Picchia tua moglie. Lei non sa perché, ma tu sì – seconda parte
Maggio 18, 2012 5 commenti
[Qui la prima parte del racconto]
IV
Il rumore dello sfondarsi di una porta di legno sembra un suono compatto, ma non lo è. Innanzitutto c’è l’impatto del corpo dello sfondatore contro la porta. Può essere l’incidere acuto di un ariete di metallo, il tonfo sordo della spalla, il colpo vivido e profondo dello scarpone. Poi, se si presta attenzione, si sente lo scricchiolio del legno che si rompe, il cedere di alcune fibre e il soffio della laccatura che si polverizza. Poi c’è il rumore dei cardini, con le viti che si allentano nel muro e stridono quasi silenziose nel metallo del cardine stesso. Poi c’è la serratura che frantuma il telaio ed esplode fuori dai propri spazi. Poi, solo per un orecchio fino, c’è il battito della maniglia che si muove scomposta e tintinna. Poi c’è lo sbattere della porta sfondata a terra o contro un altro muro. E infine c’è il rumore a coppia dell’eccitazione di chi entra e della paura di chi subisce l’irruzione, quello che si materializza nei battiti cardiaci e nel ritmo dei respiri, ma che è anche molto di più e suona nell’aria come l’odore dell’antilope per il leone.
Marina, dal momento in cui la porta cedette, si sentiva come l’antilope. Le tornarono in mente i cani di un esperimento che aveva studiato durante gli anni di psicologia. Ricordò il volto gonfio del docente che raccontava di questi cani messi inizialmente in una gabbia elettrizzata dalla quale potevano scappare, poi questa possibilità di scappare gli era stata tolta, così i ricercatori avevano visto che, dopo qualche tentativo di fuga, gli animali si rassegnavano al proprio destino e si rannicchiavano in un angolo della gabbia. Gli sperimentatori avevano chiamato questo fenomeno Impotenza appresa.
Anche Marina si rannicchiò. Si strinse le ginocchia al petto e chiuse gli occhi più che poteva, fino a vedere delle specie di stelline e scie bianche invadere il buio. Con le mani giunte le tornò in mente una vecchia preghiera che le aveva insegnato sua nonna. Due compagne avevano alzato le braccia e urlato No violence, ma Marina pensò che forse non erano state attente a quello che era successo fuori, e rimase zitta. Sentì i primi colpi e le prime urla. Sentì le voci maschili robotizzate dal rimbombo nei caschi e il tremore del pavimento e della sua pancia sotto il passo pesante degli scarponi. Sentì uno spostamento d’aria e la forza di una mano grande e ruvida. Percepì tutta la possanza del corpo in tenuta antisommossa sopra il suo esile vestito da notte.
V
Ci sono dei giorni che mi innamoro. Questi giorni non sono diversi dagli altri, non è che mi sveglio e sento dei brontolii gastrointestinali che mi fanno anticipare quello che succederà, no, è solo che vado in giro e mi innamoro. Anche quella sera, per dire, ero partito dalla caserma con l’idea di andare a fare il mio lavoro. Ero stanco ed eccitato allo stesso tempo. Attenti che lì sono armati, avevano detto. Attenti che lì ci sono i black block, avevano avvertito. Arrestateli tutti e mandiamoli a Bolzaneto, che li sistemano loro, avevano detto.
Quella sera l’idea di innamorarmi era lontana anni luce. Sei lì in mezzo al sangue. Picchi le persone. Sfondi porte, senti urlare. Tutto mi sarei aspettato, fuorché di innamorarmi. E poi ancora oggi mi chiedo: come cazzo ho fatto a innamorarmi con indosso il casco? Perché dietro la visiera non è che vedi bene, non è che entri in contatto con quello che ti succede. È come essere in un acquario, nel quale i rumori, la luce, tutto ti arriva ovattato e distorto. Eppure è successo. Ci mancava poco alla fine del lavoro e con altri due colleghi stavamo aprendo le stanze chiuse al primo piano. Dentro una stanza c’erano cinque ragazze. Alcune si misero a gridare, come se non avessero capito che non c’era proprio niente da gridare, mentre una rimase immobile, raggomitolata su se stessa dentro il bozzo del sacco a pelo. Cosa cazzo pensi di fare?, avevo pensato. Senza esitare la presi per i capelli, me ne rimase in mano una ciocca. Poi le girai la testa. Adesso vedi, avevo pensato, e poi non sai cosa ti aspetta dopo, carina. Ma nel pensare queste parole il cuore mi si strozzò in gola e mi venne da tossire per la saliva di traverso. I lineamenti morbidi come piacciono a me. Gli occhi grandi come piacciono a me. Le labbra giuste come piacciono a me. Il seno né piccolo né grande, come piace a me. Era perfetta. Come da copione continuai a picchiarla, in fin dei conti ero al lavoro, ma se avessi potuto l’avrei portata via.
La mia immaginazione iniziò a vagare e vidi la nostra casa futura. Vidi i litigi per decidere se sposarci in comune o in chiesa, che finivano con noi che facevamo l’amore, intanto le schiacciavo la faccia sotto lo scarpone. La vidi vestita di un abito bianco e la vidi sorridere, tagliata da un raggio di luce, mentre diceva sì, lo voglio, intanto con la mano sinistra le tenevo i capelli tirati e con la destra le manganellavo la schiena e la sentivo piangere. La vidi dirmi, ti prego Luca, cambia lavoro, non voglio più che fai quelle cose lì, intanto l’avevo girata e le avevo messo il piede sullo sterno, avevo sentito il rumore delle costole rotte. La vidi dirmi che era incinta e la vidi abbracciarmi e piangere dalla felicità, intanto le avevo dato altri colpi alla testa, che avevano aperto un varco, mentre in volto era bagnata dello sputo di un collega. La vidi lievitare mese per mese e vidi il suo tatuaggio sul fianco, una fata azzurra e gialla, che si dilatava, intanto quella fata l’avevo fatta diventare viola livida e con il gomito le avevo schiacciato la faccia sul cuscino. La vidi uscire dalla sala parto, distrutta sudata e sorridente e dirmi, papà, ti presento Carlo, intanto la alzai da terra e la buttai in un angolo. La vidi spiegargli cosa è il bene e cosa è il male, intanto la rialzai da terra e la buttai per due volte contro l’appendiabiti inchiodato al muro. La vidi dirmi che eravamo stati dei bravi genitori, il giorno della laurea in legge di Carlo, intanto la ripresi per i capelli e la trascinai fuori dalla stanza e lungo il corridoio, fino alle scale. La vidi dirmi di andare in pensione, che il lavoro non è tutto, che avremmo dovuto goderci la vecchiaia assieme, intanto la presi per i piedi e le feci fare le scale trascinandola, stando bene attento a farle colpire la testa a ogni gradino. La vidi nella nostra nuova casa al mare, seduta sotto la veranda ad ammirare l’orizzonte, intanto guardavo la saliva gialla addensata sulle sue guance e pensavo, ci sono quasi. La vidi preparare un pranzo di Natale per tutta la famiglia e piangere quando Carlo e Sara ci comunicarono che avrebbero avuto un bambino, intanto controllavo i suoi rantoli spasmodici e le bolle che le uscivano dalle labbra e i suoi bellissimi occhi fissi con le ciglia raggrumate di sangue. La vidi spegnersi in casa, con me e nostro figlio a tenerle le mani, intanto la lasciai lì, assieme ad altri corpi e uscii e dissi, c’è una ragazza, proprio qui all’ingresso, che ha bisogno di aiuto.
VI
Quando si svegliò dal coma, dopo una settimana, Marina rimase in ospedale per qualche mese, ma si riprese. Raccontò che l’ultima cosa che ricordava era di non riuscire a controllare gli spasimi agli arti. Raccontò che era uno, uno solo che l’aveva presa in custodia e che l’aveva anche buttata contro l’attaccapanni. Raccontò che le teneva la faccia schiacciata sul cuscino. Raccontò tutto e, appena possibile, tornò a casa dai genitori. Quando entrò in camera, guardando le fotografie appese alle pareti, il suo computer, il suo letto ben sistemato, scoppiò in un pianto prima isterico e poi dimesso, e si addormentò.
Alla prima udienza del processo si presentò accompagnata dal suo ragazzo che la teneva stretta e le sussurrava di non avere paura, che sarebbe andato tutto bene, poi, prima di andare al banco a parlare, lo baciò e gli sorrise.
VII
Ci sono dei giorni che mi innamoro. In quei giorni farei di tutto per il bene alla persona che ho di fronte, anche quasi ucciderla di botte. I giorni dopo l’intervento i colleghi mi davano le pacche sulle spalle, mi dicevano che non mi avevano mai visto così cavallo-pazzo come con quella zecca lì. Io gli rispondevo che mi aveva fatto girare i coglioni per come mi aveva guardato e che, comunque, se era lì se l’era meritato, poi gli chiedevo, ma alla fine non l’hanno portata a Bolzaneto, vero? E quando mi dicevano di no, tiravo un sospiro di sollievo. Poi chiedevo, ma sapete se s’è svegliata quella troietta? E loro mi rispondevano, sì, s’è svegliata, dicono si stia ripigliando, t’è andata bene, cavallo-pazzo, e io andavo in bagno e ridevo dalla felicità. E poi chiedevo, ma sapete quand’è l’udienza?, e loro mi rispondevano, è domani, cavallo-pazzo, ma non ci vorrai mica andare, vero?
Il giorno dell’udienza mi sedetti al bar fuori dal tribunale e aspettai il suo arrivo. Volevo dirle che ero innamorato di lei e che l’avevo picchiata tanto proprio per scamparle altre sofferenze. Volevo dirle che, mentre la picchiavo, pensavo al nostro futuro assieme, che sarebbe stato splendido. Volevo dirle della casa al mare e di nostro figlio Carlo. Poi però la vidi arrivare con un’altra zecca come lei e vidi il mio castello implodere in se stesso. La seguii con lo sguardo, mentre entrava per le grandi porte del tribunale. Non mi mossi dal bar. Finii il caffè e ne ordinai un altro. Quando passò il mio avvocato, circondato dai giornalisti, alzai il giornale per non farmi vedere, poi, tornata la calma, pagai e mi diressi verso casa. Camminando mi salì un po’ di malinconia per quell’altra vita che avevo immaginato e che non avrei mai vissuto, ma, come si fa con i ricordi più importanti, la riposi in un cassetto immaginario, ché tanto, pensai, mi capiterà altre volte, e magari, una mi andrà anche bene.
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Mi verrebbe da dire una cosa… cazzo, forte!
Grazie mille, alessandro.
A.
bello… intenso e soffocante allo stesso tempo. sei riuscito a combinare stati emotivi distanti e viscerali. bellobellobello
beh, grazie mille, elena.
Mi chiedevo se fosse possibile iniziare a fare narrazioni non documentaristiche – diciamo così -, ma proprio narrative su Genova 2001. Pare si possa.
A.