“Alba di piombo”, Scrittura Industriale Collettiva – ultima parte
Maggio 21, 2012 Lascia un commento
In vista della prossima uscita di In territorio nemico, aka “Grande Romanzo SIC”, continua la pubblicazione su Scrittori precari dei racconti scritti col metodo SIC, in una versione interamente revisionata e corretta. È oggi il turno della terza e ultima parte di Alba di piombo. Qui potete leggere la prima parte e Qui la seconda.
Versione scaricabile: Alba di piombo.
Alba di piombo (parte 3 di 3)
I
Gli ultimi chilometri sono sempre più carichi di tensione. Bartolozzi fuma le sue Nazionali, una dopo l’altra. L’abitacolo è saturo della nebbia delle sigarette, ma Bartolozzi non apre i finestrini. Dal canto suo, Fazzi non è quasi più in grado di parlare. È in preda a una crisi di panico; il sudore gli appanna gli occhiali. L’arrivo al casello lo solleva un po’:
– Meno male, è finita!
Il capo lo guarda torvo, mentre abbassa il finestrino per pagare il pedaggio:
– È appena cominciata, filosofino. Fra poco saremo alla fabbrica, e là ci saranno loro.
– Chiedo solo per sapere… Ma cos’è questa voce che Morodina… Vola?
– Chi te l’ha raccontato? Domeniconi, sicuramente. È l’unico che l’ha incontrato, oltre a me.
– Quindi è vero!
– E tu saresti un marxista. Laureato in filosofia, per di più. Ma schiavo delle suggestioni. Da quel che ne so, in Russia quello si occupava anche di illusionismo strategico. Creare scenari per ingannare i satelliti, aerei di cartongesso, mimetizzazioni di massa, finte basi, luci, specchi… Probabilmente si tratta di qualche trucco del genere.
– E invece, chi è quell’ingegnere, quello che innescherà l’ordigno?
– Non so molto. Si chiama Nikichenko. Un genio dell’elettronica, pare. Forse uno scienziato dei loro, caduto in disgrazia e sceso sotto terra…
Bartolozzi ripone metodicamente gli spiccioli del resto in un suo portamonete. Poi ingrana la marcia, e riparte.
– E… – esita Fazzi: – e quell’altro… La guardia del corpo?
– Epifan?
Bartolozzi frena bruscamente e accosta al lato dello svincolo, fermando il furgone subito dietro una BMW nera, davanti a cui sta in piedi un uomo alto, vestito in maniera elegante. Ha le braccia incrociate, e sta guardando il furgone. La bocca è serrata, gli occhi nascosti da occhiali scuri.
– Quello. Quello è Epifan.
– Cosa? – sbianca l’assistente in filosofia, – Ma non è…
– Fai silenzio, – lo interrompe Bartolozzi, più serio che mai.
Epifan si avvicina al furgone, e si affaccia al finestrino. A distanza ravvicinata, il suo viso sembra di cartapesta: la fronte e il mento sono un susseguirsi di increspature, rughe e piccole cicatrici da vaiolo.
– Il signor Morodina vi invita a fargli visita.
Bartolozzi è sconcertato:
– E la missione?
– I signori dovranno portare pazienza. Seguitemi.
In silenzio, Epifan torna alla BMW e parte, facendo strada al furgone.
Morodina, seduto nella sua lussuosa poltrona, guarda la stanza e poi abbassa gli occhi per controllare che il suo vestito sia pulito e ordinato. Ripensa a uno scontro avuto anni prima. Aveva dato appuntamento al suo superiore in un capannone poco fuori dal centro di Mosca. Ricorda ancora la fatica che fece per montare gli specchi. La faccia del colonnello Oblonskij restò del tutto impassibile davanti alle molteplici immagini di Morodina. In fondo era il suo pupillo e aveva ottime capacità. Ma sapeva che non l’aveva chiamato lì solo per farne sfoggio. L’avvicinarsi dell’azione fa aumentare l’adrenalina nel sangue del russo e il ricordo di quel giorno si fa sempre più vivo. Il rumore di qualcosa che scivola. La sua immagine immobile negli specchi. La voce del colonnello: – Cosa vuoi? Mi hai fatto venire fin qui per mostrarmi i tuoi giochetti? – Il vento che si sposta alle sue spalle. Il colonnello si gira e non vede niente e nessuno. Si gira nuovamente verso gli specchi e non vede più Morodina. Diventa inquieto. Estrae la rivoltella e la punta davanti a sé. Si gira intorno. Lo vede a destra. Punta e spara. Vetro in frantumi. Un colpo dietro la nuca lo sbilancia, non riesce a capire da dove venga. Gira intorno a sé e vede di nuovo la figura del suo uomo negli specchi. Barcolla. Il colpo è stato pesante. Sente la risata di Morodina echeggiare nel capannone. Sente che morirà. Di nuovo il vento che si sposta alle sue spalle. Non si gira. Pensa che sia un altro trucco. Ma si sbaglia. Due colpi di pistola gli trapassano le spalle. Cade in avanti e a faccia in giù. Cerca di girare la testa. Il traditore lo aiuta. Tiene la testa del colonnello tra le mani e la gira per farsi guardare bene in faccia. Pronuncia alcune parole di addio e gli spara in testa. I ricordi eccitano Morodina. Ha un tremito. Ingoia una delle sue pasticche e scende al piano di sotto, per rilassarsi.
Quando le porte del treno si aprono, la brezza dell’alba provoca un brivido a Radovan, che si passa la mano nei capelli e scende i tre gradini. Il suo sguardo punta il vuoto, con una decisione allucinata. Affronta il corridoio di persone lungo il binario con sgomento. Il passo è veloce; Gipo è dietro di lui, poi al suo fianco. Camminano a testa bassa. Non parlano. Devono innanzitutto allontanarsi dal treno; prendere un taxi, magari. Due poliziotti passano di corsa. Nonostante l’impulso, né Radovan né Gipo si voltano. Alle loro spalle cresce il trambusto. C’è troppa polizia per uscire dall’entrata principale, per attraversare i saloni, per cercare la stazione dei taxi. Un’occhiata veloce alla stazione e trovano un’uscita secondaria.
Torino è umida. L’aria è pesante e grigia come i suoi marciapiedi. Gipo segue silenzioso Radovan con le mani nelle tasche del giubbotto. Non sa cosa dire e si guarda attorno. Il passo di Radovan accelera, Gipo rimane un po’ indietro, chiedendosi se sia paura o voglia di finire la pratica al più presto. Si rende conto, Gipo, che parlare fa male anche a lui.
– Dove?
– Di qua.
Girano angoli, imboccano strade. Senza poter mai distogliere il pensiero dalla notte. Imboccano Corso Duca degli Abruzzi.
– La direzione è giusta?
– Sì.
– Prendiamo un taxi?
– È ancora presto.
Camminano. Gipo si sente la bocca come un taglio sul corpo. Passano davanti ad una fila di alberi, a una vetrina di un negozio di vestiti, al negozio di un elettrauto. Gipo si ferma; prende una boccata d’aria piena, trattiene il fiato.
– Gipo?
Gipo mormora qualcosa di incomprensibile.
– Cosa?
Gipo ha cambiato espressione. Si blocca. Mormora qualcosa in francese:
– Mon dieu…
– Gipo…
Gipo non riesce a camminare, a muoversi, come se le gambe gli si fossero seccate, come se l’ultimo pensiero si fosse infilato nei muscoli e lì avesse sciolto il suo siero.
– Dov’è che abbiamo sbagliato?
– Non lo so.
– Dov’è che abbiamo sbagliato!?
Gipo chiude gli occhi, li stringe.
– Gipo…
– Cos’è successo, Comandante? Dov’è che abbiamo perso la strada?
Francesco si avvicina, gli appoggia una mano sulla spalla. Abbassa la testa:
– Non l’abbiamo ancora persa, Gipo.
– Lei…
– Ti scongiuro. Non ora. – Radovan si contrae, stringe i denti, stringe la spalla di Gipo: – Dobbiamo andare.
– Lo so.
– Sei con me? Proviamo?
– Certo. Proviamoci.
Fazzi e Bartolozzi entrano nell’appartamento simulando tranquillità. Ma Fazzi, in particolare, non riesce ad arrestare un tremito, come di freddo.
Sotto una delle plafoniere fissate lungo l’intero perimetro del grande atrio, c’è un uomo in piedi su uno sgabello, con un cacciavite in mano.
– Lampadina, – dice, come rispondendo a una domanda che nessuno ha fatto.
Epifan lo guarda. L’uomo smette di svitare. Quindi spiega: – Fulminata.
Resta fermo, come aspettando l’assenso di Epifan per proseguire.
Si sente il rumore di un trapano, proveniente da una botola nel pavimento. Epifan sorride e si rivolge al tecnico.
– Vieni, Sasha. Aiutaci.
I quattro portano faticosamente la cassa fino all’ingresso dell’appartamento.
Da sotto, si sente ancora il lavorio del trapano. Il suono diventa sempre più acuto e stridente. Qualcosa gorgoglia. Epifan guarda i due con un ghigno mefistofelico. Lucio Bartolozzi è uno che non si è mai fatto intimidire. È incazzato ed è bene che si sappia. Si accende una sigaretta guardando lo sgherro negli occhi:
– Bè? Ci si può sedere?
L’appartamento di Morodina non ha divani. C’è solo una poltrona. E loro, su quella, non possono certo sedersi.
– In primo luogo, stia calmo, – risponde Epifan: – In secondo luogo, non sarà necessario che vi sediate. Il signore sarà qui a momenti.
Non gli piace l’aria che tira, a Bartolozzi; per niente. Nikichenko torna alla sua lampadina.
Passano alcuni minuti e Vladimir Morodina sbuca da una porte laterale. Indossa un completo bianco, immacolato. Se non fosse per una macchiolina di rosso sul fondo della manica.
Avanza. Si mette a fissare il lavoro del suo ingegnere.
– Lampadina, – fa quello. Quindi si volta verso Morodina:
– Fulminata.
Morodina non risponde, ma sposta lo sguardo su Bartolozzi.
– Benvenuti.
– Grazie.
Fazzi tace: è come ipnotizzato dal puntino rosso sulla manica di Morodina. Questi ne segue lo sguardo e si accorge, con una smorfia accennata di fastidio, della macchia. Poi guarda i due brigatisti con sdegno. Una assoluta mancanza di professionalità e controllo nelle situazioni difficili non è accettabile. Per un uomo preciso come lui, è difficile anche solo comprendere la possibilità degli errori. In anni di servizi segreti non ha mai avuto mancanze. Si è solo limitato a tradire il KGB per passare alla CIA per una più conveniente offerta di lavoro, e adesso tradirà entrambi: lui non è un patriota, è solo uno che non fa sbagli. Solo quando abbassa lo sguardo, Fazzi riesce ad aprir bocca:
– Grazie.
– E di cosa, signor…
– Fazzi. Pino.
– Di cosa mi ringrazia, signor Fazzi?
– Non vedevo l’ora di lasciarla.
– La cassa?
– Sì.
– Questo è grande momento, sì! – Esclama Morodina con voce improvvisamente possente: – Tutto questo è esaltante! Sono lieto di aver avuto occasione di collaborare con voi. Certamente, però, – la voce torna bassa – fino a oggi ci sono stati troppi errori.
Fazzi avverte la tensione nell’aria. È terrorizzato. Bartolozzi dal canto suo non si fa prendere dal panico e cerca di mettere insieme qualche frase di giustificazione. Morodina sembra divertito. Guarda Epifan e, mentre dice che questa operazione è troppo importante e loro non hanno proprio idea di cosa significa, scopre l’orologio di platino che porta sotto la manica della camicia. Il vestito, macchiolina a parte, sembra nuovo. Il monogramma “BM” si intravede, ricamato leggero sul taschino da cui esce un fazzoletto piegato in modo impeccabile.
– È ora.
– Bene. Noi andiamo, allora.
Morodina guarda Bartolozzi sorridendo e i suoi baffetti diventano due strisce diritte sopra le labbra:
– Certo; ma prima desidero mostrarvi mio laboratorio. Epifan, vuoi accompagnarli?
– Lasciamo stare. – dice Bartolozzi.
Nikichenko, come se avesse ricevuto a sua volta un ordine, scompare rapido nella botola.
– Non voglio certo costringerla. Resti pure qui a guardare il panorama con Epifan. Lei invece mi segua, signor Fazzi.
Le scale che portano giù sono di metallo arrugginito. La zona di sotto, il “laboratorio,” sembra la stiva di una nave appena ripescata. Tutto ferro e ruggine. Davanti a una specie di tavolo da autopsia appena sciacquato, c’è Sasha che aspetta.
Quando Morodina e Fazzi scompaiono alla vista, Epifan si avvicina a Bartolozzi. Il capocolonna ha già capito tutto e sa che deve almeno provare a difendersi. Si avventa contro Epifan dandogli un pugno nello stomaco. Il dolore è qualcosa di assolutamente sconosciuto per il russo, che gli porta una mano al collo e glielo stringe. Lo guarda negli occhi e inizia a pestarlo. Il corpo magro di Bartolozzi, nelle sue mani sembra uno straccio. Gli colpisce il volto ripetutamente. Lo spinge con la schiena contro il muro e gli ricambia il favore con una serie di pugni al ventre. Solo che Bartolozzi non ha alcuna malformazione congenita al sistema nervoso e i dolori li sente tutti. Epifan estrae una baionetta dallo stivale. Bartolozzi grida.
– Cos’è stato? – chiede Fazzi.
– Una festa.
– Una festa?
– Sì. Ora la facciamo anche qui.
Nikichenko sblocca le maniglie e le apre.
– Prego, signor Fazzi, mi dia la mano.
Fazzi si volta per scappare, ma riesce solo a sbattere contro Morodina, che gli è ricomparso dietro. Sopra il vestito ora ha un grembiule di plastica trasparente, schizzato di rosso.
– Dia retta a Sasha, signor Fazzi. Dia la mano.
Mentre Epifan pulisce la sua baionetta sul maglione di Bartolozzi, Sasha, al piano di sotto, si volta verso la parete. Morodina attacca la spina del trapano.
Mezz’ora dopo, un furgone bianco imbocca Corso d’Azeglio, oltre il sottopasso del Lingotto. Il furgone si immette sul viale adiacente lo stabilimento di Mirafiori. Morodina è di buon umore. Quello che sta per succedere lo fa sentire bene. Seduto sul sedile posteriore guarda fuori dal finestrino, e indica a Epifan e Sasha le file di operai che escono dal turno di notte:
– Per quanto odi dover venire qui a fare il lavoro di persona, devo dire che sarebbe piacevole poter assistere all’operato della creatura. Tutti quegli edifici e quei corpi travolti dall’onda d’urto. Quelli che si troveranno nello stabilimento e nei dintorni verranno vaporizzati. Spazzati dalla faccia della terra, come un cumulo di polvere al passaggio della scopa.
Epifan sorride. Non dice nulla. Sa che quando il capo si esalta è meglio non interromperlo. Per cui gira la testa verso l’entrata dello stabilimento e prova a immaginare la scena che gli descrive Morodina:
La propagazione dell’onda sarà circolare. Di tutti questi palazzi resteranno, forse, gli scheletri. Basterà salire su un pezzo di cemento, sulla carcassa di un’auto, per poter guardare tutto intorno, senza alcun ostacolo. La macchina prosegue lenta la sua marcia. Morodina non ha avuto notizie di Julie, ma non ha alcun dubbio sul fatto che abbia portato a termine la missione. L’unica emozione che lascia trasparire è l’eccitazione per l’evento. Sasha, alla guida, intravede il distributore di benzina. Epifan nota il suo sguardo e sposta la testa verso l’alto avanzando leggermente con il mento per far cenno al capo di essere giunti. Sasha parcheggia sul piazzale del distributore. Epifan scende e scassina in un attimo la saracinesca che chiude l’accesso al capannone designato. Sasha parcheggia il furgone all’interno, proprio in mezzo al capannone, poi scende e aiuta il compare a scaricare la bomba. L’enorme spazio è vuoto, c’è solo qualche vecchia cassa di legno qua e là, e ponteggi metallici alle pareti, fino al soffitto. Morodina si guarda intorno soddisfatto:
– Senza saperlo, quegli idioti di brigatisti avevano almeno scelto un posto adatto a me. – Morodina alza lo sguardo al soffitto. Nell’oscurità si intravede una rete di cavi metallici:
– Vediamo cosa si può fare qui.
Nikichenko guarda l’ordigno con aria interessata. Gli gira intorno e scruta il metallo bruno passandoci sopra le dita; dà un’occhiata alla parte anteriore e poi al centro della bomba dove si trovano i pulsanti per inserire i codici di attivazione e una piccola fessura verticale. Per una volta, l’ingegnere trova il coraggio di parlare per primo:
– Signore, questo non è un ordigno tattico a basso potenziale. Questa è un’atomica da cinque megaton. Annienterà l’intera città.
– Bravo, Sasha.
– Signore, personalmente pensavo…
Non mi interessa cosa sapevate e cosa pensavate. Dovete solo eseguire i miei ordini. Cosa ne sapete voi del potere? Non riuscite neanche a immaginare cosa significa quello che stiamo facendo.
Nikichenko non replica: sa quale sia il prezzo da pagare per un incertezza nell’azione e non ha alcuna voglia di pagarlo. Chissà, magari finirebbe pure divorato vivo, come a volte Morodina fa con le prostitute. Meglio non pensarci… Apre la sua cassetta degli attrezzi. Si infila sul capo un cerchietto che regge una torcia elettrica all’altezza della tempia, si asciuga le mani e prende a svitare una delle placche metalliche sulla superficie convessa dell’ordigno, scoprendo un sistema di cavi e transistor. Le mani gli tremano, ma si mette al lavoro, ed è grande la rapidità con cui capisce come e dove agire.
Mentre Nikichenko non smette di collegare e scollegare fili elettrici e consultare diagrammi sul suo taccuino, Morodina ed Epifan armeggiano con cavi e tensori sulla rete di cavi e carrucole presente sul soffitto.
– Crede che ci sarà bisogno di una… Scenografia, signore?
– Non prenderla come una mancanza di fiducia nei tuoi confronti, Epifan. Finora, contrariamente alle mie previsioni, molte cose sono andate male. Anche se sono certo che la signorina Gold mi ha liberato dal fastidio di pensare a quei tre, Sasha ne avrà per un po’, e preferisco allestire un campo d’azione congeniale alle mie facoltà. Quando si fa la storia, non sono ammissibili leggerezze.
Morodina e il suo uomo salgono sui ponteggi e si mettono al lavoro. Nikichenko suda e lavora senza sosta, circondato da un groviglio di cavi elettrici.
Torino si apre al mattino, tra motori che si avviano e saracinesche che vengono tirate su. Radovan non sente niente, e contiuna a singhiozzare camminando.
– Abbiamo fortuna, Radovan. Guarda.
Gipo fa un gesto a un taxi, che si ferma.
– Portaci a Mirafiori, – dice, e aiuta Francesco a entrare. Il tassista li guarda mentre riparte. Pesti, luridi, stravolti:
– Andate a cercare lavoro?
Nessuno risponde.
– Cercate lavoro?
– Ah? Eh si, certo. – si riscuote Gipo.
Radovan scruta fuori dal finestrino il paesaggio e i palazzi. Usciti dal centro, le case sembrano tutte uguali. Palazzine di cinque piani. Aiuole e piccoli parchi, alberi e panchine. Marciapiedi ancora quasi del tutto deserti. Gipo abbassa leggermente il finestrino dell’auto e immediatamente tutto sembra riprendere vita. Si sente il rumore degli uccelli sugli alberi, dei primi accenni di traffico. Una serie di capannoni industriali sullo sfondo prende forma. La strada è divisa per i due sensi di marcia; al centro, una lunga fila di alberi. Il tassista rallenta. Svolta a destra e dopo pochi metri si ferma. Radovan si sveglia come da una trance:
– Qual è l’entrata principale dello stabilimento?
– Quella che troverete al centro di questa strada è l’entrata principale. Se girate tutt’intorno, ma a piedi vi ci vorrà un bel po’ di tempo, troverete le varie entrate per gli operai e per gli automezzi.
– Noi cerchiamo l’entrata vicina ad un distributore di benzina. Piccolo, della Elf.
– Allora tornate indietro dove abbiamo svoltato. A sinistra, dopo pochi metri, troverete il distributore.
Il tonfo della portiera che si chiude porta con sé il silenzio. Mirafiori è immensa. Gipo e Radovan attraversano lo stradone come in apnea.
Sceso dai ponteggi, Morodina torna ad osservare il lavoro di Sasha da vicino. Epifan estrae un AK–47 dal furgone e lo carica. Sasha svita un altro pannello. Epifan si siede su una cassa. Sasha collega un cavo a un apparecchio. Epifan si alza e fa un giro intorno alla bomba. Morodina ingoia una pillola e sorride.
Radovan e Gipo si muovono guardinghi, accostati al muro. Il luogo è sicuramente quello segnato sulla cartina trovata nella borsetta della Di Gregorio.
Morodina guarda Sasha che lavora e suda. Epifan esce per controllare che non ci sia nessuno.
Radovan e Gipo sono vicini all’entrata, dietro un pilastro di cemento. Radovan vede la punta del fucile di Epifan che fa capolino dall’entrata e fa cenno a Gipo di star fermo. Quando il russo rientra, percorrono guardinghi gli ultimi metri.
– Che cosa mi racconti, Sasha? – Morodina cammina su e giù, un paio di metri davanti a Nikichenko che suda di fronte al pannello coi cavi, nel centro esatto dell’enorme capannone industriale.
– Cosa dovrei raccontare, signore?
– Come pensi che andrà a finire questa storia?
– Andrà a finire come deve.
– Ovvero?
– Bene, Signore. Andrà a finire bene.
– E cosa significa, per te, “finire bene”?
– Non lo so. Bene: come vuole lei.
– Cosa pensi che stiamo facendo, noi, qui?
Sasha viene preso da un impeto strano, misto di adrenalina e terrore:
– Tiriamo su la guerra, signore. Mettiamo a ferro e fuoco il mondo. Infiliamo la carne nello spiedo. Tutti contro tutti!
– Bravo, Sasha… Shh!
Epifan scatta in piedi, pronto, in posizione, il Kalashnikov spianato. Morodina segue il perimetro della stanza, attentamente. Una pausa:
– Nulla. Sarà stato uno scricchiolio.
Epifan torna a sedersi, recuperando il suo sguardo da cadavere. Radovan e Gipo sono dentro. Con l’incoscienza che viene dalla disperazione sono entrati veloci e si sono nascosti dietro una delle casse. È andata bene. La bomba domina la scena: quasi viva, come al centro del mondo. I dubbi sulla sua reale esistenza erano definitivamente caduti sul treno e tuttavia, vedendola, hanno un sussulto, un piccolo tuffo al cuore. Sasha lavora e suda. Passa qualche altro minuto. Francesco e Radovan si fanno un cenno e si spostano verso il centro del capannone, sfruttano la copertura del furgone parcheggiato lì in mezzo. Sono a non più di venti metri. La cassa dietro cui sono nascosti ora è molto più grande, la zona è più buia rispetto all’ingresso. Si appostano.
– È da un po’ di tempo che ti vedo stanco, Sasha, mi sbaglio?
– È stato un periodo ingarbugliato, in effetti. Ma va tutto bene, signore.
– Avrò visto male, allora; avrò fatto degli errori di valutazione.
– Non sto dicendo questo. Siamo tutti un po’ stanchi, credo. Questa storia è così grossa.
– Grossa? Tu, come la maggior parte dei tuoi simili, pensi alle città, agli uomini, come a esempi di grandiosità; mentre consideri le crepe dei muri, la popolazione degli scarafaggi come qualcosa di marginale. Questo perché sei affetto dalla malattia della presunzione. Quando faremo saltare tutto, sai chi continuerà a vivere e a proliferare come se niente fosse?
– Gli scarafaggi?
– Gli atomi! I pianeti sono atomi! Gli uomini, Sasha, mangiano solo per continuare a mangiare, e neppure le colpe, vere o presunte che siano, bastano a giustificare le loro azioni!
Morodina sale le scale metalliche alla parete, piazzandosi alto sul ponteggio. La sua voce echeggia come da un megafono per tutto il capannone:
– Pagheranno tutti! Nessuno capirà cosa è successo. I servizi segreti impazziranno. L’America penserà che è stata la Russia, e viceversa! I paesi vicini resteranno sbigottiti e non sapranno dove sbattere la testa. Le centinaia di migliaia di persone che scompariranno tra qualche ora non saranno che un assaggio dell’apocalisse che seguirà!
Epifan sorride, il fucile d’assalto in braccio. Morodina si passa il dorso della mano sulla guancia, come a voler verificare se e quanto fosse ricresciuta la barba, poi riprende. È avvolto dal fumo che esce da un tubo crepato, sembra sospeso in aria. L’ingegnere, frastornato e sconvolto, collega e scollega cavi freneticamente, bypassando i codici e creando un vero e proprio sistema esterno di attivazione. Lavora, e trema, e Morodina gli fa una paura del diavolo. Morodina è il diavolo.
– Gli accordi internazionali, gli affari politici ed economici cadranno come le tessere del domino. Un domino del quale solo io avrò una visuale ampia e completa. Un palco d’onore sull’olocausto termonucleare!
– Guerra nucleare… – sussurra Sasha tra sé: – Almeno, sarà la fine del mondo capitalista…
– Povero Sasha! Io me ne fotto del mondo capitalista e di quello socialista, della CIA e della dittatura in Italia! Io voglio portare l’inferno sulla terra! Voglio schiacciare questa ridicola umanità! Dalle ceneri feconde rinascerà un uomo ripulito e migliore, superiore!
La voce di Morodina rimbomba tra gli alti soffitti della fabbrica. L’ingegnere si asciuga il sudore, Epifan non ha alcuna espressione. Ride, Vladimir Morodina, e il capannone ribolle della sua risata. Radovan e Gipo trattengono il respiro. Cercano disperatamente il momento giusto per intervenire, ma sembra non arrivare mai. Epifan ha il fucile spianato e con quegli occhi senza luce pare tenere sotto controllo tutto lo spazio intorno a sé. Passano dieci minuti. Sasha lavora freneticamente, spinto dalla voglia di dimostrare, almeno a se stesso, di essere un vero genio dell’elettronica bellica. Dal punto in cui sono, Francesco e Gipo possono vedere le sue mani grassocce e sudate che lavorano alla bomba. Non dicono niente, ma ognuno di loro sa bene cosa stia pensando l’altro: Virginia, i suoi occhi, il sangue al posto dell’orecchio; un’altra bocca, orribile, in mezzo alla gola. E ora la bomba, lì in mezzo, il cuore innervato di un mostro.
– Allora, quanto ci vuole? Signor Nikichenko, siamo in ritardo.
– Signore, è tutto pronto. – Sasha mostra a Morodina il telecomando artigianale che ha appena creato, pieno di cavi che vanno a infilarsi nel cuore della bestia. – Le basterà abbassare queste due levette per attivare la bomba.
Morodina fa un cenno. Epifan appoggia l’AK–47 per terra e si alza. Sasha si alza a sua volta, per sgranchirsi. Non è ancora in piedi quando la lama della baionetta gli trapassa il cervelletto. Morodina tira fuori di tasca il tubetto con le pillole. Ne ingoia tre con una smorfia, poi scende solenne le scale, verso la bomba. Ne accarezza il corpo, guarda Epifan, poi si volge al sistema di attivazione creato da Nikichenko.
Mentre le sue mani stanno per attivare l’ordigno, irrompono i due ragazzi. Uno sparo rompe il silenzio, una pallottola sfiora la testa di Epifan:
– Fermi!Radovan ha la pistola in pugno e una faccia che sembrerebbe il diavolo, se solo non ce l’avesse davanti:
– Tu! – scandisce cavernoso, gli occhi fissi in quelli di Morodina.
– Avete eliminato anche Julie? Sorprendente! Bravi! – ride Morodina: – Epifan, sistema questi due buffoni.
Epifan punta Gipo. Radovan guarda torvo Morodina. Epifan non prova neanche a lanciarsi verso il suo fucile: con calma pulisce la baionetta sulla guancia di Sasha e si prepara ad affrontare Gipo all’arma bianca. Gipo riconosce nella guardia del nemico lo stile di lotta col coltello degli Spetsnaz ed estrae a sua volta dalla tasca dei pantaloni il suo pugnale.
Radovan non riesce a mettere bene a fuoco lo sguardo; l’emicrania gli spacca la testa, si sente svenire. Appena Morodina accenna un movimento, comincia a sparare come un pazzo: a lui non gliene frega niente dei corpi d’elite, e ormai anche poco della bomba, di Torino del mondo libero od oppresso, socialista o annientato. A lui ora importa di Virginia, gli importa solo di sapere che è morta ammazzata e che quello è il mandante. Ha un solo obiettivo in testa e nulla per cui valga la pena vivere. Così, mentre i due soldati si preparano a fare sfoggio di arti di combattimento, lui spara senza prendere la mira, spara fino a svuotare il caricatore, spara fino ad accorgersi che il demonio coi baffetti è sparito. Calato il rumore delle pistolettate rimane solo la sua risata e una scia di fumo violaceo.
Non è la prima volta che Gipo si trova a dover disarmare un uomo col coltello. Una volta ne ha disarmati diversi, in una chiesa, davanti a un altare. Erano quaranta legionari, assaltarono un convento occupato da quasi trecento ribelli. Morirono tre di loro e nemmeno un ribelle rimase in piedi. Poi fucilarono i frati e dettero la colpa ai ribelli stessi. Gli ultimi quattro guerriglieri li uccise all’arma bianca, erano tutti bestioni con tanto di machete. “Da qualche parte, in qualche paese di negri, un po’ di anni fa. Nel sangue fino alle ginocchia,” avrebbe potuto raccontare, se qualcuno mai avesse voluto ascoltarlo. La sua espressione si illumina di follia e mentre la lama della baionetta del russo lo prende di striscio a una spalla, risponde con una pugnalata nel fianco, perfetta, ma non può che rimanere sbigottito quando vede che Epifan non fa una grinza. Un coltello piantato nel fianco fino al manico, e quello ha la stessa faccia idiota di prima.
La bomba, lì in mezzo, li guarda combattere, silenziosa e impassibile.
La baionetta del russo non è un machete, ma Epifan non è un ribelle affamato. Gipo è stanco e ferito, e se ne accorge alla svelta. Con un calcio Epifan lo mette a sedere per terra. È un osso durissimo. Gipo si rialza, ma un fendente gli trancia il bicipite destro. Durissimo e affilato. Gipo grida. Non può fare altro che difendersi, che ritardare il peggio, parare la piena. Gli lascia andare un calcio in mezzo alle gambe: niente. Epifan risponde con un affondo al viso che gli apre in due la guancia. Gipo vacilla. Ridotto com’è, non ha alcuna possibilità di tener testa a questo essere che non sente il dolore. Epifan dal canto suo ne ha già affettati diversi di legionari, mercenari e soldataglia del genere, in Angola con gli Spetsnaz dell’Armata Rossa, tanti anni fa. Blocca Gipo che gronda sangue da ormai troppe ferite con una presa che ricorda un abbraccio, sono due amanti avvinghiati, uno sta per sgozzare l’altro eppure tutti e due sembrano indugiare sui loro ricordi africani. Forse Epifan indugia un mezzo secondo di troppo. Gipo lo colpisce sotto il gomito con la mano buona, la baionetta, con l’impugnatura zuppa di sangue, sfugge, Gipo la raccoglie al volo e la pianta nel cuore del nemico. L’arma, affilatissima, lo attraversa. Epifan è a terra, Gipo stringe forte il manico della baionetta, come ad assicurarsi che la vita abbandoni il nemico. Fa un passo, ha un capogiro. Fa cenno a Francesco come a dire “tutto bene;” anche se non può essere vero. Poi si accascia a sua volta.
Morodina, sul ponteggio, nascosto dall’oscurità, non si capacita di come due simili nullità siano arrivate così vicine a far fallire il suo piano. L’eco della sua voce risuona nuovamente, rimbalzando tra le pareti di cemento:
– Ti staccherò la testa, ragazzo, e quanto è vero Dio la divorerò!
Si lancia giù con un grido agghiacciante. Vola. Radovan sbalordito spiana la pistola ma ne esce solo un click. Un calcio in pieno viso lo fa rotolare all’indietro e lo manda a sbattere con la nuca sulla predella del furgone.
Morodina è di fronte alla bomba, raccoglie il telecomando; posa le dita sulle due levette, esulta, ma una raffica di kalashnikov all’altezza dei piedi lo costringe a balzare all’indietro. Gipo, in ginocchio in una pozza di sangue, ha l’AK–47 fumante tra le mani. Morodina è già scomparso. Gli appare dietro. Gipo ha lo sguardo annebbiato, è debole, debolissimo, ma sente il nemico dietro di sé. Si volta per sparare. A Morodina basta un calcio per mandarlo al tappeto e intanto sfilare la baionetta dal petto di Epifan. Radovan si riprende dallo stordimento. Non comprende cosa stia succedendo e non riesce a rimettersi in piedi. Morodina è di nuovo nascosto. Radovan vede Gipo a terra che lo guarda con un sorriso:
– Radovan, non dovrei dirtelo, ma… Fino a ieri ti invidiavo, sai?
– Tirati su!
– Non ne ho la forza. E poi sono già morto. Ti invidiavo, fino al treno. Fino a Virginia.
– Gipo…
– Mi ricordo della spiaggia…
– Quale spiaggia, Gipo?
– Non farti ammazzare anche tu, Comandante. Vinci.
Ci mette un attimo, Gipo, a lasciare Radovan da solo.
Morodina riappare sul ponteggio. La testa confusa di Radovan è un turbine di pensieri, che si coagulano in uno slancio disperato, verso la bomba.
Ma non ci arriva, alla bomba: Morodina gli piomba addosso: dall’alto, da metri e metri di altezza, lo prende per le spalle come un falco, lo porta su con sé. E lo lascia cadere. A terra. Radovan si rialza, urla. Arranca, ancora, verso la bomba. Morodina vira. Ride. E ripiomba giù, su di lui. E di nuovo lo solleva e lo lascia cadere.
Ma Radovan si rialza, ringhia e riparte.
Morodina torna, lo afferra ancora, stavolta Radovan è a solo un passo dall’ordigno. Si sente sollevare, di nuovo. Radovan allunga il piede e aggancia uno dei cavi che unisce la bomba al comando; il cavo resiste teso un secondo e si spezza.
Morodina perde la presa e schizza verso l’alto, velocissimo. Si schianta contro il soffitto, cade a terra come un uccello abbattuto; sulla schiena ora è ben visibile un cavo. Una gamba è piegata in modo innaturale. Si rialza di scatto, su una gamba sola, e attacca con la baionetta. Radovan gli oppone il braccio sinistro. La lama si pianta sull’avambraccio, lo attraversa. Nell’attacco il russo si sbilancia e appoggia la gamba rotta: la fitta è tremenda e l’attimo di dolore consente a Radovan di colpirlo alla testa. Che fine indegna per un genio, pensa Morodina, prima che un secondo colpo di chiave inglese gli spenga i pensieri per sempre. Radovan picchia ancora, picchia e piange.
Epilogo
La giornata è bella, a Bologna fa quasi caldo. Tra le stradine del centro gli studenti passano da un edificio all’altro e si fermano all’ombra dei portici. Francesco Guarnieri guarda davanti a sé, seduto sul muretto del chiostro. Fuori dal cancello scorge quel fascista di Gipo Acquachiara. Ha un bel coraggio a passare di qui, meglio tenerlo d’occhio. Si gira verso il portone e dalle scale vede arrivare Virginia, di ritorno da un’assemblea. Sente le sue mani che lo accarezzano. Radovan si tocca l’avambraccio e guarda i ragazzi intorno a lui che si danno da fare per organizzare una riunione. Gli chiedono di partecipare. Accetta e si allontana dal chiostro. Cammina veloce. Corre. Gli fa male l’avambraccio. Radovan si tiene l’avambraccio e corre.
Il sole sorge sopra Torino e Radovan corre, fugge da Mirafiori. In una giungla, coi guerriglieri, o morto, o in carcere, tutte possibilità buone allo stesso modo; un’idea, passare in Francia, raggiungere il Sud America e unirsi ai sandinisti, oppure essere arrestato subito, non uscire neanche da Torino. Importa poco. Non pensa più, Radovan, il limite è già superato; non ha altra scelta che andare dritto senza fermarsi. L’emicrania è passata, le lacrime pure. L’unica cosa possibile è mettere un piede dietro l’altro, sempre più veloce, in faccia al sole che sorge.
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