“Alba di piombo”, Scrittura Industriale Collettiva
Maggio 7, 2012 3 commenti
In vista della prossima uscita di In territorio nemico, aka “Grande Romanzo SIC”, continua la pubblicazione su Scrittori precari dei racconti scritti col metodo SIC, in una versione interamente revisionata e corretta. È oggi il turno di Alba di piombo, che vista la lunghezza pubblicheremo in tre parti: le successive lunedì 14 e lunedì 21 maggio.
Scritto tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, Alba di piombo è il terzo racconto SIC. Il racconto nacque dalla necessità di sperimentare il metodo SIC rispetto a una moltitudine di personaggi e luoghi, oltre che su una narrazione più lunga delle precedenti, e di metterlo alla prova con scene d’azione. Con simili premesse, capimmo che poteva essere anche l’occasione per divertirsi molto, così decidemmo che sarebbe stato un racconto ambientato negli Anni di Piombo, ma giocato interamente sugli stilemi del cinema d’azione americano di serie B.
Alba di piombo (parte 1 di 3)
Direttore Artistico: Vanni Santoni.
Scrittori: Marco Andreoli, Eleonora Dell’Aquila, Filippo Rigli, Luciano Xumerle, Marta Besio (solo Schede Personaggio), Giacomo D’Orlandi (solo Schede Personaggio)
Editing: Gregorio Magini, Vanni Santoni
Prologo
Il Dodge M-886 CUCV dell’esercito americano parte verso Aviano all’orario prestabilito. A bordo, un autista e un sottufficiale, giovani, di leva, di quelli che fino a qualche anno prima venivano spediti a crepare strafatti nella bassa vietnamita. Non c’è scorta: è un carico di materiali elettronici. Dalla base comunicano che una tratta di autostrada è chiusa. Per fare Firenze–Bologna devono prendere la statale.
Al crepuscolo, in mezzo al Mugello, la strada inizia a salire: a sinistra alberi fitti, a destra il baratro. Li ferma un semaforo rosso provvisorio, da cantiere. I due stanno parlando di quanto è buffo il motociclista con barba e occhialoni da aviatore d’altri tempi che si è fermato accanto a loro, quando una FIAT 125 li affianca a destra e un furgoncino bianco si ferma alle loro spalle. Il motociclista estrae un fucile a canne mozze da sotto il cappotto e lo punta verso l’autista. Dall’auto scendono due uomini, pistole in pugno, volti coperti dai passamontagna. Dal furgoncino scendono altri due uomini e una donna, tutti armati e incappucciati, che circondano l’M–886. Il sole cala dietro le montagne. Il motociclista fa segno di scendere.
I soldatini scendono piano. Si fa buio. Ora sono in ginocchio, le mani incrociate dietro la nuca. Qualcuno apre l’M–886.
– Avanti, – fa uno degli uomini scesi dalla macchina, che intanto ha alzato il bordo del passamontagna per accendersi una Nazionale, – prendetela.
I soldati non fanno una mossa mentre una delle casse viene spostata dal camion al furgoncino. Dall’interno, un sesto uomo aiuta i compagni a caricare la cassa, poi esce a sua volta. Enorme, ha una pistola che tra le sue mani sembra minuscola. Scende, posa la pistola sul pianale, raccoglie un grosso tubo di ferro. Aspetta un cenno da quello che fuma. Uno degli incappucciati entra a sua volta, riavvia il mezzo, fa manovra. Il cenno arriva. I due soldati, accoppati da altrettanti colpi in fronte, vengono caricati nuovamente sul mezzo, ai loro posti. Tolto il freno a mano, il camion scende silenziosamente. Buca la prima curva, sfonda il guard-rail e precipita. Gli assalitori ripartono, ogni mezzo a tre minuti di distanza. Ultimo il furgone, dopo aver caricato a bordo il semaforo.
Alla periferia di Bologna la 125 si ferma a una cabina. L’uomo al posto del passeggero scende. Non ha più il passamontagna, mostra un viso scavato, nervoso, occhi celesti, sottili, capelli brizzolati. Si accende una sigaretta, cerca un gettone in tasca.
– Pronto?
– Salve, professore. Siamo di nuovo in città.
– Tutto bene?
– Tutto bene.
Non ne dubitavo. Il capo sarà compiaciuto.
I
Piazza Minghetti è tranquilla. In quella che nel 1977 è la capitale italiana degli scontri di piazza, il termine “tranquillità” sta ad indicare il fatto che nessuno ha ancora estratto spranghe, coltelli o magari pistole da sotto il cappotto; che la benzina è ancora nei serbatoi delle macchine invece che nelle bottiglie. È una bella giornata di sole a Bologna, anche se non fa caldo. Appoggiato a una colonna davanti all’ufficio postale, Francesco Guarnieri, Radovan per i compagni e per i fasci, si ravviva con la mano il ciuffo di riccioli neri che gli cade sulla fronte. L’aria sembra mancare per un attimo. Capita, a volte, quando nella testa si muove qualcosa che non è soltanto un pensiero.
– Ciao.
Virginia Manfredi sbuca di dietro un platano. Il sole la prende da capo a piedi, tanto che deve stringere gli occhi e alzare la mano aperta davanti alla fronte. Francesco non risponde al saluto. Rimane fermo alla colonna e aspetta che lei lo raggiunga. Intanto la guarda con la testa reclinata e le sorride.
Piazza Minghetti sembra tranquilla. Ci sono solo questi due studenti che si baciano tra la colonna del portico e l’ultima vetrata dell’ufficio postale. Lui è di buon umore: oggi, per la prima volta dopo giorni, non sente la testa pulsare per l’emicrania. Virginia invece sembra fredda, anche più del solito. Gli prende le mani. Da un bar arriva il tintinnio delle tazzine. Passa una bicicletta. Non dice niente. Francesco appoggia la schiena sulla colonna e sospira:
– Che c’è stavolta?
– Niente, tutto a posto.
“Non è vero che non c’è niente. Non è vero che è tutto a posto. Non è mai tutto a posto,” pensa Francesco. Virginia sbuffa e apre la borsa in cerca di una sigaretta.
– Dai, che c’è?
Virginia guarda la vetrata dell’ufficio postale dietro di loro, in modo da dominare di riflesso la piazza, e intanto cerca l’accendino nella borsa troppo larga.
– Andiamo via, – gli dice. Lui risponde con uno sguardo stupito. Ciò che Francesco scherzosamente chiama il “sesto occhio” di Virginia si è messo in allarme.
Lei gli stringe il braccio:
– Troppo tardi, – dice seria.
Attraverso il riflesso dei vetri, anche Radovan si accorge di un gruppo di sei o sette persone, ferme all’ingresso di un bar. Un gruppo di fasci che non promette niente di buono. Di certo lo hanno già riconosciuto. Francesco cerca d’istinto la chiave inglese in tasca, ma la chiave non c’è. L’ha lasciata nell’eskimo, che è rimasto sul sedile posteriore della macchina, la sera prima. Altri quattro uomini giubbotti neri Ray-Ban neri cuori neri sbucano dall’altro lato dell’ufficio postale.
– Buongiorno, Radovan.
Sebbene abbia un fazzoletto sulla faccia, Francesco riconosce subito Gipo Acquachiara dalle cicatrici sulla fronte e dagli stivali texani. Sono famosi, i texani di quel tritagente di un fascista. Radovan lo sa bene: quello non è neanche un picchiatore, è proprio uno psicopatico. Secondo le voci che girano, Gipo è diventato matto dopo due anni di ferma nella Legione Straniera. Leggende, certo, ma pericoloso lo è per davvero.
I fascisti che stavano davanti al bar si avvicinano piano. Gipo Acquachiara ha estratto una spranga di ferro opaco dal giubbotto.
Radovan perde l’attimo e Gipo si fionda verso di lui. Molla un fendente che per poco non gli spacca la testa. A malapena Radovan evita il colpo, che lascia un piccolo segno sulla colonna.
– Datti! – urla Virginia: – verso il tribunale! – e sparisce alla vista. E allora Francesco si sveglia. La gente si sveglia. Qualcuno, in piazza, grida. Tutto riprende a velocità infuocata. Francesco inizia a correre. Cani neri che gli volano dietro, e lui è la lepre. Sente la voce di Virginia. Ci vediamo a casa, gli grida.
Due giorni dopo, la mattina di un martedì. All’interno di Lettere occupata paiono bivaccare tutti gli insorti della città. Collettivi e singoli, artisti più o meno impegnati, lotte continue e autonomie operaie, embrioni di prime linee e di lotte armate.
I muri sono coperti di scritte. La gente dorme o fa comizi, volantina o fuma, si fa o cerca un’arma, chiava nei cessi o sta ai banchetti. Radovan entra, saluta amici, compagni, conoscenti, tira diritto, quel giorno non avrebbe sprangato, spronato, incantato nessuno coi suoi discorsi. L’aggressione di domenica, gli scontri di lunedì, ne ha abbastanza. Stamani, almeno per un po’, vuole solo salire al terzo piano e leggere in pace.
“Magari è davvero il caso di darsi una calmata. Forse si può allentare la presa, cominciare a dormire più di un paio d’ore per notte,” pensa Francesco mentre lo chiamano da lontano e tira a diritto. Tira diritto al primo piano adibito a sfogo della militanza, tira diritto al secondo adibito a cazzeggio e riposo rivoluzionario, dribbla un paio di dormienti e prosegue su per le scale. Il suo rifugio è l’aula S. Dopo lezione aveva preso l’abitudine di lasciare i suoi libri sotto al banco per leggere e studiare nei momenti liberi, e l’abitudine è rimasta anche durante l’occupazione. Ha quasi finito le scale che una ragazza lo intercetta. Gli dice che di lì a poco si sarebbe svolta un’assemblea e che avrebbe fatto piacere a tutti se avesse partecipato con un discorso. Francesco acconsente e si aggiusta il ciuffo, nervoso. La ragazza lo saluta e lui fa altrettanto col suo solito “buona giornata.” Quella scende, lui si blocca un attimo, ha una fitta alla testa. Fa un respiro profondo e prosegue.
Il terzo piano sembra deserto. L’emicrania sta già scemando. L’aula S è vuota a sua volta. Francesco si ferma sulla soglia per cercare in tasca il pacchetto di sigarette. È schiacciato, ci guarda dentro, lo inclina. “Chissà che starà facendo adesso Virginia,” pensa. Niente. Sigarette finite. Accartoccia il pacchetto e lo lancia in un carrello delle pulizie parcheggiato davanti alla porta dell’aula T, a tre o quattro metri da lui. Il pacchetto tocca il bordo del secchio e rimbalza fuori. “Da quando in qua si fanno le pulizie nelle facoltà occupate?” pensa, e rientra. Non appena si avvia verso i banchi, sente un parlottare dall’aula accanto. Per un attimo non fa caso alle voci se non per capire a chi appartengano. Sulla prima non ha dubbi: appartiene a Pino Fazzi, uno degli assistenti di Filosofia del Diritto. “Quella merda di cane! In fabbrica, in catene,” pensa, mentre gli appare anche il volto lungo e stretto di quello, i suoi sproloqui su marxismo e diritto naturale, il modo in cui ogni volta guarda Virginia, e anche il periodo in cui lui e Fazzi si frequentavano; in effetti gli era stato d’aiuto, agli inizi, per ambientarsi in facoltà e a Bologna.
– Non stiamo parlando di una cosa normale, Marino. Basta che ti ricordi questo, il resto non mi interessa: questa è una cosa grossa, più grossa di te.
Radovan esce dall’aula S. La porta dell’aula T è solo accostata. Dalla fessura fa in tempo a vedere che il Fazzi sta parlando con l’addetto alle pulizie, un armadio di due metri con una faccia poco rassicurante, uno scimmione il cui tratto più umano è il mezzo toscano tra i denti.
– Ma si fa, vero? Si fa?
– Le armi non si depongono. Vanno curate, e soprattutto usate.
Francesco rientra piano. Qualche goccia di sudore gli si forma sulla fronte.
– Quanti ne ammazziamo?
– Abbassa la voce, imbecille…
Radovan inspira e tende l’orecchio.
– … Ne ammazziamo il meno possibile.
– Ma farà male?
Dai cessi in fondo al corridoio esce Gatto, uno del collettivo. Passa davanti all’aula S e vede Francesco, saldato al banco, in apnea. Sta per dire qualcosa. Radovan gli fa segno di tacere. È un segno perfetto, da comandante. Gatto tace immediatamente, anzi: ammutolisce; per di più, indietreggia. Francesco gli fa segno di tornare al cesso. Gatto obbedisce.
– Se farà male? Cristo d’un dio, stiamo parlando di una bomba atomica!
– Torino farà la fine di Hiroshima, Pino?
– È una testata tattica. Piccolina, cioè. Farà quello che deve fare, spazzerà la fabbrica e basta. Non ti farai scrupoli proprio tu, Marino Carpenovic, lo spietato brigatista, l’uomo delle cinquanta rapine? Pensa che bella sorpresa, domani mattina, essere svegliati dal fungo su Mirafiori. Comunque: tutto chiaro?
– Sì.
Radovan vede Fazzi uscire dalla porta dell’aula T, verso lo studio. Subito dopo esce Carpenovic, che raccoglie il pacchetto accartocciato e lo butta nel secchio, d’istinto. Poi, con il suo carrellino, avanza come un tricheco lungo il corridoio.
Non l’hanno visto. Radovan aspetta un paio di minuti. Si alza, esce dall’aula, scende al secondo piano. Un attimo dopo sente una fitta forte alla bocca dello stomaco. È fermo in mezzo al corridoio. Da dietro arriva Gatto:
– Oh Radovan! Ma prima cosa c’era?
Francesco ha gli occhi sgranati. La testa gli pulsa.
– La bomba! I brigatisti… Mirafiori. – borbotta.
– Eh? – gli fa quello, sorridendo ebete.
Radovan lo molla lì e si tuffa a precipizio per le scale. Vuole improvvisare un comizio, poi ci pensa su un secondo. Scorge il banchetto dei compagni che ancora distribuiscono Lotta Continua. Nell’ipotesi migliore sarebbero stati diffidenti. Radovan parla, quelli scoppiano a ridere. Francesco è sconcertato. Certo, la storia non regge: il Fazzi e un bidello, membri delle Brigate Rosse; le BR che fanno scoppiare un’atomica a Mirafiori, preludio di non si sa che cosa. I compagni ridono, l’emicrania monta. Qualcuno scherza:
– Farebbero proprio bene!
Radovan sente un brivido lungo la schiena, sente le braccia che gli cadono. Gli pare di vedere due facce note in aula B. Entra. L’aula è buia e satura di fumo. Il raggio di luce del proiettore è un fascio di nebbia chiara. Sullo schermo scorrono immagini della rivoluzione cubana. Quando Francesco entra, la luce del corridoio taglia per un secondo l’interno dell’aula. I banchi sono ammassati nell’angolo. Ci sono una trentina di studenti, molti stanno sdraiati in fondo. Solo un paio si voltano. Francesco cerca di riconoscere qualcuno al buio. Si avvicina a Mariotto, uno dei suoi luogotenenti al collettivo, gli dice qualcosa all’orecchio. Quello, come chi sappia esattamente che fare, con gli occhi più adattati al buio della sala di quanto non lo siano quelli di Francesco, raggiunge il fondo, sveglia uno dei tre distesi e ripete l’azione, bisbigliando qualcosa vicino all’orecchio. Poi si sposta ancora avvicinandosi ad altre tre silhouette che si stagliano lungo il fascio luminoso del proiettore.
Un minuto dopo i cinque sono stretti in semicerchio attorno a Francesco.
– Allora, Radovan? – fa Mariotto: – Che succede?
– Una cosa grossa…
Francesco tiene la pausa. Giusto il tempo di percepire appieno la loro tensione; e per fomentarla laddove non fosse sufficiente. Pretende attenzione, Radovan: pretende concentrazione.
– Stanno tirando su un casino.
– Un altro?
– No. Questo è un casino vero. Si parla di una bomba…
Altra pausa studiata, costruita con il solo fine di favorire interventi scontati da poter censurare.
– Molotov?
– Fasci?
– Dove stanno?
– Non si tratta di una molotov.
– E allora cos’è?
Sa bene, Francesco, che la prossima parola esploderà come una testata.
– Una bomba atomica.
L’effetto non è quello sperato. I cinque hanno la faccia di chi sta perdendo tempo. Se non lo mandano a quel paese è solo per una questione di rispetto. Francesco cerca di attenuare:
– Un’atomica a basso potenziale. Tattica… A scopo dimostrativo.
I cinque restano in silenzio. Lo speaker descrive le condizioni in cui venne ritrovato il cadavere del Che.
– Ma dove l’hai sentita questa stronzata?
– Prima di dirvelo voglio essere sicuro che abbiate capito bene di cosa sto parlando.
– Stai parlando di una bomba atomica.
– Esatto. Una bomba che scoppierà a Torino, domani mattina.
– Ma ti rendi conto, France’? Voglio dire, non è che una bomba nucleare si fabbrica in cantina.
– Grazie della dritta, compagno. Il fatto è che noi non sappiamo chi c’è dietro. Stavo uscendo dall’aula S quando ho sentito delle voci arrivare dal corridoio. Avete presente il Fazzi? Quello schifoso dell’assistente di filosofia?
– Quello che ci prova con tutte? Dovresti vedere la faccia che fa quando passa Virginia!
– Davvero, se la mangia, anzi, se la scopa con gli occhi! – ghigna uno dei compagni.
– Certo che quello è sempre arrapato! – fa eco un terzo.
– Ma mi state a sentire o no? Ma chi se ne frega se è arrapato! Io il Fazzi l’ho sentito! Bisogna fermarli. Bisogna avvisare qualcuno perché è troppo bastarda un’azione del genere! Fanno saltare in aria Torino!
I compagni restano immobili per un attimo. Francesco capisce che gli sono scappati di mano. Nessuno gli dà retta, anzi si chiedono cosa abbia che non va e come mai racconti simili storie.
– Siete degli imbecilli. Dovreste sapere quanto io sia serio. Buona giornata.
Radovan esce dall’aula, esce dall’edificio, “devo cercare Virginia, prendere la macchina, la chiave inglese, fare qualcosa,” pensa, e rabbioso si siede sul bordo del pozzo del cortile. Sbuffa, tormentato dal mal di testa che si fa sempre più forte.
– Radovan! – si sente chiamare da dietro.
Normalmente non risponderebbe. Non risponde mai a chi lo chiama da lontano. Ma questa è una voce che non può permettersi di evitare, una voce che è meglio non trovarsi alle spalle.
Radovan ci mette un secondo a sgombrare la mente, per salvare Torino si deve prima salvare la pelle e quella voce alle spalle… Si volta. Ha sempre i Ray-Ban e il gilè nero. Non ha più il fazzoletto e la spranga. Non minaccia. Non grida. Ma è Gipo.
– E tu che vuoi?
– Calma, Radovan… Stai calmo…
Radovan nota la forma di un coltello a serramanico nella tasca destra dei pantaloni.
– Predichi la calma quando sei da solo? Quando non hai una decina di merde come te a pararti il culo?
– Cos’è questa storia della bomba?
Così non tutti avevano riso.
– Quale bomba?
– L’hai detto tu, prima, a quei mammoni del banchetto. Qualcosa su una bomba atomica.
Qualcuno l’aveva preso sul serio.
– Hai capito male.
– Nossignore.
Un picchiatore psicopatico?
– Devo andare. Devo…
Francesco fa cenno di andarsene, non ha proprio voglia di perdere tempo con quel malato di mente. Gipo lo ferma prendendogli il braccio, è serio:
– Non ho capito male.
Passa un tempo che sembra un’ora. Neanche pensano: è tutta attesa. La rompe Radovan:
– Vieni con me, forza!
– Dove?
– Non è questa la cosa importante.
– E quale sarebbe, la cosa importante?
– Che non fai la minchiata che eri venuto a fare in facoltà, qualunque fosse, e mi segui. Andiamo.
Virginia spunta dall’entrata del cortile mentre Francesco e Gipo stanno lasciando il pozzo. È Gipo a vederla per primo. Si ferma. Francesco, con le tempie che battono forte, non la vede e continua ad avanzare a testa bassa. Quando si accorge di essere solo si volta di scatto, rabbioso:
– Oh, ritardato!
– Devi stare calmo, Comandante Radovan, te l’ho già detto. Altrimenti perdi lucidità. E se perdi lucidità, una così te la sfilano da sotto il naso senza che nemmeno te ne accorgi.
Francesco segue la linea dello sguardo di Gipo; una linea retta, che termina sulle cosce di Virginia. Virginia capisce che quello è Acquachiara, sta per allarmarsi, Francesco la ferma con un gesto. Lei lo guarda stranita:
– Che succede?
– Un sacco di cose.
– E questo qui?
– Non te l’ha detto il tuo fidanzato? Siamo diventati amici per la pelle! Ci stavamo giusto andando a prendere un cappuccino.
– Fra’, che sta succedendo?
Francesco è sollevato che Virginia sia arrivata adesso che ha almeno una persona che gli dà retta. Certo, sarebbe stato meglio qualcun altro, ma per essere un po’ più credibile va bene anche Gipo. Virginia, poi, ha un effetto calmante su di lui e anche l’emicrania per un momento si allevia. Dieci minuti dopo sono di nuovo nel cortile della facoltà. Francesco ha appena finito di parlare. Gipo mastica un filo d’erba. Virginia prova a riordinare le idee. La storia le sembra incredibile, ma di storie incredibili ne ha viste troppe, anche se non le racconta mai, neanche a Francesco. Sospira. Squadra il fascista e il suo ragazzo. Che fare? I due si sono fomentati tra loro, non sono lucidi. Cerca un suggerimento, qualcosa di ragionevole:
– Qualcosa dobbiamo fare.
– E cosa?
– Per prima cosa, cercare aiuto. Quei due sono da rinchiudere, se non in prigione, almeno in manicomio.
– Nessuno ci aiuterà. Ho chiesto ai più seri.
– Chi? Gatto? Mariotto? Suvvia.
– Se hai un’idea migliore, dilla.
– Tenendo sempre bene a mente che la storia è del tutto incredibile, potremmo denunciare la cosa al Rettore.
Francesco sgrana gli occhi:
– Il Rettile? Ma scherzi?
– Io andrei a dirlo a lui. Ricordi? Mia madre lo conosce bene il Bruni, lo sai. Qualche volta lo abbiamo avuto pure a cena. Lo chiamo io e fissiamo un incontro. Gli farete il nome di Fazzi e il rettore probabilmente finirà col chiamare la polizia. A quel punto il problema è risolto. Considera che a voi due gli sbirri non crederebbero mai.
– Quella merda del Bruni non ci ascolterà mai.
– Ascoltate un attimo: sia Fazzi che il bidello sono dipendenti dell’Università, giusto? In qualche modo, dipendono dal Rettore.
– Ma, cara la mia compagna, – interviene Gipo, – cosa pensi che gliene freghi, a due brigatisti, del Rettore?
– Ma al Rettore dei brigatisti gliene frega eccome! Se gli viene solo il dubbio che Fazzi non sia un mitomane, tirerà su un polverone, chiamerà la polizia, o almeno li convocherà o ne parlerà con qualcuno. E a quel punto loro saranno bloccati. Certo, negheranno, ma a quel punto la bomba è disinnescata.
– Perché? – chiede Francesco, di scatto, senza pensare.
Gipo fa un sorriso e si tira su:
– La tua donna ha ragione, Radovan; non può aver luogo un delitto di cui già si conoscono i colpevoli. Forza, andiamo dal vostro “Rettile.”
– Bella, non è vero?
Né Virginia, né Francesco, in piedi sulla soglia, hanno idea di cosa sia quella roba. Figuriamoci Gipo.
– Molto, – risponde Virginia – cos’è?
– Gluck. Orfeo ed Euridice. 1762.
– La storia del tizio che va a riprendersi la moglie all’inferno, dico bene?
– Dice bene, signor..?
– Acquachiara. Giampiero Acquachiara.
Cinque minuti prima, seduto nell’antisala del rettorato, tormentato dal ticchettare della segretaria sulla macchina da scrivere, Radovan pensava che lui il Magnifico Rettore lo manderebbe in miniera, che i fasci bisogna bastonarli e basta e che Virginia non aveva avuto quella grande idea a portarli là. La segretaria ogni tanto alzava le lenti e sorrideva. Radovan rispondeva digrignando i denti, mentre la filodiffusione spandeva le prime note dell’opera di Gluck. “Anche qui presto la musica cambierà…” pensava Radovan.
– Senta, siamo venuti per portarla a conoscenza di un fatto molto grave. Vorremmo chiederle di riflettere seriamente su quanto le sto per dire.
Il Rettore si alza e ruota lentamente la manopola, fino ad azzerare il volume della musica. Si sofferma un attimo. La stanza è pulita e ordinata. Le pareti tappezzate di stampe, onorificenze, diplomi d’onore paiono coronare i suoi movimenti. In mezzo, la scrivania, alta, antica, di legno scuro, con un bordo in pelle e al centro un vetro limpido, sembra aver visto innumerevoli rettori passarle dietro. Augusto Bruni si siede, fa un gesto ampio verso le poltroncine al di là della scrivania e sussurra, anzi sibila:
– Prego.
I tre si siedono. Francesco si perde per qualche secondo a osservare una foto del Rettore da giovane, in divisa da tenente di vascello, poi attacca a raccontare.
C’è una pausa lunga, subito dopo la fine della storia. Una pausa durante la quale Augusto Bruni si alza in piedi e, dando le spalle ai tre, fissa assorto il panorama cittadino oltre la finestra. Una pausa tanto lunga che Francesco pensa di dover chiarire:
– È tutto.
Fuori c’è un sole alto, abbagliante. Il Rettore abbassa la levetta dei suoi occhiali e sovrappone le lenti scure a quelle da vista. Poi torna a sedersi. E si rivolge a Virginia:
– Come sta la nostra israeliana? E tua madre?
– Bene, grazie signore.
Francesco sgrana gli occhi. “Israeliana? Ma non è di Castiglion dei Pepoli? Forse ha detto israelita? Intendeva dire israelita, sicuramente… Dunque Virginia è ebrea? Perché non me l’ha mai detto?” Gipo, vedendo l’imbarazzo di lei e la perplessità di lui, ghigna, e pensa: “Quella faccia araba, ma con gli occhi verdi e il nasino francese. Era chiaro che era ebrea.”
Tu che ne pensi di questa storia?
Virginia, anche se non vede più le pupille del Rettore, regge benissimo il suo sguardo, quasi con sfrontatezza:
– Penso che bisogna muoversi.
Il rettore si accomoda sullo schienale, unisce i polpastrelli delle mani e sorride:
– In tempi come questi, i mitomani non fanno che generare mitomani. Sono assolutamente convinto della vostra buona fede. Pensate che lo sono anche quando tentate di uccidervi l’uno con l’altro. Perché qualcosa vi muove. Ed è giusto che sia così. Ma questa storia non è credibile dal punto di vista tecnico. Mi spiego?
– E se invece è vero? – interviene Gipo, – se questa “valutazione tecnica” si rivelasse sbagliata?
– Signori, avete la minima idea di cosa sia un’atomica?
– E lei – scatta Radovan, – lei ha la minima idea di cosa sia la CIA, di che potere abbiano le formazioni transnazionali di stampo politico, di quali interessi possano esserci dietro una cosa del genere?
– Quanta carne al fuoco, signor Guarnieri. E, me lo consenta, quanta confusione! “Formazioni transnazionali”? E poi, la CIA? Addirittura?
Gipo si alza:
– La CIA, o il KGB. Cosa ne sapete voi della guerra? Io me ne vado. Qui stiamo solo perdendo tempo.
Il Rettore guarda Gipo scuotendo la testa, come impietosito. Francesco tenta ancora:
– Non stavano scherzando, di questo sono sicuro. E se succede una cosa come quella, lei non potrà più cadere dalle nuvole. Ora è informato sui fatti. Magari davvero siamo circondati da mitomani. Ma lei ora sa. E forse è in grado di impedire una strage che, altrimenti, potrebbe essere il suo unico pensiero, da qui alla morte.
– Senta, Guarnieri, questa storiella non sta in piedi. Lei è sotto stress. Questa indigestione di politica le nuoce. Io stesso la conosco di fama per il suo ruolo di primo piano nella contestazione: è una testa calda, ma capisco dal modo in cui si esprime che deve essere anche un valido studente. Si concentri sulla sua carriera. Mi dia retta.
– È lei che deve darmi retta!
– Davvero lei crede che i brigatisti faranno saltare in aria Mirafiori per scatenare la rivoluzione proletaria?
– No. Io credo che qualche apparato deviato e ammanicato con gli americani si sta servendo dei brigatisti per fare una strage mai vista e fornire un pretesto per una svolta autoritaria in Italia.
– Una mente che nell’ombra manovra una colonna delle BR? Una bomba atomica che verrebbe trovata, maneggiata e attivata da semplici operai, o da degli studenti? – Bruni scuote la testa e appoggia i gomiti alla scrivania:
– Signor Guarnieri. Virginia. Signor… Acquachiara. Permettetemi di congedarvi. Vi ho lasciati parlare, ma certo non vi offenderete se mi permetto di considerare simili discorsi semplici farneticazioni.
– Se la pensa così, non ho più nulla da dire. Buona giornata.
Radovan si volta, stringe la chiave inglese nella tasca dell’eskimo e sta già parlando tra sé:
– Lurido bastardo ladro massone parassita, a spaccare pietre in miniera, te e tutta la tua risma.
Gipo si alza senza dire niente e segue Radovan. Virginia stringe la mano al Rettore e lesta raggiunge i due ragazzi.
Bruni è solo. Si guarda le mani. Sono bagnate dal sudore. Per un attimo pensa di avvertire il capo. Poi pensa che ci tiene alla pelle, e lascia perdere. Alza la cornetta e fa un numero:
– Sono io.
– Salve, professore. Che succede?
– Abbiamo un problema.
Lucio Bartolozzi appende il telefono, fuma una sigaretta in silenzio, riprende in mano la cornetta, convoca il gruppo. Il covo è in un appartamento del centro. Guido di Giacomo arriva subito. Si siede in silenzio. Arrivano Garlin Finson ed Emanuela di Gregorio. Tutti si comportano per bene. Nessuno dà nell’occhio.
– A dire bene, ci vorrebbero un paio di milioni per dare una sistemata vera, qui dentro. – Mentre lo dice, Di Giacomo con un dito stacca un pezzetto di intonaco dal muro:
– Non fosse altro che per l’umidità. Tra vent’anni saremo pieni di acciacchi.
Finson, con lo sguardo perso, ripete distrattamente:
– Sì, tra vent’anni…
– Silenzio, – li zittisce il capocolonna. Nessuno deve fare rumore, nessuno deve parlare se non serve. È una caserma. Rivoluzionaria, ma pur sempre una caserma. Le tapparelle sono abbassate a tutte le ore, ci sono macchine da scrivere e per stampare, silenzio, devozione, disciplina rivoluzionaria.
Arriva Silvano Domeniconi, si guarda intorno, si gratta la barba, si siede in un angolo. Lucio Bartolozzi, trentadue anni, operaio tornitore laureato in filosofia, ex sindacalista, capocolonna delle BR bolognesi, fuma, pensa, riflette, ragiona. Da un’ora accende nuove sigarette col mozzicone delle precedenti. Una volta ha detto che sono paura e impulsività, i veri nemici della rivoluzione. Una frase, questa, che a Finson era piaciuta tanto da esserne quasi invidioso. Quando arrivano Fazzi e il gigante Carpenovic, sono già le quattro. Li guardano tutti, senza dire una parola.
– Si comincia? – domanda Guido.
– Non ancora. Aspettiamo Marcellino. – risponde Bartolozzi.
Nella stanza non ci sono che due divani e qualche posacenere su un tavolo. Accostate alle pareti, casse di armi e munizioni, un po’ vecchie per la verità. Solo una cassa è nuova, grossa, rinforzata e pesante, con lo stencil “U.S. ARMY”, e la stella, su tutti i lati.
Sono passate da poco le quattro e mezza che arriva anche Marcello Pecci detto “Coerenza”, l’ingegnere. Sotto braccio ha dei lunghi fogli di carta arrotolati. Saluta appena, poi si avvicina al tavolo e li apre. Sono cartografie, progetti, planimetrie.
– Allora, – attacca Pecci indicando un punto su uno dei fogli:
– Parcheggeremo qui…
– C’è stato un problema, – lo interrompe Finson.
– Che problema?
– Fattelo raccontare da Fazzi, – aggiunge Bartolozzi, e mentre lo dice sembra ancora più magro e carismatico del solito; gli occhi chiari sembrano ancora più stretti e arrossati mentre squadra Fazzi, “il filosofino,” come lo chiama lui. Fazzi si toglie gli occhiali e si preme il pollice e l’indice contro gli occhi chiusi. Aveva capito subito che era lui, il problema, ma non aveva ancora avuto il coraggio di chiedere spiegazioni. Non sa da dove cominciare, così è il capocolonna a parlare, e non vola una mosca. Spiega che uno studentello oggettivamente controrivoluzionario ha mangiato la foglia ed è a conoscenza del piano che annienterà il simbolo della schiavitù. Dice che potrebbe mettersi di traverso alla sua realizzazione. La rivoluzione non può rischiare. Lo studente non deve parlare. Il gruppo di chierici annuisce, e sotto la triste necessità della violenza rivoluzionaria c’è anche che si lecca le labbra per l’eccitazione. Guido Di Giacomo credeva di essere lì solo per sistemare gli ultimi dettagli sullo spostamento della cassa e invece si ritrova a dover rintracciare qualcuno:
– Lucio, ma a che ora si parte? Io prima vorrei riposare un po’.
– Se non fermiamo quel Guarnieri, non ci sarà nessun viaggio.
Silvano Domeniconi freme: cupo, antisociale, non ha mai disdegnato la violenza gratuita ed è sempre stato un attaccabrighe. Conosce Radovan di fama e lo considera uno di quei finti militanti che bloccano il processo rivoluzionario. Non vede l’ora di toglierlo di mezzo. Garlin Finson ed Emanuela Di Gregorio ascoltano senza fiatare. Si sono conosciuti frequentando lettere e prima di scegliere la lotta armata condividevano gli ideali di Francesco, che per molto tempo avevano considerato un esempio da seguire e imitare. Mai avrebbero pensato che “Radovan” Guarnieri avrebbe potuto diventare un nemico.
[Continua lunedì prossimo]
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