Un demiurgo sudato

di Flavio Pintarelli

Di colpo, distolse gli occhi dallo schermo, quando si accorse dell’odore acre emanato dal suo stesso sudore. Con aria colpevole si guardò intorno, nell’ufficio. Nessuno dei suoi colleghi lo stava guardando, ciononostante continuava ad avvertire una spiacevole sensazione di colpevolezza. Sollevò un braccio e si accorse che la camicia azzurra indossata quella mattina era chiazzata da un alone umido e scuro.
Sudava come un maiale.

Strano, pensò, eppure nell’ufficio l’aria condizionata era accesa e a dar retta ad alcuni colleghi la temperatura era perfino eccessiva.
«L’aria condizionata mi fa incriccare la cervicale,» gli aveva comunicato la collega bionda vorrei-ma-non-posso durante uno dei rari momenti di dialogo che avvenivano in azienda, «e poi lo sbalzo di temperatura può essere dannoso. Una volta, a una mia amica…» e aveva continuato per qualche minuto, fino a quando si era resa conto che il suo disinteresse aveva raggiunto il livello di guardia. E aveva smesso.
L’emicrania lo martellava, ma alla fine del turno mancavano soltanto una decina di minuti. In quel lasso di tempo breve, eppure lungo, veniva preso da una strana eccitazione, quasi una smania. Meticolosamente chiudeva, uno a uno, tutti i programmi aperti sul PC. Come se fosse una sorta di countdown. Tanto ci sarebbe sempre stato Skype a dare problemi, facendo apparire la scritta “non tutti i programmi sono stati chiusi”.
Solitamente lui forzava l’arresto o, se si sentiva abbastanza fatalista, aspettava che il programma terminasse autonomamente lo spegnimento, autorizzando anche il PC a mettere fine alla sua giornata lavorativa.
Uscì dall’ufficio salutando frettolosamente i colleghi. Fuori era un afoso tardo pomeriggio di inizio agosto. I reietti che rimanevano in città, l’esercito dei salariati-e-contenti, sciamavano verso le tende parasole di bar dall’arredamento minimale e pretenzioso per sorbirsi estivi annacquati e veneziani appiccicosi, tappa imprescindibile di ogni venerdì sera di un afoso inizio d’agosto.
Lui però aveva altro da fare e si chiedeva, camminando ad ampie falcate verso casa, come potessero quegli esseri sorbire bevande alcoliche nell’afa di un pomeriggio d’inizio agosto senza stramazzare a terra tramortiti, bam, come se avessero ricevuto una randellata sulla nuca.
A questo pensava mentre raggiungeva il palazzo in cui abitava. Entrò dal portone e s’imbarcò sull’ascensore. Quando aprì la porta dell’appartamento fu investito da una ventata d’aria fresca. D’estate era solito utilizzare un timer per azionare il condizionatore e raffreddare casa prima del suo rientro. Ci aveva messo diversi anni per regolare il tempo giusto in modo da trovare la temperatura perfetta quando arrivava a casa: non troppo calda da risultare sgradevole, non eccessivamente fredda da rischiare spiacevoli sbalzi di temperatura. Anche per questo aveva rinunciato da tempo al rito sociale dell’aperitivo, ma non se ne era mai reso conto.
Entrò in casa e in pochi secondi il sudore s’era asciugato sulla pelle intirizzita. Una sensazione stranamente elettrizzante sembrava pervadere il suo corpo. Si fece una doccia fredda per lavarsi via la stanchezza e si asciugò. Uscendo dal bagno, prima di recarsi nella sua camera per indossare una maglietta e dei pantaloncini leggeri, accese il computer.
Si sedette davanti allo schermo mangiando uno yogurt e cliccò sull’icona del browser per cominciare a navigare.
Non avrebbe mai ringraziato a sufficienza lo sviluppatore di Google che aveva elaborato l’aggiornamento di Chrome che consentiva di loggarsi con diversi profili al medesimo social network senza essere costretti a utilizzare più browser contemporaneamente o a effettuare continuamente la fastidiosa operazione di log-out/log-in.
Quello sconosciuto programmatore, laggiù in California, gli aveva fornito lo strumento più funzionale per svolgere quella che si poteva benissimo considerare la sua ragione d’esistenza: vivere vite parallele e immaginarie.
Era questa l’attività a cui si dedicava ogni giorno, tutti i giorni. Vivere vite parallele e immaginarie su Facebook. Aveva cominciato quasi per caso un paio di anni prima aprendo un profilo fake, per gioco. Si era finto un agricoltore biologico di Novara appassionato di aquiloni, e così, passo dopo passo e con meticolosità certosina, si era costruito una rete di contatti che aveva alimentato con episodi e aneddoti di un’esistenza del tutto inventata.
Aveva sostenuto conversazioni e imparato quanto c’era da imparare sull’agricoltura biologica.
Poi ci aveva preso gusto e aveva ricominciato: una nuova identità, un nuovo mestiere, un nuovo luogo in cui vivere, nuovi e diversi amici.
In breve aveva imparato ad assecondare le aspettative dei suoi “amici” oppure a provocarli, a blandirli o a umiliarli.
Sapeva essere il confidente perfetto o lo stronzo più irresistibile sulla faccia della terra.
Si divertiva a pianificare in anticipo i pattern di comportamento dei suoi personaggi, creando così diverse maschere: il libero professionista spocchioso e attaccabrighe, il grafico aitante e sicuro di sé, lo scrittore sussiegoso in lotta contro il crudele mondo dell’editoria e tanti altri ancora.
Un immenso esperimento sociologico in cui un uomo solo era in grado di vivere un numero incalcolabile di vite diverse simulando di volta in volta emozioni, opinioni e pensieri spesso e volentieri in conflitto tra loro. Un meraviglioso e onanistico gioco di ruolo i cui personaggi erano ignari delle regole.
Diventare il demiurgo di una schiera di personaggi tanto verosimili perché assurdi aveva generato in lui una sorta di dipendenza. Per non cadere in una spirale autodistruttiva era riuscito con fatica a separare i suoi mondi virtuali dal mondo reale. Ma lo sforzo che gli costava era improbo, l’astinenza a cui era costretto durante il giorno gli causava un’abbondante sudorazione e continui mal di testa. Tutto questo svaniva quando, tornato a casa, poteva finalmente connettersi alle sue reti. In quell’universo di conversazioni immateriali, di adulazioni e ripicche, di scambi colti e risate sguaiate trovava un senso alla propria vita. Quello era il suo grande romanzo americano, una forma d’arte privata in tutto e per tutto, irraccontabile e irrappresentabile.
La rottura dell’aneurisma cerebrale lo colse intorno alle due e quaranta del mattino, mentre lavorava a una delle sue ultime creazioni: un consulente di marketing con il trip delle armi. Il coagulo di sangue si ruppe all’improvviso con subdola cattiveria. L’uomo ebbe uno spasmo trattenuto e si accasciò sulla tastiera mentre l’emorragia interna correva veloce, dissanguandolo.
A metà della settimana successiva, dopo le ripetute assenze dal lavoro, i Vigili del Fuoco aprivano la porta dell’appartamento in un afoso tardo pomeriggio d’inizio agosto. I sanitari lo trovarono riverso sulla tastiera, esanime, e non fecero caso al computer ancora acceso.
Sullo schermo, intanto, inesorabili le notifiche continuavano ad accumularsi.

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8 Responses to Un demiurgo sudato

  1. lucagiudici says:

    Ma lo sapete che io un agricoltore biologico di Novara appassionato di aquiloni lo conoscevo davvero? 🙂
    Complimenti Flavio, un profilo assolutamente credibile.

  2. El_Pinta says:

    Beh dovresti saperlo che io sono un seguace del New Realism 😉 grazie del complimento Luca mi fa molto piacere!

  3. massicov says:

    ….Quando terminò di postare l’intera storia su cowbird si trovò costretto a scegliere la foto che avrebbe accompagnato la sua “testimonianza di vita”, quell’insieme di vite parallele che si era divertito a costruire. Spinse la sedia da ufficio con le rotelle lontano dalla scrivania – se l’era portata a casa durante il trasloco aziendale di inizio estate – abbandonò la tastiera e impugnò la fotocamera. Inquadrò lo schermo e, nello sfarfallio delle notifiche che “continuavano ad accumularsi”, scattò la foto. Fu allora che l’emicrania e la sudorazione tornarono ad aumentare vertiginosamente, come se l’approssimarsi della verità producesse strane sensazioni di malessere. Come se il suo volto, diventato schermo, non traesse più alcun beneficio dal condizionatore ma subisse il surriscaldamento dei congegni elettronici che faticavano a stare al passo con il suo multitasking.

  4. inizio a nutrire qualche sospetto sui profili fake che ultimamente mi hanno chiesto l’amicizia… 🙂

  5. malosmannaja says:

    gradevole racconto che si dipana in “precario” equilibro tra neorealismo e neosurrealismo.
    : )
    peculiare la definizione “Un immenso esperimento asociologico” senza la a, in cui un uomo solo.
    riflettevo, poi, sul fatto che ciò che il protagonista fa copiosamente è proprio ciò che le sue copie non potranno fare mai, cioè **sudare** e che ciò potrebbe diventare un ottimo modo per smascherare un profilo fake: se non sudano solo falsi. da cui discende l’inquietante dubbio: esistono sullo schermo profili “veri”?

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