“Alba di piombo”, Scrittura Industriale Collettiva – seconda parte
Maggio 14, 2012 1 commento
In vista della prossima uscita di In territorio nemico, aka “Grande Romanzo SIC”, continua la pubblicazione su Scrittori precari dei racconti scritti col metodo SIC, in una versione interamente revisionata e corretta. È oggi il turno della seconda parte di Alba di piombo. La terza e ultima parte sarà pubblicata lunedì prossimo, 21 maggio. Qui potete leggere la prima parte.
Alba di piombo (parte 2 di 3)
II
Bastardo, pensa Francesco. Intellettuale di merda, pensa Gipo, e lo pensa in francese. Rettile maledetto, pensa Virginia. Qualcosa le dice che è ora di squagliare. Alza la testa, guarda Radovan:
– Torniamo a casa.
– Virginia, che hai? – chiede lui passandosi la mano tra i capelli.
– Torniamo a casa subito.
Francesco non replica. I tre camminano veloci per le strade di Bologna, a testa bassa. Virginia e Francesco davanti, seri, silenziosi. Gipo un paio di metri dietro. Mugugna.
– Che bella coppia… Complimenti davvero… Il Comandante e la sua figa ebrea! Quando passano per le vie di Bologna c’è da girarsi! C’è da ammirarli!
Francesco non risponde, del resto se quello è lì che li segue è soprattutto colpa sua. Virginia guarda avanti e non dice nulla; ogni tanto tira su col naso. Sta recitando tra sé una sorta di mantra pacifista.
– E ora vanno a passeggio, vedi? Se ne vanno a fare due passi… Tanto la coscienza se la sono pulita… Il più è fatto, vero, Radovan?
Passa un treno. Tutti e tre imboccano la salita del cavalcavia. Da destra li prende un vento ferroso. Gipo insiste:
– Bé? Che si fa stasera? Si va al cinema? Che film ti piacciono, Comandante? Preferisci i cartoni animati o la nouvelle vague?
Superata la ferrovia imboccano via della Torretta e proseguono in parallelo ai binari. La strada è deserta, se non per la fila di macchine che la delimita. Il sole manda i suoi ultimi bagliori.
– Oppure no, stattene a casa stasera, che è meglio. Sono le otto passate; tra un’oretta bisogna che tu ti metta a dormire… No? Non è troppo tardi, per te, Radovan?
Radovan si ferma. Virginia se ne accorge dopo un paio di passi:
– Dai, Francesco, lascia stare.
– Che vuoi, eh fascio? Che cazzo vuoi?
Radovan si toglie l’eskimo e lo butta sul rettangolo di prato che separa il marciapiede dallo steccato della ferrovia. Gipo resta fermo. Si limita ad accentuare il sorrisetto ottuso che lo contraddistingue.
– Francesco, smettila!
– No, per niente.
Francesco avanza verso Gipo, scaglia un pugno, ma va a vuoto. A Gipo basta spostarsi verso sinistra, non solo per schivare il colpo ma anche per mantenere intatto il suo sorrisetto:
– Vieni sotto, Comandante! Togliamoci il pensiero!
Radovan respira. Guarda Gipo negli occhi. E riparte, ancora più determinato.
– Basta!
Francesco si ferma. Virginia ha urlato forte stavolta.
– Perché devi sporcarti con questo qua, me lo spieghi? Eh? Vuoi fare il fenomeno? Smettila. E non ti preoccupare, ché se il tuo amico continua a fare lo stronzo si ritrova le palle in gola.
Di scatto, Virginia si volta verso Gipo.
– Chiaro?
Gipo, ammirato e stupito, non si lascia tuttavia spegnere il sorriso dalla faccia.
– Ehi, pace e amore, sorella.
– Bene. Ora, o proviamo a ragionare, o rompiamo le righe, va bene?
Francesco è incredulo. Quasi spaventato:
– In che senso?
– Nel senso che se continui a comportarti da idiota non mi vedi più.
Passa un altro treno. Un’altra folata di vento muove le fronde degli alberacci piantati sul marciapiede.
Virginia li tiene entrambi.
– Possiamo stare sicuri che nessuno ci darà retta. Neppure io sono convinta se darvi retta o meno. Comunque, se volete fare qualcosa, dovete farla insieme. Anche se ci fa schifo soltanto l’idea. Le scenette le teniamo per giorni migliori. D’accordo?
Un cane randagio si avvicina, annusa, sbadiglia. Un altro cane abbaia poco più in là.
– Forza, adesso. Andiamo.
Gipo affonda le mani nelle tasche del giubbotto, Radovan recupera l’eskimo da terra; Virginia, staccata sul lato, sull’ennesima folata di vento, ha un brivido di freddo che deve scuotere via. Francesco la sbircia con la coda dell’occhio e in qualche modo è contento di vederla tremare, anche se è solo per un attimo. Ripartono in silenzio. I cani li seguono. Le luci per le strade di Bologna sono ormai accese. I tre camminano a passo spedito facendo girare nella propria testa tutti i discorsi fatti e le parole dette al rettore, i dubbi di Gipo sul dover attendere per poter agire e quelli di Virginia su tutta la storia.
Radovan si gira di scatto quando sente rumore di metallo che cozza contro l’asfalto ma si ritrova a fissare una vecchietta che dà da mangiare ai gatti con una gavetta. La ferrovia sulla destra è buia; a sinistra la luce dell’insegna di una pizzeria illumina un pezzo di strada. Esce un uomo con le sue pizze in braccio, le tiene come fossero reliquie. Passata la pizzeria, le uniche fonti di illuminazione sono le luci che escono dalle tapparelle abbassate dei condomini.
Garlin Finson, nascosto tra due macchine parcheggiate vicino alla staccionata della ferrovia, aspetta il segnale. Deve aspettare che Radovan e compagni passino, per prenderli alle spalle. Sarà la sua pistola a risolvere il problema. Garlin controlla il caricatore. Li sente parlare. Con la parte superiore della pistola appoggiata alla pancia cerca di attutire il caratteristico “click” che si ottiene caricando un’arma automatica. I tre camminano. Dal parcheggio di là dalla strada, dove c’è il gomito di una curva morbida, una delle macchine parcheggiate lampeggia due volte. Garlin non vede ancora i bersagli, vede solo i lampi dei fari che lo avvisano, ma dentro di sé pensa già di averli in pugno. La macchina lampeggia ancora. Virginia capisce. Il brigatista esce allo scoperto e punta la pistola. Virginia:
– Giù!
L’abbaiare dei cani randagi, dietro di loro, dà il via a un’accelerazione improvvisa del tempo.
Un colpo di pistola tuona alle spalle dei tre, Radovan resta lì, in piedi, atterrito; Virginia e Gipo sono già a terra, lo tirano giù con loro. Dietro di loro, un uomo col passamontagna esplode altri due colpi, ancora a vuoto. La macchina che ha lampeggiato si rimette in moto, fa manovra, entra in una traversa tra due condomini, si ferma di nuovo. Il rumore degli spari sembra non fare effetto sui residenti della via, le tapparelle restano abbassate. Gipo ha già perso la testa, sente ribollire il legionario, assetato di sangue come nella giungla africana. Virginia è assalita da un identico tremore: l’odore del sangue la schifa, ma sa bene cosa fare, si scambia un’occhiata col fascista e sono due soldati che hanno capito. Solo Radovan rimane atterrito: ne ha viste, prese e mollate di mazzate e di molotov, ma le pistole sono un’altro sport, un’altra scuola, un altro mondo. Le pistole fanno paura. L’uomo col passamontagna spara un altro colpo, gli tremano le mani, di nuovo non colpisce nessuno. Gipo, incurante della linea di fuoco, gli si avventa sopra. Gli prende il polso, lo scuote, gli gira il braccio dietro la schiena. Parte un altro colpo, ma la P38 ormai sta volando in aria. Virginia si getta e l’agguanta al volo, rotola leggiadra a terra, finisce in ginocchio, scarrella e punta dritta la fronte del nemico, quasi senza spettinarsi. Gipo toglie il passamontagna all’uomo, sotto il passamontagna c’è una faccia rossa lentigginosa mangiata dalla paura. Una testata la apre all’altezza del naso. Radovan è fermo sbiancato sudato e trema, travolto dall’emicrania.
Virginia già punta la macchina che ha lampeggiato. Le basta un attimo per capire. Fa una rotazione verso destra, si abbassa, registra la presenza dei cani, localizza la macchina:
– Francesco, pensaci tu! – molla il prigioniero e corre verso l’auto. Le parole di Radovan le girano nella testa e ora capisce che non erano fandonie. Qualcuno ha dato l’ordine di eliminarli. Radovan non ha una pistola per tenere sotto tiro il giovane brigatista, ma si sveglia, e parte con la solita foga. Colpisce il rosso con una serie di colpi; di destro, di sinistro, tutti al ventre. I cani abbaiano ancora, da lontano. Gipo tiene ben fermo il prigioniero.
Virginia gira larga intorno al palazzo e allunga il suo percorso per sorprendere il veicolo di fronte. Dalla traversa spunta metà macchina. Virginia si sposta rasente il muro procedendo furtiva, fino ad arrivare a pochi metri dal lato guida. Emanuela Di Gregorio guarda nello specchietto centrale e controlla l’orologio al polso. Scuote la testa e muove le mani sul volante, chiudendo e aprendo i pugni velocemente. Virginia si apposta dietro un colonnino dell’Enel e controlla il caricatore. Finito. Un caricatore da venti! Incompetenti, pensa.
La Di Gregorio, preoccupata per il ritardo, scende dalla macchina, pistola in pugno, per verificare cosa sta succedendo. Si guarda intorno e non appena si volta, si ritrova Virginia proprio dietro, pronta a colpirla. I riflessi della brigatista sono ben sviluppati e riesce a bloccarle il braccio appena in tempo e a colpirla a sua volta sulla spalla, con il calcio della pistola. Emanuela punta la pistola ma Virginia si abbassa e la afferra per una gamba facendola cadere. La pistola sfugge e schizza a qualche metro di distanza. Virginia salta addosso all’avversaria e comincia a picchiarla sul viso. Emanuela para i primi colpi ma non riesce a scrollarsela di dosso. Un pugno le spacca le labbra, un altro lo zigomo. Pare sconfitta, tanto che Virginia smette per un attimo di colpire. A Emanuela basta quel momento di distrazione per sferrarle un calcio al ventre e mettersi a correre.
Virginia sbuffa, lancia un urlo, scatta, la raggiunge e scivola a terra per falciarle le gambe. La Di Gregorio rimbalza sull’asfalto e batte con il gomito sullo spigolo del marciapiede. Virginia si rialza e si prepara a colpire. Quella si alza a sua volta, con uno scatto imprevisto, e la guarda, determinata.
La ragazza prova ad afferrare Virginia al collo. Sa come si combatte a mani nude. Il frastuono di un treno merci copre il gridare delle due donne. Virginia è agile, forte, precisa. L’altra corre, salta, attacca, ma non regge il confronto. Capisce che appena la stanchezza le prenderà i muscoli, Virginia avrà la meglio: è troppo rapida, quasi sovrannaturale nei movimenti. Le viene addirittura il dubbio che sia una dei Servizi. Pensa a Garlin, e si spaventa per lui. È un attimo: Virginia la colpisce in bocca col tallone. Emanuela cade all’indietro, si aggrappa a un lampione per non cadere.
Radovan intanto ha finito di pestare Garlin, che giace esausto a terra, faccia sul marciapiede. Gipo gli sale sopra.
– Che fai? E basta!
– Basta? – Gipo afferra bene l’irlandese per i capelli, gli tira su la testa e la sbatacchia a terra, marcando un ovale rosso sull’asfalto: la sua faccia ora è solo sangue.
– Dicci un po’… – fa il legionario con gli occhi spiritati al giovane a terra. Il sangue gli cola a fiotti dal naso, dalla bocca, dalle arcate sopracciliari. Finson vorrebbe reagire, dire almeno dire qualcosa di sprezzante, ma Gipo gli torce lo mano, gli spacca quasi il braccio dietro la schiena, e ride spiritato, scosso da chissà quale ricordo, e sbatte di nuovo la faccia del nemico sull’asfalto. Garlin vorrebbe urlare per il dolore che sente in faccia in fronte sulla bocca alla mano alla spalla che esce fuori dalla scapola, ma il sangue e il vomito gli bloccano la gola e riesce solo a gorgogliare.
– Io posso andare avanti anche per tutta la sera.
Francesco si spaventa, interviene:
– Lo stai ammazzando!
– Dici?
– Guarda come sta messo…
– E tu che ne pensi? – chiede rivolto alla maschera rossa: – sei d’accordo con lui? Pensi che ti sto ammazzando? Ci racconti qualcosa? – Garlin gorgoglia, gli occhi gli vanno all’indietro.
– Senti… Basta. Io vado a cercare Virginia.
– Ok. Tanto non mi manca molto.
Francesco entra nella traversa; sente grida di donna sull’altro lato. Percorre la strada radente alla parete, supera la macchina, nota la pistola abbandonata per terra. La raccoglie e la infila nei pantaloni, nasconde l’impugnatura sotto l’eskimo, segue le urla a destra, si affaccia dietro l’angolo del palazzo e vede due donne incredibili. È impietrito. Una è Emanuela Di Gregorio. Se la ricorda bene. Frequentava i collettivi di lettere, al primo anno. Era timida, carina, simpatica. Erano anche usciti insieme un paio di volte. Gli era sembrata indifesa, in quella facoltà così tanto più grande di lei; gli aveva raccontato, in effetti, che praticava qualche arte marziale, ma era un’altra cosa vederla saltare, scalciare, ringhiare, puntare il nemico con gli occhi sgranati. E il nemico è un’altra donna. La sua donna. Anche lei colpisce e lotta, come una belva, le mani che bloccano e fiondano, le gambe mobili e rapide. Radovan vorrebbe intervenire. Ma come? Quelle sono due professioniste. E come è possibile?
Quello che Virginia non ha mai detto a nessuno, neppure a Francesco, è che Manfredi è il cognome di sua madre. Il suo vero nome è Rustu, Virginia Rustu, nata nell’ottobre del ‘56 sulle alture del Golan. Il padre Andrej, colono yiddish con ascendenze rumene, la addestrò fin dalla più tenera età all’uso delle armi. A quattordici anni partecipò alla sua prima missione di guerra, prima di una lunga serie. Due anni più tardi il padre fu giustiziato dagli ebrei ortodossi perché collaborava coi palestinesi, e Virginia fuggì con la madre in Italia. Virginia da allora ha nascosto il suo passato. Ma di fronte al pericolo il suo addestramento è riaffiorato in un istante.
Colpisce Emanuela sul naso col gomito. Quella cade, Virginia le si erge davanti:
– La finiamo qui?
In quella, sbuca dal buio Francesco.
– Virginia!
Come lei gira la testa, Emanuela, inesauribile, schizza via come un’anguilla. Virginia esita un attimo e la brigatista già non si vede più, si coglie solo l’ombra, troppo lontana, che scavalca le transenne della ferrovia.
– Dio mio, – è l’unica cosa che Radovan riesce a dire.
I due si abbracciano:
– Torniamo da Gipo! Quello lo sta ammazzando.
– Aspetta Fra’, aspetta. La macchina.
In macchina non c’è che una borsa. I due la raccolgono e corrono verso la ferrovia.
Gipo è fermo, in piedi. Garlin Finson giace bocconi, le braccia spalancate, immobile.
– Gipo!
Gipo non risponde.
– Gipo, perdìo, che succede?
– Eh, Radovan. È stato lui a cercare di ucciderci, se l’è meritata.
– L’hai ammazzato!
– È lui che è morto. Se l’è cercata.
– Dio mio. – Francesco si attorciglia una ciocca di capelli fino quasi a strapparla. Virginia prende la parola, fredda:
– Ti ha detto qualcosa, almeno?
– Niente, – fa Gipo con un sorriso allucinato.
Emanuela Di Gregorio, intanto, nonostante qualche osso incrinato e la faccia tumefatta, si allontana veloce e riesce a raggiungere una cabina telefonica. Sta per entrare, poi pensa che sia meglio allontanarsi ancora. Percorre alcune centinaia di metri. Si ferma in una strada secondaria, lontana da occhi indiscreti e dalle sirene che corrono veloci lungo le strade di Bologna. Con la mano sporca di sangue prende un paio di gettoni dalla tasca, si piazza la cornetta tra l’orecchio e la spalla, li inserisce frenetica e compone il numero con l’aria di chi va a Canossa.
– Pronto…
– Che hai?
Non è il capocolonna a rispondere, ma Domeniconi, il falegname. Meglio, forse.
– Rientro.
– Cos’hai? Che è successo?
– Il peggio.
– E il rosso?
– Non lo so.
Le trema la voce.
– E adesso?
Emanuela, la ragazza di ferro, crolla tutta insieme. Cade in ginocchio, inizia a piangere, le fa male tutto:
– Lo chiedi a me!? Lo chiedi a me!?
Domeniconi passa la cornetta a Bartolozzi. Non ha detto niente, ma il capo ha capito tutto:
– Dove vanno?
Emanuela lo sa, dove vanno. C’è stata, a casa del bell’agitatore quando era una studentessa di primo pelo. La zona è proprio questa. Lo dice.
– Bene. Rientra veloce. Mantieni la calma.
Francesco, Gipo e Virginia camminano svelti da vari minuti, e non si girano mai indietro. Virginia chiede scusa a Francesco; lui non capisce:
– Scusa di che? – e le dice di correre e non pensare ad altro. Gipo bombarda Radovan di domande e piani per sventare il piano delle BR. Francesco non ce la fa a guardarlo – Un morto ammazzato! – e tira a dritto, pensa alla sua macchina scassata e alle possibilità che può avere di arrivare fino a Torino. Una fitta alla testa lo sincronizza di nuovo alla realtà e istintivamente accelera il passo: la strada da fare è molta e il tempo a disposizione limitato. Virginia procede spedita e intanto controlla tutto quello che la circonda; c’è elettricità nell’aria, la stessa che sentiva quando era braccata, sugli altopiani.
I tre entrano a casa di Francesco ansimanti, chiudono la porta, passano un piccolo ingresso pieno di libri e numeri di “Lotta Continua”, seguono Radovan lungo il corridoio, entrano nella sua stanza, chiudono la porta, prendono fiato.
Virginia si siede sul letto di Francesco. Per l’ennesima volta scorre con lo sguardo quei volantini polverosi attaccati alla testiera. Sorride amara a pensare quanto le davano noia, quando facevano l’amore.
Gipo gira per la stanza con la curiosità di vedere come vive il nemico:
– Comandante, potresti darla una sistemata qua dentro…
– Gipo, non stressarmi, abbiamo cose più urgenti a cui pensare. Ormai è ovvio che solo noi possiamo fare qualcosa, e che non possiamo fidarci di nessuno.
Gipo si guarda intorno, fissa gli oggetti. Prende una di quelle sferette che se le agiti cade la neve; dentro c’è il Colosseo:
– Molto proletaria…
– Mettila giù.
Gipo fa finta che la sferetta gli scivoli di mano; ma la riprende al volo. E riparte col sorrisetto.
– Divertentissimo, – commenta Francesco accendendosi una sigaretta.
Virginia svuota la borsa trovata in macchina. Cadono sigarette rotte, biglietti dell’autobus, una penna, un foglietto. Radovan lo raccoglie. Una mappa. La mappa di uno stabilimento. Ci sono riportate una posizione e un’ora. Ormai per il Comandante Radovan è una questione di fede: è solo un foglio ma non ha alcun dubbio che siano i dati relativi all’attentato. Neanche Virginia, ormai, può permettersi di dubitare.
– Allora? – interviene.
– Allora Torino – risponde Gipo: – Giusto, Radovan?
Francesco annuisce:
– Non abbiamo scelta.
Virginia si alza dal letto:
– Bene, a Torino… E quando saremo là?
– Non lo so… Alle una? Le due? Io prendo la macchina e vado. Se volete venire, bene, altrimenti vado anche da solo.
– Hai una macchina?
– Una Due Cavalli.
Gipo scuote la testa:
– Meglio che nulla. Quindi è deciso. Che c’è da mangiare?
– Vai e guarda.
Gipo esce dalla stanza.
– Che stronzo.
– Stai calmo, Fra’.
– Calmo? E tu, Virginia? Tu chi sei, cosa sei? Un agente segreto? Un marine?
Virginia non risponde; anzi: abbassa lo sguardo.
Gipo chiama dalla cucina:
– Ah però… Trippa al sugo… Vero cibo operaio!
– Vaffanculo!
– Anche te, Comandante; vaffanculo anche te!
Bartolozzi passa nuovamente la cornetta a Domeniconi, che la appoggia. La mette giù piano: l’esercizio collettivo è ora quello di non muoversi, di non fiatare, di non rompere il gelo. Passa qualche minuto, poi Domeniconi, grattandosi la barba, riferisce agli altri i contenuti della telefonata. Bartolozzi tace, furibondo. Di Giacomo, Pecci, Carpenovic e anche Fazzi tentano, ognuno a suo modo, di trovare mentalmente una risposta se, per ipotesi, il capo domandasse: “E allora? Che si fa?” Ma Bartolozzi non chiede. Si vede da come ha buttato gli occhi dentro una delle crepe del muro, da come ce li ha inchiodati, da come succhia l’ennesima sigaretta, che a quella domanda si sta già rispondendo da solo. “Inutile affidarsi ai singoli,” pensa. “Alle coppiette? Peggio che mai. La lotta di classe si fa con le masse. Ecco cosa ci vuole per raddrizzare le cose: un attacco in massa.”
Guido Di Giacomo, l’autista, azzarda:
– Niente più poesie per Finson, eh? Che dice Emanuela?
– Non lo sa. Forse è andato.
Domeniconi guarda Bartolozzi. Vedendo che non batte ciglio, si sente di rompere gli indugi e propone di uscire per sistemare la coppia e il fascista. Il capocolonna annuisce facendo un cerchio di fumo con la bocca:
– Farete un’azione di gruppo. Un attacco in massa.
La platea freme, e annuisce silente. Marino Carpenovic controlla che la sua pistola sia carica e prende il suo tubo di ferro: il suo viso si è arrossato, perfino il suo cranio calvo è rosso; sembra già pronto ad attaccare chiunque gli si metta davanti. Marcellino Pecci, il “Coerenza”, se ne sta nel suo angolo e si sistema la riga dei capelli con la mano mentre ripassa mentalmente il suo metodo di ricaricamento veloce di una pistola a tamburo. Dice:
– Alziamo la tensione. Li annientiamo. Dico bene?
– Sì, – risponde Domeniconi: – ormai le carte sono scoperte…
Poi si avvicina a Fazzi, tanto che i loro nasi quasi si toccano. Fissandolo negli occhi, prosegue:
– A meno che qualcuno non abbia qualcosa in contrario.
– Lascialo stare, – interviene il capo: – Pino starà qui con me. Nel caso dovessi agire, mi serve un uomo d’appoggio.
– Bene. Tanto non vale niente, con un’arma in mano. Non vale proprio niente.
– Silenzio. Basta, – taglia corto il capocolonna: – Io e Fazzi partiamo subito per Torino. Voi fate quello che dovete, e poi tornate qui. State tranquilli, dormite un po’. Domani sarà un’alba di fuoco, e noi dovremo essere pronti a qualunque cosa.
I quattro abbottonano rapidamente i cappotti, controllano di avere i passamontagna in tasca ed escono. Domeniconi ha fatto un semplice ragionamento: i tre sono a casa del traditore del popolo Radovan Guarnieri. Se davvero vogliono fermare la bomba, cercheranno di raggiungere Torino in qualche modo. Basta intercettarli sotto casa per risolvere il problema. Di Giacomo invita tutti a sbrigarsi e sorride:
– Tranquilli. Sgominarli sarà un gioco.
Le indicazioni della Di Gregorio sono precise, ma la FIAT 125 del commando arriva sotto casa di Radovan giusto in tempo per scorgere la Due Cavalli che si allontana.
Domeniconi accosta con la sua moto. Solleva gli occhialoni stizzito, e dice: – Seguiamoli! Appena ci troviamo in una zona meno popolata entriamo in azione. Dobbiamo essere sicuri di eliminarli, non possiamo permetterci errori.
– Tranquillo, – replica Di Giacomo con un ghigno: – una Due Cavalli si raggiunge; si raggiunge sempre. È una macchina leggera, basta toccarle il retro per farla andare in testacoda. E a piedi potranno andare solo all’inferno.
I tre non si accorgono di essere seguiti, passano per la zona di Bologna dedicata alle fiere. Radovan stringe le mani sul volante, sente un rigurgito acido che gli sale nell’esofago e una morsa che inizia ad avvolgergli la testa; trema. Dice:
– Dobbiamo restare calmi e tenere la situazione sotto controllo. Specialmente tu, Gipo.
– Calmi? Dài retta a me, dobbiamo cambiare strada. Se troviamo un po’ di traffico siamo fatti.
– Forse aver ucciso un uomo solo per il gusto di farlo ci complicherà un tantino le cose; tu che ne dici, “Faccetta nera”?
Gipo sporge il braccio in avanti, con foga, e fa per ribattere qualcosa, ma Virginia si gira di scatto e lo blocca:
– Non ricominciate.
In fondo, sulla destra, intravedono il complesso della Fiera. I suo palazzoni, le sue cisterne, svettano sempre più, man mano che si fanno avanti. All’altezza della Fiera, in macchina nessuno parla più. Radovan guida, la bella Virginia accanto, Gipo sta dietro sbracato. La radio è accesa sui notiziari, sulle radio libere, ma nessuno al di fuori di loro sembra aver sentore del disastro. Nessuno al di fuori di loro, e del nemico.
Dopo neanche un chilometro a debita distanza, la 125 con a bordo Di Giacomo, Pecci e Carpenovic accelera. Di Giacomo, esaltato, prende a colpire il volante come a voler spingere ancora di più la vettura. Marcellino Pecci, che gli siede a fianco, cerca di mantenerlo tranquillo ma è tutto fiato sprecato. Carpenovic siede dietro con la faccia seria, assaporando già lo scontro. La 125 sfreccia veloce e non ci mette molto a raggiungere l’auto dei tre. Gli stop della Due Cavalli diventano sempre più vicini fino a sparire. Il tamponamento fa sobbalzare la vecchia Citroën, ma senza farla uscire di strada. Al volante, Radovan è nel panico. Nell’altra macchina i tre sono ben coordinati e si preparano all’attacco. Di Giacomo si stacca e con una manovra precisa li affianca. Virginia si abbassa e cerca di tranquillizzarlo:
– Pensa a guidare, stai basso e non distrarti!
Le auto sono l’una accanto all’altra. I due autisti tengono gli occhi incollati sulla strada. Marcello Pecci controlla la pistola con occhio ingegneristico:
– Avvicinati di più. Gli spariamo tre colpi e filiamo.
Per qualche secondo la Due Cavalli pare in grado di tener testa ai suoi avversari. Poi, sulla destra, come fosse piovuta dal cielo, si affianca una Moto Guzzi che, a dar retta alla ruggine sul serbatoio, avrà avuto almeno una ventina d’anni. Sopra c’è un tizio con la barba, con le spalle larghe; un tizio curioso, con dei buffi occhialoni da aviatore. Il viale è largo, non abbastanza per tre mezzi allineati. Radovan prova a spostarsi verso la Guzzi, sperando di spaventare il motociclista. Quello rallenta senza problemi, si porta dietro di loro, e alza gli occhiali. Radovan lo riconosce nello specchietto: è Domeniconi, un cane sciolto, uno che veniva alle manifestazioni solo per cercar guai. Scoprirlo brigatista non lo stupisce: averlo contro, però, lo spaventa.
– Che facciamo!? – grida.
Domeniconi tira fuori una doppietta con le canne segate e mira contro la Due Cavalli. La 125 intanto stringe sul lato.
– Che devo fare!? – grida di nuovo Francesco.
Virginia non dice nulla. Ma, come se fosse l’unica cosa da fare, allunga la mano sulla leva del freno a mano e la tira su, più forte che può. Gipo batte la testa sul sedile, lascia andare una bestemmia. L’emicrania di Radovan ora è una morsa di ferro su tutto il cervello, ma pare dargli una sorta di disperata lucidità: con abilità controlla la frenata del mezzo.
La moto li scansa con agilità, frena. La 125, trenta metri più avanti, è già ferma; le luci bianche della retromarcia si accendono. La moto manovra.
– Dai svelto, fai manovra anche tu!
Radovan fa quello che può, ma la Due Cavalli arranca, e Di Giacomo è un pilota di ben altro livello: in breve stanno correndo in direzione contraria ma la 125 li sperona di nuovo, stavolta molto più forte. La Due Cavalli sbanda a destra, salta sul marciapiede, sfonda il vecchio guard-rail e si rovescia fuori strada, una decina di metri più in là, in una zona a cantieri. Le porte dell’auto si aprono e subito dopo si sentono colpi di pistola e fucile in successione. Nell’aria c’è puzza di gomma bruciata, e del fumo che esce dal motore della Due Cavalli.
Radovan e Gipo, non ancora sicuri di essere tutti interi, hanno fatto in tempo ad appostarsi dietro un cassone di detriti, e vedono Domeniconi, Pecci e Carpenovic fare fuoco. Virginia è già sgattaiolata oltre il guard–rail, dietro i brigatisti. Radovan stavolta non ha intenzione di essere inutile: si alza in piedi, estrae la pistola presa alla Di Gregorio, esplode un colpo. Domeniconi si tuffa sull’asfalto; anche Carpenovic nonostante la stazza dimostra di essere piuttosto agile e si butta da un lato; solo il “Coerenza” rimane in piedi, disorientato. Radovan esplode un altro colpo e lo centra alla coscia. Quello lascia uscire un grido lieve sotto il passamontagna e si accascia. Di Giacomo riavvia la 125 e fa retromarcia. Carpenovic cerca di tirar su Pecci. Radovan spara un altro colpo a vuoto, il grosso addetto alle pulizie riesce a rifugiarsi dietro una cisterna arrugginita, sempre trascinando il compagno. Il “Coerenza” ha i pantaloni zuppi di sangue. Virginia è già dietro a Domeniconi: rimasto solo sul bordo della strada, si è appostato dietro un cassonetto e ricarica la doppietta. Virginia sfila una stringa da uno dei suoi anfibi.
Il brigatista muore strangolato, senza nemmeno vedere il fantasma che lo ha preso alla gola. Anche Gipo si mette in movimento: si sposta fino a nascondersi tra le auto parcheggiate, una buona posizione per spiare i nemici e attaccarli a sua volta. Francesco avanza sparando verso la cisterna. Carpenovic fa capolino da dietro l’angolo e spara, ma abbagliato da un riflettore non riesce a centrarlo. Radovan avanza e spara ancora, a viso aperto; il vento gli fa ballare i riccioli. Carpenovic si volge all’amico:
– Rimani qui, Marcello.
– Marino… Non vedi quanto sangue? Deve avermi preso a un’arteria
– Macché…
– Marino… Muoio.
– Resta qui. Prendi questa.
Carpenovic appoggia il “Coerenza” al muro, gli lascia la pistola e si defila, allontanandosi verso il lato del cantiere peggio illuminato e più lontano dalla strada. Vuol fare il giro per raggiungere Di Giacomo e la macchina, ma non appena svolta dietro l’angolo di un ponteggio si ritrova faccia a faccia con Gipo, che subito gli sferra un pugno. Cominciano a picchiarsi duramente. I pugni del bidello sono disordinati e portati male, ma pesano come macigni e colpiscono varie volte il viso del fascista. Il naso sembra rotto, il brigatista ha quaranta chili in più dalla sua, ma Gipo non demorde.
Radovan è di fronte al gambizzato. Appoggiato alla cisterna, seduto in una pozza di sangue, Marcellino Pecci vorrebbe sparare ma gli trema il braccio, non riesce neanche a sollevare l’arma. Freddarlo sarebbe quasi un gesto di pietà. Radovan punta la pistola e lo guarda, ma adesso il braccio trema anche a lui. Marcellino forse vorrebbe dire qualcosa, ma non emette che un rantolo, e muore, senza bisogno di un altro colpo.
Mentre Gipo e Carpenovic rotolano a terra tra briciole di mattoni e cumuli di sabbia senza smettere di picchiarsi, Virginia si sposta da una parte all’altra della strada cercando di trovare un punto ben coperto. Mentre tende i muscoli, mentre ripassa con la mente tutte le potenzialità del suo corpo allenato, sentendosi suo malgrado a suo agio, le trapassa le tempie il pensiero di star perdendo Francesco, di averlo già perso.
Carpenovic incassa come un sacco da pugile e mena come una palla da demolizione; Gipo lo colpisce ancora due volte ma quello gli blocca il braccio e risponde con un pugno sulla tempia che quasi lo fa svenire. Un taglio sul sopracciglio inizia a sanguinare. Carpenovic si piazza sopra Gipo e con un’espressione cupa inizia a strangolarlo. Gipo diventa cianotico; raccoglie le energie e stringe un dito, un dito solo, all’avversario. Glielo torce all’indietro. Lo spezza. Il brigatista molla la presa per l’attimo che serve a Gipo per alzarsi e fuggire. Ha la faccia distrutta, perde sangue dal naso e dal sopracciglio, lo sterno e i fianchi gli fanno male. Deve scappare: ad armi pari, l’energumeno è più forte.
– Scappi, uccellino?
Un istante ghiacciato, fermo, impossibile, e nella mente di Gipo compare un’immagine: è seduto sulla spiaggia libera di Fano, ha un secchiello, un cappellino blu e un costume rosso. Ha i riccioli biondi. Non ha più di quattro anni. La mamma lo chiama. Un’immagine che fa incomprensibilmente più male del dolore al petto, al collo, al viso. Gipo corre, col brigatista dietro, rosso in viso; corre finché, sfinito, entra nel portone di un palazzone in costruzione e comincia a salire le scale. Per un attimo c’è silenzio.
– E ora dove vai? Eh!? Dimmelo, dai, che voglio ridere!
Gipo, senza alcuna idea, con solo il suo coltello in tasca, arranca su per le scale. Carpenovic lo segue senza troppa fretta, un po’ perché è stanco morto; un po’ perché alla fine della scala Gipo sarà comunque chiuso, a meno che non gli spuntino le ali.
– Uccellino! Che fai? Ti costruisci il nido?
Uccellino… L’uccellino della mamma… Eri l’uccellino della mamma, Gipo. Ecco perché fa male quella cartolina piena di sole che ti si è stampata in testa. L’aria sapeva di sale. A pranzo si mangiava insalata di riso, tutti insieme. L’inizio di tutto questo era più lontano della Jugoslavia:
– Ci si arriva a nuoto, papà?
– Eh… È dura…
Eri molti chilometri prima.
Virginia raggiunge Francesco. Ansima, si piega un po’ in avanti con le mani sui fianchi. Poi sussurra:
– Come va?
– Sono vivo.
– Gipo?
– Non so.
Si spostano con circospezione, fino a fermarsi dietro l’angolo di un palazzo abbandonato.
– Ce ne sono ancora tre!
– No. Due.
Francesco guarda gli occhi di Virginia, privi di espressione mentre pronuncia quelle due parole, e qualsiasi domanda gli muore in gola.
Il bidello è con Gipo, credo. Dov’è quel pazzo che guidava?
Forse è scappato?
– Forse…
Davanti a loro, nell’oscurità, il rumore di accensione di una macchina.
– Ci viene addosso, Fra’.
I fari si accendono, a qualche decina di metri di distanza. Subito la 125 sgomma e parte in picchiata verso di loro.
– Saltiamo di qua!
– No! Resta fermo lì fin quando non te lo dico io, poi salta in alto.
– Ci schiaccia.
– Non qui. Andrebbe contro il muro.
La 125 sfreccia veloce, dritta. Ma Virginia e Francesco non si muovono.
– Salta quando te lo dico io. Dovrà frenare.
E infatti, a dieci metri dal muro, di Giacomo frena.
– Ora.
Virginia e Radovan saltano. La 125 si sposta un po’ di fianco e si schianta contro il muro del palazzo. Quando il fumo del radiatore si dirada, Virginia è in piedi sul cofano; Francesco, a lato, si rialza da terra illeso; Guido Di Giacomo è ancora al suo posto, ma sembra aver perso i sensi.
Radovan estrae la sua vecchia chiave inglese dall’eskimo e si avvicina.
– Attento, Fra’ – grida Virginia.
Di Giacomo estrae la pistola da sotto il cruscotto e prova a mettere la testa fuori dalla macchina per sparare, ma Radovan è più svelto: si avventa sulla portiera e la colpisce con un calcio. Lo schianto sulla faccia è fortissimo. Di Giacomo ha un taglio sulla tempia, gli occhi sono velati:
– Vaffanculo, siete tutti morti. Non riuscirete a fermare la bomba.
Radovan lo colpisce alla testa una, due, tre volte, con la chiave inglese, sempre più forte.
– Basta, Fra’. Andiamo!
– Sarà morto?
– Dai, Andiamo.
– Sì, Virginia, si. Vediamo di trovare Gipo.
In quella, li spaventa uno schianto impressionante, che non è solo di metallo. Si voltano e sul tetto della macchina è piombato dal cielo Carpenovic, con un coltello conficcato in mezzo alla pancia. I due alzano lo sguardo. C’è Gipo, sei piani più in alto, sull’orlo del tetto. Li saluta con la mano.
III
Il capocolonna avvolge la cassa dell’ordigno in delle coperte, meticolosamente. Pino Fazzi lo guarda in silenzio, suda freddo, controlla l’ora. Tutto quel rigore, quella freddezza, quell’assenza di pietà cominciano a spaventarlo e a nausearlo. Non si sente più all’altezza della situazione, ma sa che un tentativo di chiamarsi fuori sarebbe punito con la morte. Se non da parte di Bartolozzi, da parte di quell’altro. Il capo lo fulmina a intervalli con occhiate di ghiaccio.
– Tutto a posto. Hai avvertito il professore?
– Perché?
– Il gran capo deve sapere come stanno andando le cose, e il contatto è lui. Digli di riferire che ci siamo sbarazzati del problema. Muoviti che partiamo.
– E se non ce la facessero?
Pino, è tutto sotto controllo. A quest’ora quei tre sono già stati sistemati.
Quei tre, invece, hanno appena lasciato il massacro del cantiere, dopo che Virginia e Gipo avevano raccolto tutte le armi che potevano e Radovan aveva recuperato per prudenza la targa e il libretto di circolazione dalla Due Cavalli distrutta. Tornano a casa di corsa, si ripuliscono, si cambiano gli abiti strappati e imbrattati di sangue, mettono le pistole in una valigia e raggiungono la stazione di Bologna.
È notte fonda, ormai. L’ultimo treno, l’Espresso dal Sud, arriva dopo un’ora di attesa insopportabile. Nei vagoni le luci sono fioche. In molti scompartimenti le tende sono tirate per non lasciar vedere chi dorme, sprofondato nei sedili abbassati.
Gipo esamina i diversi segni che ha sul viso specchiandosi sul vetro di uno dei finestrini del corridoio. L’adrenalina lo rende tranquillo, e si lascia anche distrarre da una biondona, la nuca lasciata scoperta dai capelli raccolti a crocchia, che attraversa i binari e raggiunge veloce il treno, per salire dal vagone di testa. È vestita con pantaloni militari, t-shirt e occhiali scuri e porta un grosso borsone sportivo con grande disinvoltura, come fosse pieno d’aria. Guardandole il culo dritto, Gipo pensa a chissà quali soddisfazioni potrebbe regalare una notte con una così. Radovan è teso, fuma, si guarda intorno, sbuffa. Virginia mantiene la calma:
– Cerchiamo uno scompartimento vuoto e chiudiamoci dentro.
La carrozza 6 sembra la più adatta: è a metà treno, il che consente maggiori possibilità di fuga; inoltre ha vare cabine vuote. Ne scelgono una, centrale, di fronte a un seggiolino che penzola, la molla rotta. Il primo a prendere posto è Francesco, accanto al finestrino. Virginia suggerisce a Gipo di occupare i due posti accanto all’entrata. Si sistemano.
Quando il treno si muove, Radovan si stringe nell’eskimo, chiedendosi come finirà, a Torino. Nessuno parla, mentre superano due stazioni di provincia dove il treno neanche si ferma. Dopo un po’, Francesco si scuote, prende le mani di Virginia, di nuovo cerca le parole per chiederle chi sia in realtà e come possa saper fare certe cose. Virginia abbassa gli occhi: vorrebbe saper trovare le parole per raccontare a Francesco da dove vengono i suoi anfibi logori, per dirgli che suo padre le tagliò personalmente il cordone ombelicale con un pugnale da commando… Vorrebbe trovare le parole per raccontargli di come fosse la vita nel kibbutz in mezzo ai soldati, la vita del soldato, e di quella volta in cui, dopo aver preso di striscio un guerrigliero palestinese, corse verso di lui per finirlo, rimproverandosi ad alta voce per aver sbagliato il colpo… Vorrebbe – ma come? – trovare la forza di raccontare l’esecuzione del padre, la fuga, la vita assurda nelle campagne emiliane, la solitudine, le manie della madre e le sue urla di terrore nella notte per il minimo rumore, il minimo fruscio, il silenzio…
Non è possibile per Virginia dire niente di tutto questo. Le costa uno sforzo enorme il solo sussurrare di un poligono di tiro nel fienile, di battute di caccia con i vecchi del paese. Francesco continua a fumare con una mano, a stringere la mano di lei con l’altra, a scuotere la testa.
Quando cade nuovamente il silenzio, Virginia si stacca da lui, si alza, si siede di nuovo, come se non si sentisse al sicuro. Guarda fuori dai finestrini del treno. Si sente osservata.
I cartelli autostradali passano veloci, illuminati per una frazione di secondo dal furgone. Fazzi non riesce a trattenere l’agitazione:
– Non lo so, saranno anche dei ragazzini ma bisogna fare attenzione a tutto.
– Ti ho detto che non c’è problema, filosofino. Una cosa era quello sbarbato di Finson e la sua morosa, un’altra sono Silvano e gli altri.
– E se ce li troviamo davanti?
– Vedremo se riescono a fermare la nostra sorpresa, quei tre deficienti.
Il furgone macina chilometri a velocità costante. Incrocia una pattuglia della polizia. Fazzi continua a toccarsi con insistenza il volto affilato, con la mano si sfrega la barbetta. In questo piano ci sono ormai troppe variabili impazzite, riflette, cercando di scacciare il pensiero che gli imprevisti dipendono in larga misura dai suoi errori. Il “filosofino” ha dentro il presentimento che le cose per lui andranno male. Ma è in balia degli eventi.
Ancora qualche chilometro di autostrada. Ancora un autogrill deserto e le luci degli svincoli che si riflettono sui vetri. Una pioggia sottile e lenta dà il benvenuto ai brigatisti a Torino.
Due ore prima. Augusto Bruni è rimasto in ufficio. Il rettile è un uomo molto stimato e ha molte conoscenze negli apparati dello Stato. La famiglia di sua moglie include due generali; lui stesso, tra avvocatura, loggia, cattedra in Diritto Internazionale e collaborazioni varie ha molti amici nei servizi, e altrettanti in divisa. Non ascolta più lirica, oggi: è sintonizzato sulla radio. Aspetta notizie. Qualche ora prima hanno detto che c’è stato un morto ammazzato in via della Torretta. Spera che il cadavere fosse quello di Francesco Guarnieri, ma in qualche modo sa già che le cose si stanno mettendo male, forse parecchio male: per sicurezza ha chiesto al vicequestore, amico fraterno, di avvertirlo se quella sera, a Bologna, fosse successo qualcosa di strano. E qualcosa di strano è successo. Si parla di sparatorie, morti ammazzati in giro per la città, morti con nomi che Bruni conosce bene.
Il Magnifico Rettore prende in mano la cornetta. Non avrebbe mai voluto essere costretto a comporre quel numero. Rimette giù la cornetta, di nuovo la alza; davvero non vorrebbe farla, quella telefonata. Si appoggia alla scrivania del suo ufficio, si alza in piedi, osserva fuori dalla finestra gruppetti di studenti che affollano il centro.
– Ragazzetti insulsi, – mormora, poi finalmente si siede e compone il numero. La risposta arriva all’istante, senza neanche uno squillo:
– Pronto.
Pronto… Signor Morodina? Sono Bruni.
La voce è un soffio, quasi non si sente.
– Si.
– C’è un problema.
– Si?
– Si tratta di tre ragazzi che hanno scoperto il piano. Sono più abili di quello che immaginavamo. Siamo intervenuti ma senza risultati. Abbiamo perso alcuni dei nostri. Per quello che ne sappiamo, sono a piedi, probabilmente cercheranno di prendere il treno per Torino di stanotte…
Gli si spezza la voce. Cala un silenzio spaventoso. Dall’altro capo della linea, non giunge nemmeno il più tenue respiro. Poi, improvvisamente, come se la voce fosse al fianco del Rettore:
– Ha preso iniziative?
– Ho… Ho detto ai nostri di portare il pacco da lei. Sono in due.
– In due?
Bruni balbetta i dettagli sulle ultime, pessime novità. Dice di Radovan, di Virginia, del fascista, della loro scoperta, della loro visita, dei cinque cadaveri trovati dalla polizia. A un tratto, la linea cade. Bruni si lascia crollare sulla sedia. Resta immobile, il cuore che batte forte.
Vladimir Morodina estrae una scatola di medicinali priva di etichette, si infila in bocca due pasticche e compone un numero:
– Hello?
– Ho un lavoro.
– Per quando?
– Adesso.
– Ho delle cose da terminare qui a Firenze.
– Ti faccio mandare un elicottero da Camp Darby. Ascolta… – Morodina descrive brevemente i tre ragazzi e comunica il luogo dell’azione. Poi: – Ma prima assicurati di Bruni. E divertiti.
Morodina sorride, attende qualche secondo, e riattacca.
Due ore dopo, il Rettore è ancora seduto nella sua poltrona, ma non ascolta più i giornali radio. Ormai sa come stanno le cose. Dallo stereo escono le note della Turandot di Puccini, e lui guarda fisso davanti a sé. I “sì” di Morodina gli risuonano continuamente nel pensiero. Augusto Bruni valuta, spera e ripensa, infine si addormenta.
La finestra è socchiusa. “Quasi un’offesa alle mie capacità,” pensa Julie. Sbircia all’interno e vede Bruni addormentato sulla poltrona, la testa appoggiata allo schienale. Balza dentro silenziosamente, mentre gli araldi annunciano “Questa notte nessun dorma…”. Si avvicina alla scrivania, valuta il fermacarte di onice e la bava che cola dalla bocca di Bruni. Posa il borsone; si toglie rapidamente i pantaloni militari e il giubbotto da aviatore, resta in mutandine e t–shirt. Estrae una gonna e un paio di scarpe con i tacchi dalla borsa, si veste. Guarda il dormiente con disprezzo, poi gli si approssima al viso, fin quasi a toccarlo. Quando Bruni sente un soffio caldo sulla faccia, si sveglia di soprassalto e si ritrova quella di Julie davanti. Occhi celesti. Capelli biondi raccolti in una crocchia, e uno spruzzo di lentiggini sul viso. Un’espressione dura, appena attenuata da un sorriso a mezza bocca. Bruni si spinge all’indietro:
– Chi è lei? Che ci fa qui?
– Buonasera, professor Bruni.
– Se ne vada o chiamo la polizia!
Julie sorride. Poi sferra un calcio in faccia all’uomo, con il tacco.
– Le piacciono le mie gambe, professore?
– Vattene via! – grida Bruni in preda al panico, gli occhi sbarrati su quella faccia inespressiva che lo fissa a sua volta. Julie scatta in avanti e gli sferra un calcio nei testicoli. Quello si piega, quasi cade dalla sedia, riesce a reggersi a stento con le mani alla scrivania.
– Ma che cafone. Le ho chiesto solo se le piacevano le mie gambe.
– Chi sei? Che vuoi?
Julie afferra il fermacarte e lo sbatte sulla mano destra del rettore. L’urlo di dolore viene smorzato da un altro colpo di fermacarte, sui denti, che lo stordisce. Julie lo fissa, gira la sedia e lo afferra per il collo. Il viso del rettore si contrae.
– Lei ha commesso un errore, professore.
– Non ho fatto niente! Ho telefonato, ho fatto come mi aveva detto! Posso… Posso mobilitare altre risorse, la polizia…
Julie lascia la testa del Rettore e gira nuovamente la sedia, in modo da averlo di fronte:
– Io di solito non mi vesto così, sa?
– Ma cosa sta dicendo?
– Se l’ho fatto è perché so che le piacciono le donne. L’ho fatto per lei.
– La prego…
– Le guardi bene, professore. Le guardi.
Julie avvicina la gamba destra alla faccia ansimante del rettore, gliela struscia sul viso, quindi lo scavalca, in modo da stringergli il collo tra le cosce.
E poi ruota su se stessa di mezzo giro. Si sente un rumore simile a quello di un grosso ramo che si spezza. Dallo stereo, il principe Calaf proclama la sua vittoria. Julie alza un po’ il volume, dà un’ultima occhiata alla stanza. Si cambia rapida ed esce da dov’è entrata, solo tre minuti prima, mentre scrosciano gli applausi del pubblico.
Il treno corre. All’interno, lo scompartimento, come se non avesse niente a che fare con la velocità del treno, è immobile. Lo sguardo di Gipo è bloccato sulla targhetta metallica dei divieti: “È vietato sporgersi dal finestrino… È vietato fumare a bordo… È vietato uccidere le persone…” Le pupille fisse di Radovan scorrono, rimbalzano quasi sulla sterpaglia della bassa piemontese, una sterpaglia che si intravede nel buio della notte e non dice niente, scorre, senza un solo significato evidente. Gli occhi di Virginia sono puntati sui solchi delle sue stesse mani, mentre cerca di ricordarsi se le linee si leggono sul palmo destro o su quello sinistro.
– Vado a pisciare, – si scuote Gipo. Ed esce, appena barcollante, lungo il corridoio del treno. La sua uscita risucchia l’aria. Francesco e Virginia restano bloccati sui loro respiri, senza che nessuno sappia dire nulla. Fin quando, con uno sforzo improbo, Radovan stacca gli occhi dal finestrino e chiede, con voce bassissima e trattenuta:
– Come stai?
– Vado al bagno anch’io. Ho bisogno d’aria. – risponde lei. Ed esce a sua volta, infilando la direzione opposta di quella imboccata da Gipo. Quando si chiude la porta, Francesco resta solo. Ma non solo come uno che sia semplicemente solo in uno scompartimento da sei. Molto di più. Come un faraone cui prima dell’imbalsamazione sfilano via tutti gli organi, compreso il cervello, facendolo scivolare fuori dalle narici; come un soldato che, tornando dalla guerra, non trova più la strada di casa, e si perde nel bosco, senza una galletta, senza alcun conforto. Con uno scatto del pensiero, pensa alla sua Virginia. All’ultima volta che erano insieme, tranquilli, felici. Ma Virginia, lo vede ora chiaramente, non era mai stata veramente felice. Schiacciato dall’angoscia, cerca di smettere di pensare.
Virginia passa furtiva da un vagone all’altro. Cerca di non dare nell’occhio. Guarda il viso di tutti quelli che incrocia, cerca di memorizzarli e fa dei brevi passaggi nella memoria per ricordare un eventuale incontro precedente. Non vuole lasciare nulla al caso: una persona già vista potrebbe essere un potenziale nemico che la sta pedinando. Il corridoi sono tutti deserti; il treno dorme. L’aria è ferma, soffocante. Virginia va avanti di un altro vagone, in un corridoio che puzza di rancido e che sta immaginando come un budello di carne rappresa, come un sacco marcio da cui non si verrà mai fuori. Il treno viene ingoiato da una galleria.
Julie, sola nel suo scompartimento, alza lo sguardo per un movimento alle sue spalle e vede Virginia che passa. Sola. Nel suo vagone. Un fuori programma. Julie la spia alle spalle, la vede entrare nel bagno. Virginia apre schiaccia la leva dell’acqua sul pavimento e si guarda nello specchio opaco e male illuminato. Incrociano un altro treno; guarda i lampi dei vagoni passare veloci dal finestrino leggermente aperto nella parte superiore.
Julie apre il suo borsone e la vista di tutte le sue amiche la mette, come sempre, in imbarazzo; decidere che arma usare per fare un lavoro è sempre un impegno. La scelta ricade su qualcosa di poco vistoso: lo spazio è angusto e non è il caso di far rumore. Un coltello da pescatore, sottile, affilatissimo, buono per le cravatte colombiane e i lavori di precisione. Julie esce nel corridoio e si mette di fronte alla porta del bagno per aspettare la sua vittima. Quando la porta si apre, Virginia si trova di fronte a una donna dallo sguardo inespressivo. Quanto basta per metterla in allarme:
– Il bagno è libero, può entrare.
Julie non risponde. La tensione tra le due cresce. Julie se ne sta lì appoggiata alla parete del vagone con la mano dietro la schiena e Virginia ne controlla ogni movimento. Julie sorride col lato destro della bocca:
– Le è caduto qualcosa…
Virginia non abbassa lo sguardo, sostiene quello vuoto della donna che ha di fronte.
– Ce l’ha con me?
– No, miss: le è caduto qualcosa.
– Si sbaglia.
– Ne è proprio sicura? Guardi bene. Secondo me ha perso tutto, sa?
– Chi sei?
Julie si scosta dalla parete e in un attimo la lama raggiunge la faccia di Virginia che riesce a spostarsi il tanto che basta per non ritrovarsi la giugulare recisa. Virginia cerca di rispondere all’attacco con un calcio ma Julie è lesta a bloccarle la gamba e a conficcarle il coltello in mezzo alla coscia. Il sangue inizia a sgorgare, Virginia si morde il labbro per non gridare e in un solo movimento riesce a divincolarsi buttandosi indietro e sferrando un calcio nell’addome all’avversaria. La donna attacca di nuovo, con immediatezza da macchina. Solo la memoria del corpo salva Virginia da una nuova coltellata. Sposta la testa di lato e, prendendo di sorpresa la bionda, con una mano blocca il braccio teso e con l’altra le affonda un pugno nello stomaco. Quella però non pare risentirne troppo e si divincola con facilità. Virginia capisce che questa volta non ha di fronte una ragazzina come a Bologna. Deve attaccare col massimo della ferocia, o morirà. E attacca: porta un buon calcio, nonostante la ferita alla coscia, ma Julie si sposta come un torero, e al passaggio la prende per il collo e lo stringe nella morsa del gomito. Virginia si aspetta un colpo da sotto, con il ginocchio. E invece Julie affonda i denti sulla nuca di Virginia e stringe, fin quando i capelli della ragazza non si tingono di rosso. Non dura molto. Julie la spinge lontano e sputa un pezzo di carne. Un pezzo della sua nuca. Ride, i denti sporchi di sangue. Virginia pensa sta per morire. Ma ciò che la terrorizza, è che la sua assassina sembra divertirsi un mondo. Con la forza della disperazione, attacca di nuovo.
Gipo, sbadigliando e stiracchiandosi, torna allo scompartimento. Non entra, rimane davanti alla porta chiusa. Gli occhi di Francesco sono tornati a correre sulla vegetazione.
– Tutto a posto? – dice forte Gipo. Ma alle orecchie di Francesco arriva una voce ovattata, lontana. Alla quale comunque non ha voglia di rispondere. Gipo fa un gesto col mento verso il posto dov’era seduta Virginia, come a dire: “dov’è?”
– In bagno.
Gipo si siede sullo strapuntino e allunga le gambe verso il vetro. E con i piedi bussa, senza forza. Il treno va.
– Ma quanto ci mette la tua fidanzatina a tornare dal cesso?
– Bada a come parli.
Gipo guarda Radovan ridendo:
– Le donne appena si mettono calme vanno sempre al cesso, è matematico.
– Cerca di riposare un po’, che hai la faccia maciullata.
– Maciullata un cazzo! Il tipo che è volato giù, quello sì che è maciullato!
Radovan cambia discorso:
– In effetti Virginia ci sta mettendo una vita, io vado a dare un occhiata. Chiuditi dentro e non muoverti.
– Sì, papà, chiudo tutto per benino… Ma va a là, Comandante! Non ho paura, io.
– Fa’ come ti pare, io vado a cercarla.
Un colpo ce la fa ad assestarlo, Virginia. Due anni nei corpi speciali israeliani più due di corso, anni di krav maga, di approfondimenti in karate kyokushin, sambo, savate, chakuriki, non sono passati inutilmente: un colpo tra il collo e la mascella della bionda, un calcio preciso, violento. Ma l’avversaria si rimette a ridere. Sputa ancora qualcosa. Due denti. Poi, come se niente fosse, scatta in avanti e colpisce Virginia sulla fronte, con il tacco dello stivale. Sangue, a fiotti. Julie sferra una coltellata, mira agli occhi. Virginia, per quanto accecata dal sangue, riesce a bloccarle il braccio. Una presa buona, da una posizione vantaggiosa: Virginia tira l’avversaria verso di sé, piegandole il braccio e costringendola a girarsi. Le ginocchia di Virginia si piegano leggermente per sottomettere il nemico. Julie perde l’equilibrio. Sta per essere messa sotto! Il treno lascia la galleria, il frastuono diminuisce. Julie ripassa in una frazione di secondo l’immagine di quel bagno. Rilassa del tutto il suo corpo e si spinge all’indietro, precisa per far sbattere la testa di Virginia sul lavandino. Sente il braccio libero dalla morsa. Si rialza e si gira di scatto per difendersi da un eventuale attacco della ragazza, ma la vede distesa, le spalle appoggiate al muro del bagno e la testa piegata in avanti. Posa il coltello a terra e si piega su di lei. Le accarezza il collo con il dorso dell’indice. Scende sulla gola. Le sfiora il seno. Virginia lo sa. Sta per perdere i sensi, ma ha prima la forza di dire una parola:
– Francesco…
Con uno scatto violento, Julie stringe con le mani i seni di Virginia. Fortissimo. Lei urla, strilla. Ma non ha la forza per fare altro. Julie molla la presa. Raccoglie il coltello e sferza, a un millimetro dalla tempia. È un gioco di precisione. L’orecchio destro di Virginia è a terra.
– Miss… L’avevo detto io, che le era caduto qualcosa.
Julie raccoglie l’orecchio, si alza, si avvicina al finestrino.
– Non si preoccupi troppo. Sono sicura che potrà farne a meno. – E lo lascia cadere fuori dal finestrino.
Il rumore, nel corridoio, è alto a causa dei finestrini aperti. L’aria fresca dà una sveglia a Francesco che passa veloce, vagone dopo vagone, la chiave inglese in tasca, la mano stretta sull’impugnatura, in cerca di Virginia. Radovan è nel primo vagone, gira l’angolo per aprire la porta dell’ultimo bagno del treno. Trova la porta aperta, vede delle gambe che sbucano. Riconosce i pantaloni, gli anfibi.
Julie lo colpisce con un calcio al plesso solare, senza tanti complimenti. Francesco va a sbattere con la schiena sulla parete. Virginia geme di nuovo il suo nome. Radovan si riscuote e si lancia sulla nemica. Julie fissa gli occhi di Radovan che le sta venendo addosso, e apre la gola di Virginia da parte a parte.
Lo sfizio le costa l’attimo. Radovan, schiumante di rabbia, la centra con un calcio. Si è svegliata una belva, davvero ora vuole solo una cosa: uccidere. Julie lo accoltella al braccio sinistro ma Radovan neanche se ne accorge e la colpisce in faccia con la chiave inglese. Poi insiste con un colpo dall’alto, col manico, e Julie resta stordita da tanta furia. Cerca di divincolarsi ma il bagno non dà vie d’uscita. Radovan continua a picchiare e picchiare e picchiare senza cognizione. Julie non riesce a liberarsi, non si capacita del perché del suo fallimento. Ha ucciso suo padre da bambina perché la violentava, ha combattuto nella giungla, è stata addestrata alla School of Americas, ha ucciso centinaia di soldati prima e guerriglieri poi, ma ora non riesce a liberarsi. Radovan ignora tutto, vede solo la faccia della donna che ha ucciso Virginia e continua a colpirla.
Quando Gipo, la pistola in pugno, gli batte sulla spalla e Radovan si ferma e si volta, la sua faccia è sfigurata dalla rabbia, dal dolore e dalle lacrime. Gipo vede il corpo straziato di Virginia, le mani lorde di sangue di Francesco e la faccia di Julie, fracassata a colpi di chiave inglese.
Basta un attimo. Un lampo attraversa quella faccia macellata: Julie afferra il coltello da terra, la posizione è perfetta per tagliare la gola anche a Radovan. Gipo spara. L’assassina finalmente si accascia.
Gipo e Radovan si guardano.
– Comandante, mi dispiace, non doveva finire così.
– Non è finita, non è finito un cazzo, li ammazzo tutti quei bastardi, li ammazzo tutti!
– Radovan, io sto con te, ma ora calmati, dobbiamo dare una sistemata qua, se qualcuno trova i corpi siamo isolano il treno e siamo fottuti. Siamo già abbastanza fortunati che è mezzo vuoto e i pochi che ci sono dormono. Dobbiamo buttare i corpi giù dal treno. Radovan lo guarda in silenzio.
– Sì, Radovan. Anche Virginia.
Radovan si china sopra di lei. La abbraccia, la bacia, scoppia a piangere. Il treno continua a correre.
[Continua lunedì prossimo]
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