Un ricamo e una preghiera /1
Maggio 9, 2012 3 commenti
Questo racconto nasce per caso, in un pomeriggio. Luca s’era letto la storia eroica di Alfonsina Morini su TerraNullius e poi è venuto a dirmi che pensava che il nome Alfonsina fosse tipico solo delle donne del Sud e che sua nonna si chiamava Alfonsina e che, per lui, anche sua nonna aveva lo spessore dell’eroe. Una epopea disegnata nel solco della preghiera, una storia che andava oltre i legami biologici e che aveva creato un via vai tra le case di figli trattati tutti allo stesso modo. E così ho raccontato la storia di Alfonsina, eroe ancora vivente, per restituirle qualche dettaglio che suo nipote m’ha regalato un po’ commosso. Tante cose sono inventate ma, comunque, ogni riferimento a fatti e persone è intenzionalmente voluto; speriamo piaccia. Secondo noi, dovrebbe.
In attesa di pubblicarlo da qualche parte, nel frattempo, abbiamo scovato delle fotografie bellissime che crediamo di impaginare presto insieme alle parole. La copertina, poi, è la fine del mondo.
Dopo l’esame di coscienza c’è l’inno, poi l’antifona, di seguito leggo il salmo, poi, ancora, la lettera di San Paolo agli apostoli, il nunc dimittis, e poi finalmente il signore ci conceda una notte serena ed un riposo tranquillo, amen. Oh signore, è la terza volta che riprovo la compieta per andare finalmente a letto e questo nipote mio non torna. Madonnina mia, beata vergine, fa’ che torni tranquillo a casa con i suoi occhi azzurri.
Madonnina ti recito un’Ave Maria ancora e anche il salve regina che è più bello; perché, se io fossi la vergine Maria, il salve regina mi piacerebbe più di tutto e, allora, lo sussurro convinta convinta, ma tu fa’ che torni a casa, questo nipote mio.
Salve o Regina madre di misericordia; vita, dolcezza, speranza nostra, salve! A te ricorriamo, esuli figli di Eva…
E non rimproverarmi maddonina. Lo so che non è nipote mio. Ma tu, la storia, la conosci, non rimproverarmi. L’ho preso a prestito questo nipote come ho preso tutto il resto. Ecco. Ti rimetto l’olio nel bicchiere a far da combustibile allo stoppino. Ti illumino tutti i volti di chi è già morto. Vedi madonnina, li ho messi tutti in fila, in bianco e nero qui, sul comò, e vi prego tutti insieme. Vedi bene che ho lasciato anche il volto della nonna vera del nipote mio. Perché le ho voluto bene, pure a lei, perché pure lei m’ha protetto tutti questi anni. Perché non è stato facile prendere tutto quello che m’aveva lasciato e tenere tutto insieme.
Madonnina mia, fallo tornare presto questo nipote mio che si sta facendo giovanotto perché mai una volta ho saltato le lodi della mattina, l’ora media delle nove, di mezzogiorno e delle tre; mai un vespro e sempre, sempre, ho salutato la notte con la compieta.
Nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, amen.
Ti adoro o mio Dio, ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte. Ti offro le azioni della giornata: fa che siano secondo la tua santa volontà e per la tua maggior gloria. Preservami dal peccato e da ogni male. La tua Grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. Amen.
E pronunciando queste parole mi svegliavo e, svelta svelta, ho sempre salutato la mattina per non rubare tempo a niente perché una donna ha sempre un gran da fare. Tutti i giorni, da quando ho imparato le preghiere.
Tutti i giorni tranne la domenica, perché la domenica era una giornata bella qui, a Santa Catarina: qui, dove l’aria della collina puliva da tutto l’odore di zolfo che nei giorni di scirocco veniva da Caltanissetta. Qui, la mattina aveva quell’aria che ancora arriva dritta dal mare e va nell’entroterra, verso la vallata del Salso. Non pioveva mai; le nuvole, a volte, passavano basse ma non si fermavano. Per questo è difficile coltivare qui. Più a sud, i pomodori crescono con l’acqua del mare e il sale gli toglie tutto l’acido e la salsa viene dolcissima, ma qui a crescere resistono solo gli ulivi, le mandorle con quei fiori belli che si seccano presto e le vigne più forti, quelle che fanno un vino pesante che gli uomini bevono a piccoli sorsi e che i francesi si vengono a prendere per tagliare il loro vino.
Di questi tempi è cambiato un po’ tutto. Ogni tanto piove anche la domenica mattina ma, all’epoca, quando inizia la storia che sai, madonnina, la domenica era una festa. Quando ero più giovane non era difficile andare su e giù lungo i lastroni che pavimentavano il paese. Avevo le gambe buone e forti e avevo l’energia per correre sugli sterrati intorno, giù e su per le colline, a portare le colazioni nei campi o a far commissioni per le vecchine che non ce la facevano più. Lì, dove le rocce di gesso ti fanno scivolare e i buchi nel terreno sono sempre in attesa. E poi, di nuovo in paese, dove il profilo dell’ombra veniva riflesso sui rivestimenti in marmo dei palazzi al centro, quasi a spiegare la ragione per cui a Santa Caterina gli spagnoli dei tempi del regno borbonico ci avevano messo vicino anche il nome Villarmosa: perché era una città bella ed era anche una città che sembrava ricca dalla nascita e, forse, in quel tempo lì, con l’eco della prima guerra e con le avvisaglie della seconda già nelle orecchie, era davvero più ricca di tante altre città. Sicuramente, aveva un passo diverso dal mondo, un’andatura pacifica lungo la quale la scansione del tempo avveniva ancora sulle quattro stagioni, come se l’intero paese fosse rimasto un po’ fuori dagli eventi dei libri di storia. E questo forse era già un privilegio per noi che siamo stati bambini in quel tempo. E a me piaceva, anche se eravamo poche anime e i vecchi ci raccontavano, a noi bambini, che anche durante i moti siciliani, noi di Santa Catarina sentivamo solo il rimbombo dei conflitti tra Caltanissetta e Palermo, e le camice rosse dei mille e il regno d’Italia erano solo parte di una favola lontana, coronata dal tributo pagato al continente con l’apertura delle tante miniere nei dintorni e delle tante vite scippate dalle esplosioni di grisou. Ruberie e vituperi che i briganti cercarono di impedire a suon di bastoni in testa ai singoli. E queste storie ci colpivano e ci formavano ma ascoltandole da santa Catarina sembravano lontane, come se tutto avvenisse su un’isola diversa.
Appena sessanta anni dopo la favola di Garibaldi, negli Anni venti quando ero giovane e quando ancora vivevano molti di quelli che avevano visto l’annessione del regno di Sicilia al regno del continente senza spiegarsene bene il significato, era ancora facile farsi catturare da quella sensazione sospesa e infilarsi nei vicoli, guardare le figure appese ai palazzi, con quelle guance gonfie e gli occhi a volte cattivi a farti affrettare il passo verso la messa.
Lì in chiesa trovavo la penombra, la magia della luce delle candele d’inverno e la frescura in estate, un riparo da quel sole spudorato che questa terra ci regala. Un riparo bianco, immacolato, in questa città più volte ignorata dalla storia del mondo.
L’Eterno riposo dona loro o Signore; e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace.
Per arrivare in chiesa, passavo veloce davanti quel palazzo finito da neanche dieci anni e che ospitava la biblioteca comunale di cui tutti si vantavano. E benché non fossero molti quelli che sapessero leggere davvero, c’era sempre un gran via vai di tutti quei signori un po’ fanatici che, vestiti a festa, andavano a respirare l’aria rivoluzionaria di un pezzo d’illuminismo che ci toccò in sorte insieme all’enciclopedia – del lontano 1779 – di Diderot e D’Alembert e che gli eredi di Monsignor Panvini regalarono ad uno dei nostri sindaci. Da piccini, a scuola ci incantavamo a guardare le fotografie grandi, appese dietro le spalle del maestro, che ritraevano una piccola folla presente alla cerimonia che ci fu quando avvenne la consegna della enciclopedia e si sognava che, presto, saremmo diventati una meta di studio per tutti i giovani francesi. Invece no. Di giovanotti francesi, che le amiche sognavano, ne sono venuti proprio pochi. Più che altro erano i loro padri che andavano a commerciare affacciandosi sulle città di mare.
Io, ogni volta che passavo davanti alla facciata della biblioteca, abbassavo gli occhi, mi facevo il segno della croce per chiedere un piccolo aiuto a Gesù per esaudire i sogni sui giovanotti delle mie amiche e, insieme, per proteggermi da quella lotta che c’era stata tra Madame de Pompadour e le autorità religiose per arrivare alla fine della stesura dell’opera. E quello che sembrava un conflitto antico, invece, per me non lo era affatto. Ed anche se non avevo il coraggio di confessarlo ad anima viva, mi sembrava che ci fosse un marchio indelebile su quei libri. Io, questo conflitto tra le cose terrene e le cose del cielo, lo sentivo fortissimo e, ogni volta che passavo di là, mi sbrigavo ad arrivare alla chiesa principale, la Chiesa Madre. Mi piaceva quel nome. Mi suggeriva una protezione che non avrei trovato altrove. La chiesa madre era dedicata all’Immacolata Concezione e con tutto quel bianco fuori, e quel nome e le tre navate che da subito ti facevano sentire perso all’ingresso e quel soffitto così alto che sembrava si portasse il cielo dentro a me, sembrava un rifugio bellissimo.
E a forza di pensare così, ci sono cresciuta dentro.
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