo stesso di quel periodo della sua vita, addirittura il sovrano, regista e burattinaio dei suoi primi anni da universitaria. Possibile che quello fosse il Principe? Era sicuramente lui, eppure se lo ricordava completamente diverso. Anna avrebbe detto di tutto, ma mai che fosse in realtà un commesso di alimentari, e poi si dicevano cose strane su quell’uomo, che avesse un passato misterioso, che fosse superdotato… Alcuni sostenevano addirittura che fosse completamente pazzo.
– Posso aiutarla? – fa ancora lui, con voce gentilissima.
– Veramente… Veramente avrei solo bisogno di un telefono, – risponde Anna, ma non ce la fa, la curiosità e qualcosa di simile alla nostalgia per quel passato recente la fanno scoppiare:
– Ma scusi… Ma lei, è il Principe?
Enrico fa uno sguardo stranito e annuisce lentamente:
– Si, sono io.
Anna lo guarda meravigliata e sorride per la coincidenza. Anche Enrico sorride, e intanto affetta del prosciutto. Per la prima volta il Principe diventa il principe Enrico, per uno strano caso le due parti combaciano e lui si sente forte, compiuto: ripone il coltello nella tascona del grembiule, pizzica dolcemente il pezzetto di prosciutto appena tagliato e lo passa ad Anna con un sorriso, poi si dà una pulita alle mani stropicciandole sul grembiule e la accompagna verso il retro. Anna mastica il prosciutto e lo ascolta armeggiare nel buio per un paio di secondi, finché, dopo qualche esitazione, parte un’altra coppia di neon, ancora più gialli e antichi di quelli al bancone.
– Spero funzioni ancora, – dice Enrico, sollevando la cornetta di bachelite del telefono a gettone, – questo qua non lo usa più nessuno da anni. Ecco, appunto. Fa niente, può usare il telefono privato del negozio.
Anna chiama. “Lo stronzo non risponde, o forse non è a casa, sarà andato a sbronzarsi dopo la sua bella bravata.” Non c’è nessuno nemmeno a casa sua. Papà, inutile tentare. Anna è lì lì per piangere di nuovo quando il Principe la guarda e le blocca le lacrime; le coincidenze si legano e si raggruppano nel cervello di Anna come limatura di ferro esposta a una calamita: la familiarità di un alimentari di paese, in altri casi fastidiosa, funziona come la carezza di un padre che ti vuol consolare. Il principe Enrico va a coprire velocemente il ruolo vacante del buono. La soddisfazione rende Enrico addirittura bello, e il taglio del prosciutto aggiunge un elemento erotico piuttosto spicciolo ma decisamente funzionale. Ci vuol poco perché Anna si sbottoni, e racconti l’accaduto al Principe, il quale si offre di riaccompagnarla a casa:
– Senta… Senti, se ti serve un passaggio, io chiudo fra mezz’ora. Io sono Enrico – Aggiunge, prima di dirigersi verso il bancone. Anna lo ferma, gli afferra la mano e la stringe. Uno strano miscuglio di lavoro e grasso di maiale l’ha resa morbida eppure rugosa, un pezzo di legno umido e caldo.
– Enrico? Allora è così che ti chiami. Io Anna, non ti ricordi, eh? Sei davvero troppo gentile, accetto lo strappo, ma prima devi riconoscermi!
Enrico non si ricorda di lei, si stringe nelle spalle, e sorride.
– Ma sì, abbiamo anche parlato una sera, ti ricordi? Esci a Piazza della Frutta, vero?
E cominciano a parlare, tra tutta quella merce, tra gli odori del formaggio e dei salumi, e il Principe sembra così diverso da quelle sere, molto meno sciolto e bizzarro, ma più gentile, più umano. Dopo una ventina di minuti Enrico confessa che deve chiudere il negozio, ed escono in strada.
“Ma che se ne vada al diavolo, quello psicopatico di Paolo, lui e sua madre,” pensa Anna guardando di lontano il cavalcavia della statale mentre Enrico finisce di chiudere il bandone e si avvicina al furgone dell’alimentari. “E io che perdo anche tempo a pensare a lui,” conclude, portandosi verso lo sportello che Enrico le ha aperto, gentilissimo.
– Davvero, grazie.
– Figurati, devo comunque andare in centro, non mi dà nessun fastidio.
Enrico lo dice in modo così sicuro e naturale che ci crede pure lui. Lei sorride, già il terzo sorriso dall’uscita dalla macchina di Paolo, scrolla le spalle e sale sul furgone di Enrico.

Un po’ per curiosità, un po’ per bisogno, Anna comincia a frequentare Enrico. La terza sera che escono insieme, si baciano, nel furgone. Lui è fuori di sé, gli sembra che stia scoppiando il mondo, il suo cuore è un grosso martello pneumatico, crede che quello sia il momento più bello della sua vita: non sa che tra breve Anna scenderà con la bocca fino alla patta, gli tirerà fuori il membro – “la leggenda era vera!” – e glielo prenderà in bocca, con famelica dolcezza. Cinque secondi dopo, Enrico viene.
Anna pensa: “ma cosa sto facendo?”, Enrico invece dà per scontato che quei secondi di contatto intimo riassumano un contratto assolutamente vincolante. Il giorno dopo si presenta sotto casa di Anna.

“Padova è diventata una città pericolosa!”
“Vero? Non è più come una volta.”
Suona e dice nel citofono, con voce atona:
– Passavo a controllare che stessi bene.
Poi se ne va.

Nei giorni seguenti, Anna si trova a provare sensazioni contrastanti e crescenti, non è in grado di definirle con precisione ma era molto tempo che non si sentiva così coinvolta in qualcosa. “Enrico è un uomo senza prospettive, un garzone di quarant’anni,” suggerisce la sua vocina interiore, solo che Anna non si degna di ascoltarla. Forse per illudersi di essere adulta, di non essere quella bambinetta di ventiquattro anni che troppo spesso aveva dimostrato di essere, forse perché Enrico le ricorda quella figura paterna che non ha mai avuto accanto, Anna prende a frequentarlo regolarmente. E poi in ogni caso Anna impazzisce per il fatto che Enrico sia realmente dotato come tutti mormoravano, e grasso, e sudato: per Anna l’erotismo di Enrico è della stessa potentissima matrice di una pozza di fango in cui si gettò da bambina con addosso il vestito nuovo, sotto gli occhi scandalizzati della madre. È un desiderio sporco, fecale, possente. Di quello splendido schifo sente a tratti un bisogno irrefrenabile.
Paolo ormai è solo un ostacolo. La chiama due o tre volte al giorno, a volte implorando perdono, altre lanciando minacce miste ad invettive. Non vuole saperne di chiudere la relazione, non accetta di finirla così, “per una stronzata,” pretende spiegazioni, una seconda occasione, che “anche al peggior criminale viene data la seconda opportunità.” Alle volte, alternando protervia e vittimismo, le ordina di andare da qualche parte per vedersi, o inventa qualche scusa per cui è necessario che si incontrino.
Poiché le cose con Enrico non sono ancora chiare, Anna preferisce evitare di toccare l’argomento “Paolo” con lui, anche se in realtà muore dalla voglia di dirgli “Non trovi incredibile che io sia riuscita a frequentare uno così patetico?” ma il timore che la stessa frase possa descrivere anche quello che sta succedendo con lui le fa abbandonare ogni volta il proposito.
Anna va a lezione con più regolarità, adesso. Una mattina, il gomito poggiato sul banco, si trova a fantasticare su cosa direbbero quelli di Piazza della Frutta se scoprissero della frequentazione tra lei e il Principe. Si rende conto di non essere veramente capace di immaginarlo – il Principe era un personaggio attorno al quale ruotavano troppe leggende. Ma nonostante i dubbi, Anna in questo momento ha trovato qualcosa che la fa stare effettivamente bene. Enrico è un uomo dolce, generoso, anche simpatico a modo suo, tenero, parlano moltissimo, lei gli può dire tutto quello che le passa per la testa, e lui l’ascolta ogni volta, col suo sorriso di comprensione a pitturargli la faccia in una maschera benevola. E quando si vedono, è il batticuore: lui aspetta ansioso di finire il lavoro, si toglie il grembiule sporco, si fa una doccia, si lava per bene, si guarda allo specchio, prende il suo abito preferito, l’abito del Principe, e lo indossa con stile, eleganza, portamento.

“Che bella la gioventù!”
“E poi lei sembra tanto una cara ragazza!”
“Eh si, eh si!”
Si irrora copioso d’acqua velva.

Il Principe si mette il cappotto cammello sull’abito, salta sul furgone, si guarda nello specchietto retrovisore, si aggiusta i capelli e parte rombando verso Padova: verso casa di Anna.
Anna scende bella come non è mai stata, vestita di verde, vestita di giallo, vestita d’azzurro, e ogni volta il Principe la guarda, le sorride e le fa girare la testa, e ogni volta la fa sentire apprezzata, le fa capire con quello sguardo quanto è bella, quanto è amata, quanto gli è necessaria. Quando Anna sale in macchina, il Principe esce di scena, e lei trascorre la serata col timido, impacciato Enrico. Il Principe è come un autista, li accompagna lì, per poi lasciarli soli. Sta quasi rinunciando a venire, forse si sta annoiando, ed Enrico comincia a trovare fiducia, in fondo lei è innamorata proprio di lui.

“Sembra ieri che si sono conosciuti, e tra un po’ metteranno su casa!”
“E chissà quanti bambini!”
“Shhh! Ascolti! Cos’è quel suono?”
Gli sembra di sentire la voce di Anna durante il lavoro. L’alimentari è deserto, ma la cosa lo turba al punto di fargli chiudere il bandone per mezz’ora.

È passato più di un mese dal litigio sulla statale. Dopo un lungo monologo telefonico in cui ha cercato senza successo di far confessare ad Anna cosa la renda così distante, Paolo riesce a strapparle un appuntamento “chiarificatore” per la sera.
Pensa a un regalo da farle, qualcosa di quelle cazzatelle che a lei sembrano piacere tanto. Alla fine compra un Tamagotchi. “Dovevo regalarglielo dopo il litigio, o anche prima! Perché sono sempre in ritardo sulle cose?” pensa mentre lo compra, e giunto a casa lo toglie dalla confezione per poterlo estrarre direttamente di tasca quando si incontreranno. Un momento prima di uscire, squilla il telefono. È la clinica. L’infermiere, non è la prima volta che succede, prega Paolo di andare subito là, che a suo zio non si sa bene cosa gli sia preso ma vuol vedere solo lui. Paolo si ficca il Tamagotchi in tasca e parte, bestemmiando ad alta voce e maledicendo lo zio. Giunto in clinica, richiama Anna e dice di non poter passare:
– Poi ti spiego, ne riparliamo domani.
Come finisce la frase, sente distintamente, sotto la voce indifferente, forse addirittura sollevata, di Anna, una voce maschile che dice “ma è ancora quello lì a chiamare? Ma cosa vuole?” E’ la voce di Enrico, che per la prima volta Anna si è decisa a far salire a casa.
– Chi cazzo c’è lì con te? – Dopo un tira e molla di accuse e di tentativi di Anna di negare l’evidenza, questa finalmente sbotta:
– È il mio nuovo tipo! E sai cosa? Ce l’ha più grosso di te, sfigato! – Anna riattacca e si gira imbarazzata verso Enrico, sperando di non averlo offeso. L’espressione di Enrico è assolutamente indecifrabile.
Appena Paolo giunge al capezzale dello zio, quello gli si aggancia subito addosso gemendo. Paolo sbotta immediatamente:
– Non me ne frega niente di quel che ti passa per la testa, ora mi hai proprio rotto le palle: credi che io i cazzi miei non ce li abbia?
Lo zio reagisce in modo inaspettato, si stacca, fa una faccia lucida, gli chiede cos’è che lo assilla. Paolo rimane basito, si schermisce, alla fine gli dice di essere cotto per una tipa, la quale però non se lo fila più. Lo zio lo guarda come fosse un padre, e con un ghigno sbieco e un po’ triste gli dice:
– Vai pure, che se c’è di mezzo la figa viene prima quella, ma poi torna.
Paolo torna al suo appartamento, scalda una cena nel microonde, se la mangia a morsi rabbiosi bevendoci su una birra sgassata e si mette a lavare i piatti. Intanto valuta le scelte che ha a disposizione: far finta di nulla, aspettare, metterla alle strette. E se Anna lo stesse veramente tradendo? “Quel tipo merita una lezione…” Era ovvio: l’intruso, se di intruso si trattava, era la causa degli strani comportamenti di lei, del suo distacco e anche di tutte le loro litigate.
Paolo si versa un bicchierone di whisky e corre a casa di lei. Non sa bene se attaccarsi subito al campanello e nel dubbio si ritrova fermo in mezzo alla strada. La finestra della cucina è accesa, altro non si vede. Sente di dover fare del male a qualcuno o qualcosa, alla fine se la prende col Tamagotchi che si ritrova in tasca e lo scaglia contro un muro. Scaricata l’adrenalina si ferma: “fosse mai che quel tizio è solo un amico?”
Dà un’ultima occhiata al Tamagotchi spaccato sul marciapiede, come cercando una risposta. Non trovandola, si dirige a un bar poco distante per farsi un Montenegro. “Che stronzata, l’intera situazione,” pensa.
Nel bar rimugina appoggiato col gomito al bancone. Si beve il sesto Montenegro, la verità che gli si affaccia sempre più ovvia, grossolana e spregevole alla mente: “ti ha lasciato per il primo che passa… Fai schifo, Paolo, sei un perdente nato, un mediocre.”
“Non sono un mediocre!” e giù il settimo Montenegro.
“Ma io lo ammazzo, così vede, quella troia, se sono un fallito, uno che non vale nulla. Vado lì e gli spacco la testa, crede non abbia il coraggio di farlo?”
– Preparami un altro Montenegro, va’ là, che intanto vado a fare una telefonata.
“Quella puttana, ma io faccio fuori anche lei, altroché!” pensa, barcollando verso la cabina del bar.
– Pronto? Anna, sì, sono io, ascoltami, non riattaccare, ascoltami, io quello stronzo lo ammazzo, no non sono ubriaco, ascoltami, e se sono ubriaco non ti riguarda, non sono cazzi tuoi… Anna! Anna? Cazzo…
Paolo richiama, sbattendo stavolta sul segnale di occupato: “ha staccato il telefono, quella puttana.”
– Fammene un altro, dai, che stasera succede un casino.
Il barista lo guarda, gli versa il Montenegro, vede che è ubriaco ma non gliene può fregare di meno.
– Stasera succede un casino, sai?
Il barista lo guarda di nuovo e gli sorride, ma senza rispondergli.
– Le donne son tutte troie, vero?
– Eh… – il barista si stringe nelle spalle, sorride e pensa “son troie perché non te la danno, sfigato.”
– Te sei un grande, lo sai? – esclama Paolo, – Fidati, te lo dico io, se vuoi un consiglio, stai alla larga dalle donne, tutte puttane.
Butta giù il suo ultimo amaro, compra anche una birra, paga il conto ed esce. È fresco, fuori, ma non abbastanza da farlo rinsavire. “Vado da lei e do una lezione a tutti e due, così ci pensa due volte prima di riattaccarmi il telefono in faccia, quella troia.”
Scola la birra e arriva sotto casa di Anna, passa lento, col naso in alto, a vedere le finestre illuminate. È sicuro di riuscire a distinguere, all’interno della cucina, la sagoma di Anna e quella di un’altra persona, troppo grassa per essere uno dei coinquilini.
– E quello sarebbe il suo nuovo uomo? Quel minchione lardoso? Mi ha lasciato per un grassone? Mamma mia, faccio proprio schifo.
I suoi sentimenti finalmente si coordinano in una rabbia furiosa, intensa, profondamente sincera: “da dove viene quel troiaio? Dal mio personalissimo inferno per scopare la mia donna? Che l’inferno se lo porti, lui e quella puttana. Dovrebbe morire, la stronza. E quel grasso, prepotente pezzo di merda obesa, che entra nella mia scena come un moscone in un piatto di minestra, dovrebbe fare la stessa fine.”
La morte. Perché se un ingranaggio adesso ruota perfettamente, un altro è uscito dai gangheri, e dove prima Anna era l’amore, ora Enrico è il male. E del male Paolo ne ha davvero fin sopra le palle: adesso che lo ha di fronte, vivo e grasso, sa che esiste un modo pratico, oggettivo, di eliminarlo. “Io li aspetto giù, dovranno pur scendere, lui andrà a casa sua, lo aspetto qui, appena scende gli faccio un culo così, cazzo dovrà scendere prima o poi…”
Paolo è in una guerra meccanica: Anna è una troia e non merita un radicale gesto d’amore, ma l’intruso, lui si, merita una lezione. “Staremo a vedere,” pensa, ubriaco, appostato nella sua macchina parcheggiata davanti a casa di Anna. Giusto di fronte al furgone di Enrico.
“Staremo a vedere…” se non fosse che si addormenta, patetico, dopo essersi appoggiato solo per un attimo al volante.
Anna guarda dalla finestra, nota la macchina di Paolo, e dice, piano:
– Che ha in mente stavolta, quel cretino?
Enrico le si avvicina, guarda fuori:
– È quello che ti telefona sempre?
– Si, lì nella Polo nera, quel…
– Perché non andiamo a dormire?

Domenica mattina. Enrico si sveglia allucinato: è la prima volta che resta a dormire fuori da casa sua.
È il Principe nel luogo e nel momento sbagliato e perde la testa. Anna non si accorge di niente e resta a letto. Enrico si veste, cappotto compreso, e va in cucina. Prende un coltellaccio e si mette a tagliare delle fette di pane per calmarsi.
Uno dei coinquilini di Anna, appena sveglio, entra in cucina, e rimane ghiacciato: l’inaspettata presenza del Principe nella sua cucina, in cappotto cammello ad affettare il pane con sguardo assente lo spaventa moltissimo.

“Questi studenti… Glielo dico io cosa sono: tutta gentaglia!”
“Tutti drogati e ubriaconi!”
Rimane interdetto per la reazione scatenata nello studente e fa per tornare in camera.

Lo studente si fa da parte, quasi aderisce alla parete del corridoio. Il Principe lo supera senza dire nulla. Anna si rigira nel letto, tasta verso il lato di Enrico, non trovandolo dischiude gli occhi. E lo vede, ritto sulla soglia, col cappotto addosso e il coltello da cucina in mano, gli occhi fissi nel vuoto:
–  Oddio! Enrico, cosa fai con quel coltello? Che hai!?
Inorridito per la reazione scatenata nella ragazza, il Principe si infila il coltello nel cappotto, con lo stesso gesto automatico con cui lo ripone abitualmente nel grembiule, e fugge giù per le scale. Giunto fuori casa, vede la Polo nera, vede il tipo che infastidisce Anna, lo vede lì dentro che se la dorme. I suoi pensieri sono ormai completamente sconnessi. Va al furgone, mette la retro e si apposta in fondo alla strada, gli occhi fissi sul nemico.
Paolo si sveglia. Va a fare colazione nel bar in fondo alla strada. Come sempre prende due sfoglie alla crema, un cappuccino, un bicchiere d’acqua. Sta in silenzio, accende una sigaretta a metà cappuccino, per poi finirla in strada.
Pensa: “faccio pietà. Che fare ora? Devo lasciare tutto veramente e andarmene? In fondo non ci stavo così male con Anna. Se solo quella stupida non si comportasse così. Ma non è una stupida, solo che alle volte le donne non le capisco davvero…”
Si incammina verso una cabina telefonica per chiamarla. Entra, solleva la cornetta, si ferma: “ma che ore sono? Non posso svegliarla a quest’ora, sta sicuramente dormendo. Ma che sto facendo? Che cosa credo di fare? Alla fine poi la amo davvero. È successo tutto così velocemente che neppure me ne sono reso conto, sono stato travolto dagli eventi, le cose andavano benissimo, poi per una sciocchezza ci allontaniamo, ed entra in mezzo quel panzone schifoso, che avrei dovuto fare, ucciderlo davvero? Oppure uccidere lei? Oppure entrambi? Oppure uccidere tutto il mondo escluso noi tre, e vedere che succede, vedere chi sceglie, vedere che fa lui?”
Tutto questo gli traversa la mente nella cabina, mentre è lì con la cornetta in mano, poi si chiede se vale la pena rodersi il fegato per qualcuno che non ha impiegato neppure un attimo per dimenticarlo e sostituirlo. “Dopo tutto quello che ho fatto per lei!”
Riaggancia, scuote il capo: “ma forse è giusto così, se le cose sono andate in questo modo, probabilmente era inevitabile, chi sono io per mettermi in mezzo? Forse lui la renderà felice, e a dirla tutta non me ne può fregare di meno, di sicuro non sono più affari miei. Vuole quel bombolone flaccido? E chi se ne frega! Che se lo tenga, che stiano assieme quanto vogliono, non sono affari miei, il mondo è pieno di ragazze, anche meglio di Anna, ne troverò una che mi accetterà così come sono, e tanto meglio per tutti.”
Esce dalla cabina e si avvia verso la macchina, lentamente, trascinando i piedi, prendendo a calci tantissimi barattoli vuoti immaginari.
Più avanti il furgone è fermo. Due occhietti acquosi osservano Paolo che cammina lentamente; il cadenzare dei suoi passi è seguito dallo sguardo, fisso, di Enrico.

“Eccolo lì quel basuso dado di burro che cammina verso di me, chi si crede di essere mai quel brigante, cappello sulle venti otto biscotto, chi è stasera che mangia con noi? Zitte zitte, non parlate non ora non ora, ho bisogno di silenzio, di concentrazione, cocco biscotto fruscio di legno caverna piede rosso bitume da occhio che cola, quel dannato che cola, quel dannato, zitte ho detto, dovete lasciarmi stare, sorridi Principe, sorridi, fai vedere che sei una brava persona, sorridi che poi gli dai il fatto suo, a quel mandarino! Ma che c’entra, no, volevo dire, un uomo di quattro piedi con un pannello solare al posto del piede e una mantide religiosa al posto dell’orecchio destro ha detto a mio fratello che le caverne di Mandolana aspettano da anni, zitte, vi dico, per favore, per l’amor di dio, fatemi pensare, devo agire, zitte, o lo faccio davvero…”

Paolo cammina, e si dice che non gli importa più nulla di Anna, né tanto meno di quell’eunuco, ma se ne vadano al diavolo entrambi. Anzi, ha già deciso cosa farà ora: andrà al supermercato, diretto alla cassa, dalla cassiera che gli piace da sempre, la guarderà dritto negli occhi, e le dirà “sono innamorato di te da tempi inenarrabili,” le prenderà la mano, e le dirà “andiamo, non è questo il nostro posto, abbiamo grandi cose davanti, io e te,” lei lascerà la cassa, manderà a quel paese il suo capo, e saranno solo loro due, liberi, vivi, giovani, innamorati. A Paolo pare già di sentire nuovi brividi d’amore, perché ci crede che quando si è innamorati davvero non ci sono barriere, non ci sono impedimenti, tutto scorre sempre liscio e felice.
Il Principe pensa: “garofano multicolore con un piccolo pallino di stucco al suo interno lo stucco si scioglie ed esce fuori una carrozza sconcia di bile dal sapore d’amarena e canditi, ma che cosa mi state facendo dire, la volete smettere?  Vi prego, lasciatemi solo, vi prego, lasciatemi solo, vi prego,” e si porta le mani alle tempie, che la testa gli scoppia, che non resiste più, che vuole scoppiare, andarsene, sparire, vorrebbe solo stare con Anna, tranquillo, ma quelle voci lo martellano, gli dicono che quello vuole ucciderlo, è chiaro, gli dicono che deve essere più veloce, “ma ve ne andate dannate, ve ne andate, mi lasciate in pace!” e gira la chiave, cieco: cruscotto, prima, frizione, acceleratore, e via, lontano, che la testa gli scoppia.
Paolo pensa che non si è mai sentito così felice. Un maglio bianco da una tonnellata gli piomba sul fianco e lo scaglia ad alcuni metri di distanza.
Enrico non lo ha nemmeno visto, pensava solo a pestare sull’acceleratore per seminare le voci. Lo guarda atterrare sul marciapiede con un tonfo sordo. Rantola, muove le gambe, non è morto.
Il traffico intorno si blocca. I passanti assistono immobili alla scena. Enrico smonta e si inginocchia accanto a Paolo, che gorgoglia qualcosa. Enrico estrae il coltello dal cappotto e lo affonda nel fianco di Paolo, infilandolo ripetutamente e metodicamente avanti e indietro, avanti e indietro, con calma serafica. Un coltello che taglia la carne è un coltello che taglia la carne.

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One Response to “Il Principe”, Scrittura Industriale Collettiva

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