Così ho risposto all’Occhio
aprile 20, 2012 Lascia un commento
Quelle appena trascorse sono state settimane concitate, nelle quali la battaglia contro il “Festival dell’Inedito” ci ha preso tutto il tempo che veniva lasciato libero dalla lettura e dalla scrittura. Tuttavia sentivo qualcosa su di me – come un’ombra, ma dai connotati squisitamente morali. Era l’Occhio del Subcomandante. Esso mi guardava. Pareva dirmi, con la sola maieutica del suo sguardo: so che tra l’essere lettore al Dedalus e l’essere amico di molti scrittori ricevi un sacco di libri, e so anche che li leggi: perché allora non scrivere una nuova multirecensione per Scrittori precari?
Era vero: di libri in questi ultimi mesi ne avevo ricevuti moltissimi, e una buona parte li avevo pure letti. E di quella buona parte, alcuni mi erano pure piaciuti. E allora dicci quali sono almeno questi, mi pareva di sentire il Subcomandante, attraverso il suo Occhio che riverberava in me.
Eccoli, dunque: innanzitutto in questi ultimi mesi mi è piaciuto L’uomo che riuscì a fottere un’intera nazione di Gabriele Ferraresi (Il Saggiatore). Mi è piaciuto perché mi ha fatto sentire come se fossero passati già decenni dal berlusconismo, e perché ha una capacità non comune di ibridare realtà e realtà, realtà e fantasia, fantasia e narrazione giornalistica, fantasia e fantasia, e dare vita a qualcosa di nuovo, e tuttavia mostruoso nella sua verità. Dato che mi era garbato anche Altare della patria di Ferruccio Parazzoli, direi che possiamo cominciare a dire che Il Saggiatore, nel consegnare le chiavi della sua nuova costola narrativa a Giuseppe Genna ha fatto davvero un’ottima scelta.
Mi è piaciuto molto poi – e meno male, perché era anche un libro che attendevo – Il fiuto dello squalo di Gianni Solla (Marsilio). Chi non aveva un blog nei primi anni duemila non può capire. Quando eravamo blogger, stavamo in un mondo a parte, in cui i blog parevano centrali al mondo e alla sua rappresentazione. E i blogger migliori erano non meno che avatara, incarnazioni divine in forma di pagina splinder del rapporto tra il mondo e noi. Gianni Solla era uno di costoro, e va da sé che da qualcuno che a suo tempo era stato un mito mi aspettavo un romanzo non meno che ottimo. Le aspettative sono state ripagate. È ottimo, e divertente, e dolente, e definirlo pulp sarebbe davvero molto riduttivo. Leggetelo e vi verrà voglia pure a voi di fracassare il naso allo Squalo, salvo poi accorgervi che lo Squalo eravate voi stessi.
Eravamo bambini abbastanza di Carola Susani (minimum fax) era tanto bello anche solo esteticamente che appena l’ho visto il libreria volevo comprarlo, sebbene sapessi che una copia era già in volo verso la mia casella postale. Il romanzo mi ha risvegliato ricordi d’infanzia sopiti: da piccolo leggevo e rileggevo le varie “Storia di…” a fumetti scritte da Enzo Biagi. Vi era, in una di esse, una pagina dedicata alla Crociata dei Fanciulli, quella sfortunata spedizione di bambini in Terrasanta che si concluse, pare, con l’affogamento di tre quarti della truppa e la vendita al mercato degli schiavi del quarto rimanente. Ecco, mentre la leggevo, io pensavo invece che la Crociata dei Fanciulli era una cosa straordinaria, e che mi sarebbe piaciuto andar con loro. Allo stesso modo, leggendo Eravamo bambini abbastanza mi è venuta voglia (oltre che di esser di nuovo fanciullo, si capisce), di prendere e andar col Raptor, e tanti saluti a tutta la baracca.
Devo all’occhio attento di Alessandro Raveggi e Raoul Bruni, che lo hanno presentato a Firenze, la scoperta di Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta (ISBN). Il fatto che sia un romanzo in versi dovrebbe essere testimonianza sufficiente del coraggio dell’editore e dello spirito che anima Targhetta, ma il fatto è che è anche un ottimo romanzo in versi. E non solo per la godibilità di detti versi, ma anche per il fatto che, incrociando una modalità espressiva oggi così inconsueta con un tema a noi tutti comune (precarietà fattuale ed esistenziale, trentenni sovraformati e sottoccupati, strippi e ansie suburbane), diviene consolatorio (“ah ecco: eravamo mitologia! Epica! Meno male!”) e insieme epitaffiale (di noi non resterà che un canto malinconico: non eravamo romanzo, il nostro mondo e i nostri intenti erano troppo evanescenti, carne per dei e muse, magari, ma non per uomini).
Quando ho letto Ivan il terribile di Alcide Pierantozzi (Rizzoli), ho pensato che il buon Alcide fosse impazzito. Tanta era la mimesi col mondo raccontato dal romanzo – quello degli adolescenti – che a volte provavo quel disgusto che, inevitabilmente, chiunque cagiona agli altri quando si trova a traversare la pubertà e gli anni subito successivi. In realtà si trattava, oltre che di una prova di grande scrittura, della preparazione al colpo. Sì, perché, quando Pierantozzi molla il colpo, e i suoi adolescenti cominciano a (spoiler alert) incularsi come demoni, si rimane di stucco, e anche un po’ scandalizzati, e anche un po’ eccitati. Tutte emozioni che in un lettore contemporaneo, così uso a qualunque tentativo di sorprenderlo, così impervio allo scandalo, così assuefatto alla pornografia, non sono facili da suscitare. Per riuscirci è necessario scavargli dentro, e riconnettersi a quella matrice psichica e sensuale che proprio nella prima adolescenza getta le sue gemme, destinate poi a essere sommerse da tutto il resto, e da tale matrice impossessarsi di lui. Mettetene una copia in casa: quando avrete figli preadolescenti, essi lo leggeranno di nascosto, alla notte, sognando i loro futuri amori.
E parlando d’amore, mi viene in mente che c’è un altro libro che ho letto in questi giorni. È Amore mio infinito di Aldo Nove (Einaudi Stile libero). Non è uscito adesso – è del 2000 – tuttavia l’Occhio del Subcomandante non pare suggerire che qui viga l’obbligo di parlare solo di libri nuovi. Lo comprai una volta che dicevo a Peppe Fiore oh ma Puerto plata market è un capolavoro, e lui: leggi Amore mio infinito, quello sì che è un capolavoro. L’ho letto oggi e anche se continuo a preferire Puerto plata market, è pur vero che anche Amore mio infinito è molto bello, in particolare la prima metà, dove Nove mette (da solo e per sempre) un punto su tutto quel discorso della prosa-scritta-in-stile-bambino con una chiusa, quell’“allora era …del tempo infinito”, che trasforma la prosa-scritta-in-stile-bambino in Weltanschauung-del-bambino e sgombrando così il campo, sia pure in un libro che fa schiantar dal ridere, dal dubbio che possa esser l’ironia, piuttosto che il dramma, a guidare il carro dell’esistenza.
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