Non so se sopravviverò a questa vita
marzo 14, 2012 6 commenti
Riportiamo una delle cronache raccolte nel libro Non so se sopravviverò a questa vita (Edizioni Ensemble, 2012) di Bruno Di Marco, che verrà presentato (insieme a Serio f’aceto del nostro Angelo Zabaglio) giovedì 15 marzo alle 18:30 presso il Book and wine Cantina Paradiso in via San Francesco a Ripa, 73 (Roma, Trastevere).
CRONACA 6
Avevo passato il pomeriggio in Biblioteca, a sfogliare le prime pagine della documentazione che avevo richiesto su i misteri d’Italia ed era stato tutta una serie di ovvie conferme alternate a scoperte stupefacenti. E chi se lo sarebbe mai aspettato che la nota soubrette fosse implicata nel traffico mondiale di sostanze radioattive? Tutti pensavamo che fossero semplici pajettes, quelle che portava in giro da Trieste in giù.
Mandolina aveva già un appuntamento per quella sera, e Caravaggio già mi squadrava torvo, così mi ha proposto di contattare una sua amica per una serata in un locale.
Il simulacro della Moretta dei Cicchi&Coveri – nota vocalist dell’altrettanto noto gruppo, almeno secondo Seba – organizzava un’uscita a quattro e aveva bisogno di un accompagnatore per Mata Hari. Hammurabi, un tipo silenzioso, ma simpatico e mooooooolto generoso a sentire lei, avrebbe completato il quartetto. Appuntamento davanti al locale, l’Apocalipse Bau, il cui proprietario era ovviamente cinofilo e cinefilo.
La Moretta era un ciclone di parole, mentre Mata tutto un gioco di sguardi e ammiccamenti. Hammurabi, dopo un grugnito di saluto, si è chiuso nel suo personaggio di statua vivente o quasi.
Almeno mezz’ora per entrare, si era formata una coda. Coppi e Bartali si erano incontrati sull’ingresso e ognuno dei due voleva cedere il passo all’altro. “Prima tu, prego” “Ma no, prima tu” “Io non oserei mai passarti davanti” “Figurati se io ti costringerei a guardare il mio di dietro”. Alla fine sono riusciti a coordinarsi per entrare contemporaneamente, anche se con una certa fatica.
Il locale era pieno di gente e di una luce forte e calda, molto accogliente, ma che almeno all’inizio non mi permetteva di capirne le dimensioni. Ci siamo seduti al bancone, piuttosto largo che sembrava svilupparsi in lunghezza, senza fine, con una schiera di barman a servire da bere. Con una certa sorpresa mi accorsi che sarebbe stato il simulacro della Sharapallinanova a occuparsi del nostro servizio.
Stavano allestendo il palco per la band che avrebbe suonato e la Sharapallinanova ha cominciato a servirci. Causa lo spessore del bancone era costretta ad allungarsi per porgerci le bevande e, a ogni allungo, emetteva il suo famoso gemito – “Ah!” – che ha reso così popolare il tennis tra schiere di maschi che prima avevano sempre snobbato la racchetta e il suo mondo.
La Moretta parlava, parlava e ogni tanto prendeva la mano di Hammurabi, che al contatto cominciava a sorridere addolcito e un po’ beota, per poi, quando le mani si staccavano, tornare nel suo personaggio di statua. Mata, oltre a comunicare con lo sguardo, ogni tanto cercava di emettere delle frasi di cui però riuscivo solo a percepire il suono, tanto erano sospirate a mezza bocca, ma non ne afferravo il senso. Guardandola negli occhi però era facile capire l’intenzione. Piuttosto “burrosa” la Mata, forse anche perché quassù è vietato fumare nei locali, e non solo là, praticamente dappertutto, e il suo bocchino – dotato di una sigaretta finta, quelle fatte di chewingum – non le bastava come surrogato e, quindi, aveva finito tutti i salatini e stuzzichini vari. Da bravo cavaliere provvedevo a chiederne ancora alla Sharapallinanova così che questa, sempre impeccabile nel servizio, si allungava con l’effetto collaterale già descritto, rendendomi dolce la serata.
“Bello il locale, vero?” chiedeva conferma la Moretta ogni cinque minuti.
“…” concordava Hammurabi.
“Non male anche se ho visto di meglio” per una volta scandiva nette le parole la Mata.
“Ah!” si allungava la Sharapallinanova.
“Bello sì, venite spesso qui?” il mio sforzo per tener viva la conversazione.
E la Moretta cominciava a fare l’elenco di tutti i locali che frequentava con annessa classifica suddivisa per generi, qualità del servizio, gente che li frequentava eccetera eccetera. L’annuncio dell’inizio del concerto ha interrotto quel fiume di parole.
La band era quanto di più eterogeneo potessi immaginare: alla voce Vittorio Alfieri, Alex Guitarcrusher Blackbird alla chitarra, W.A. Mozart alle tastiere, alla batteria uno vestito da Spiderman, al basso Madre Teresa di Calcutta. L’inizio è stato mozzafiato: la voce di Alfieri veniva trascinata in alto dalla chitarra virtuosissima e ipervelocissima di Blackbird, nell’atmosfera armonica e magica costruita dall’Hammond di Amadeus e il tutto sostenuto dalla sezione ritmica, intensa e pulita.
Sorpreso dall’attacco del concerto ho sorriso verso la Moretta, proponitrice della serata. Questa mi ha ricambiato con uno sguardo che mi ha stupito ancora di più, tipo “speriamo bene”. Troppo incuriosito mi sono avvicinato a lei non badando allo sguardo in tralice di Hammurabi e le ho chiesto il motivo.
“Se quelle due teste matte non si mettono a sperimentare, va tutto bene” ha risposto lasciandomi con i miei dubbi, ma ho lasciato cadere la cosa anche perché la Sharapallinanova continuava a servirci sempre gratificandomi col suo gemito che, ora coperto dalla musica, mi gustavo guardando il movimento delle labbra.
Quando se n’è accorta mi ha sorriso. Da quel momento non ho più badato a quello che succedeva nel locale, guardavo solo lei, continuando a scambiarci sorrisi. Almeno fino a quando la baraonda non mi ha svegliato dal mio sogno a occhi aperti.
Sul palco succedeva l’incredibile. Madre Teresa aveva strappato la chitarra di mano a Blackbird e aveva cominciato un assolo col distorsore da brividi, il batterista si era completamente denudato a eccezione della maschera e di un tanga leopardato, Mozart, dopo aver legato Alfieri allo sgabello del pianoforte, si era impossessato del microfono e rappava. Il pubblico in delirio, soprattutto quando Teresa ha cominciato a fare salti tipo Pete Townshend e uno, vestito con una toga, – Caligola mi hanno detto dopo – è salito sul palco e si è tuffato sul pubblico. Adesso era Teresa a rappare e Amadeus con l’altro microfono le faceva un tappeto ritmico a rutti, il batterista abbandonato lo strumento si improvvisava cubista danzando sull’organo Hammond, mentre Blackbird tentava di accompagnare in sottofondo con l’ocarina.
Tutto il locale ballava e un gruppo di martiri dei primi cristiani, con tanto di leone al seguito, è salito sui tavoli danzando freneticamente seguito da un altro gruppo composto da carmelitane scalze che quando sono state invitate a scendere dalla security hanno detto di no perché qualche scalmanato aveva rotto dei bicchieri e loro non volevano ferirsi.
Nella bolgia il nostro quartetto si è perso di vista. Io non mi sono disperato, anzi. Ho pensato che valesse la pena aiutare a metter a posto e, magari, aspettare la Sharapallinanova. Lei ha apprezzato il mio gesto e quando le ho chiesto se potevo accompagnarla a casa, m’ha guardato negli occhi e m’ha risposto:
“Ah!”.
Non c’è nulla che si può fare, escludendo, per ragioni umanitarie, la fiamma ossidrica. Pare che la nuova generazione di scrittori sia orientata a scrivere cose come questa sopra, che definire “utili a consumare lo scorrere del tempo perché lo si soffre in modi troppo dolorosi”. Si deve ammettere che l’intelligenza di questa generazione, purtroppo cresciuta a vizi e tortine, è andata a farsi benedire altrove. Ormai, per incontrare intellettualità, occorre mettersi in fila alla mensa della Caritas… 😀
Correzione: Pare che la nuova generazione di scrittori sia orientata a scrivere cose come questa sopra, che definire “utili a consumare lo scorrere del tempo perché lo si soffre in modi troppo dolorosi” sarebbe un far loro del bene.
Egregio signor Vai,
la ringrazio del tempo che mi ha dedicato e, soprattutto, delle sue osservazioni, precise e circostanziate. La sua acuta capacità di analisi e la sua critica, puntuale e stimolante, mi hanno fornito molti spunti di riflessione. Mi pare evidente che il tempo da lei passato in fila alla Caritas non è stato speso invano…
Devo ammettere che una risposta così marcatamente irridente, data da uno che ha scritto un libro dal titolo “Non so se sopravviverò a questa vita” era inattesa. Forse l’autore si lascerebbe morire di fame piuttosto che chiedere consigli a qualcuno il quale, più dotato intellettualmente, saprebbe indicargli un convitto dove imparare a sperimentare le esalazioni emanate dalla vera disperazione e magari, già che c’è, anche di farsi dare un piatto di minestra riscaldata in scatola almeno per conoscere il sapore della miseria. Fatti forza, ragazzo mio, e convinciti che la dignità ha necessità di forza interiore più che di pancetta fritta con le uova.
Ho letto diverse presentazioni di nuovi libri, pubblicati da piccole case editrici, che non significa siano poco serie. Libri scritti dalla generazione di laureati che deve fare i conti con l’età nella quale il Cristo si è lamentato col Padre eterno di essere stato, da Lui, abbandonato. I trenta anni li ho passati anch’io e so che è un’età problematica. Saturno, dopo ventinove anni e mezzo, passa sul nostro cielo di nascita e generalmente falcia tutto ciò che non ha il diritto di stare a petto in fuori. È questo un periodo disgraziato, portatore di accadimenti che rinnovano la vita col garbo di una mazza da baseball, tempo del primo anticipo da versare alla vita per convincerla a concederci una proroga, volta al guadagno della perfezione dello stato dell’essere che ci vede annaspare. Resta inteso che si sta parlando della perfezione esclusivamente nel suo aspetto armonico… È allora comprensibile che a trenta anni chi scrive cerchi di alleggerire la propria e drammatica condizione esistenziale trattando di argomenti leggerotti, ma a tutto c’è un limite. Gli scritti che ho letto di questa generazione di autori hanno tutti la stessa caratteristica: raccontano della vacuità della vita nel suo aspetto povero quando è priva di valori che indichino riferimenti certi, orientamenti attraverso i quali un intelletto assetato di conoscenza traccia le coordinate che indicheranno la direzione che deve avere un’esistenza sensata. Direzione che misura la sua qualità, spirituale e interiore. Questi libri sembrano raccolte di pensierini sconclusionati, slegati tra loro, miranti a meravigliare gli ingenui con accostamenti letterari che cercano l’originalità innovativa a tutti i costi. Si può dire che la stragrande maggioranza del materiale edito oggi è motivato solamente dalla necessità di avere successo, che subiscono molti giovani scrittori frustrati, allineati ai desideri di un mondo in ripido e rapido declino culturale.
Ahh… ecco spiegata la ragione di tanta scrittura priva di significati… sei uno che disprezza le classi sociali diseredate. Non salutarmi briatore… 😀