Un ricamo e una preghiera /3

Benedetta Torchia Sonqua

[La prima parte qui e la seconda qui]

I bambini li guardavo giocare, e pensavo alla misura dei colletti da abbottonare sui maglioncini, alle calzette ricamate e, quando li vedevo sfilare tutti la domenica alla messa vestiti a festa, a me faceva tanto piacere sapere che portassero qualcosa di mio e pronunciavo più forte una preghiera per ognuno di loro e mi pareva che la protezione di nostro signore passasse attraverso la benedizione di quei piccoli pezzi di stoffa che mi portavo sempre in chiesa.

Il prete, a dir la verità, mi diceva che non poteva benedire sempre tutta quella stoffa ma io insistevo: in fondo, lui continuava a benedire i fili e i crocefissi d’oro che si regalavano ai battesimi e, con questa scusa, tornavo a chiedergli perché non avrebbe dovuto fare lo stesso con la copertina, la camicina o la vestina. Poiché non aveva ancora trovato una risposta, continuava a benedire sete, lini e cotone e, quando non aveva tempo, mi diceva di usare qualche goccia d’acqua benedetta nella conca, all’ingresso della chiesa. E io così facevo perché i bambini sono eventi allegri e delicati, un dono della terra e dio nostro signore deve tenergli sempre le mani sulla testa a proteggerli e, se hanno un papà e una mamma, questi devono far da tramite per tenerli sotto questa protezione perché i tempi, a volte, sanno essere difficili. Alla radio, infatti, si cominciava a sentire la voce di quell’omone che ordinava e legiferava su chi potesse andare a spasso e chi invece dovesse essere segnato con la stella gialla.
Parlava forte di stato sociale, diceva cose che qui non avevano un senso ma trovavano lo stesso un consenso. E quel vocione mi metteva pensiero, lui e tutti i suoi ginnasti così forzuti.

Questi pensieri, madonnina mia, avevo una domenica che non ebbi voglia di portarmi niente da cucire e niente da benedire e che avevo voglia solo di andare in chiesa per pregare dio che consigliasse bene il papa a non mettersi in malaffare con uomini dalle voci grosse. Mi sedetti come sempre tra le panche davanti alla madonna dell’Immacolata Concezione. Seduta, non avendo niente tra le mani, potevo girarmi di qua e di là. Ormai ero una donna fatta e non sembrava brutto che alzassi gli occhi a guardarmi d’intorno.

E così li vidi, madonnina mia. Li vidi entrare tutti e quattro per mano, uno in fila all’altra, in ordine di altezza.

Il padre teneva stretta la mano a una bambina che, a sua volta, teneva stretta la mano ad un’altra e questa ad un’altra ancora, la più piccola e l’ultima della fila. Avrà avuto tre anni. E dietro una signora smunta e bianca spingeva un carrozzino e rimaneva indietro perché, da lì dentro, si sentiva piangere con quegli strilli acuti che solo i più piccoli sanno fare.

Erano bambine che avevo visto altre volte ma sempre per mano alla mamma e, a pensarci bene, non le avevo viste più molto la domenica dentro la chiesa. Santa Catarina era piccola per non incontrarsi; a sforzarmi di ricordare, le avevo viste pochi giorni prima mentre giocavano con i gusci delle mandorle ripieni di cera, acconciati a mo’ di barchette. Cercavano di farle galleggiare – con le loro piccole vele di carta arrotolate intorno ad uno stuzzicadenti – nelle vasche dei vecchi abbeveratoi al centro del paese. Le più piccole rimestavano le mani nella vasca più bassa appoggiandosi sui lastroni leggermente inclinati e scanalati di pietra lavica, mentre la loro bambinaia (o governante, non so) sciacquava una volta di più il bucato delle piccole e chiacchierava e cantava con le poche signore che si ritrovavano ancora a fare di quei servizi lì. E discosta la donnetta smunta sobbalzava per scuotere il fagottino che piangeva anche allora. E, a ricostruire ora il ricordo, ho pensato che mi sembrava strano fossero lì, loro che si sapeva che la mamma ci teneva ed erano sempre tanto curate; le bimbe infatti uscivano da una famiglia buona e, di solito, giocavano altrove sotto gli occhi vigili che non le avrebbero fatte bagnare fino ai gomiti.

E invece, quella domenica le vidi per mano e insieme al babbo. Un babbo distinto a dir la verità. Un brav’uomo dicevano tutti. Col suo vestito ben tagliato, un gessato scuro con le righine sottili e quasi impercettibili. Le scarpe usate ma pulite. Aveva una bottega lì vicino, proprio dietro la biblioteca, e commerciava stoffe e ricami pregiati. Andava a trovare una ad una le donne che secondo lui ricamavano meglio. Una presenza non prepotente ma silenziosa: portava in dono le paste per poter vedere i nuovi lavori e scegliere quelli che sarebbero stati pagati di più. A parte questi sporadici giri, si vedeva poco in paese. Alla bottega ci lasciava Nino, il suo uomo di fiducia, e lui, più spesso, girava in lungo e in largo la Sicilia per cercare i pezzi migliori, quelli che spose e puttane si sarebbero litigate. Era un uomo educato ma dall’aspetto fermo e sembrava una persona con cui ragionare.

Le bimbe, quelle per mano al babbo, erano belle; con gli occhi grandi e un’espressione seria che le rendeva forse un po’ tristi. Appena dentro, guardarono lo scuro all’ingresso della chiesa e poi d’intorno per abituarsi al contrasto con la luce di fuori. Erano ben vestite, come sempre, eppure avevano qualcosa che me le fece notare diverse. La prima aveva una calzetta arrotolata un po’ al bordo della scarpa e continuava a tormentarsi le pellicine del pollice girandoci di continuo intorno l’indice. Quella manina bianca e pulita si tormentava in silenzio e l’avrei presa volentieri nei mie palmi per interrompere quei giri a vuoto. La seconda aveva una ciocca fuori posto, come avesse appena finito di correre, eppure non era sudata e non aveva le gote rosse. Non si capiva se le forcine fossero tenute dai capelli o se fossero questi ad essere stati catturati di malavoglia dai beccucci. Le avrei passato la spazzola tra quei capelli come una lunga carezza, come a farle riposare la testa per riconquistare una piega ordinata. E mentre quella testolina continuava a produrre piccoli scatti per levarsi i capelli dagli occhi, io già pensavo a quante acconciature le sarebbero state bene tra qualche anno e quanto bene sarebbe venuta una treccia con tutti quei lunghi capelli castani. E la terza, la più piccola, aveva il bordo della gonna spiegazzata, come se fosse stata riposta male nell’armadio e tirata fuori all’improvviso. E quei piedini che si riposavano di continuo appoggiandosi l’uno sull’altro: volentieri l’avrei presa in braccio per farla riposare senza farle calpestare le punte delle scarpe di vernice.
E l’ultima, invece, piangeva e strillava tanto che alla fine la sua bambinaia dovette uscire di corsa perché il pianto rimbalzava dentro la navata.

Ed evidentemente indugiai a lungo su quel legame di mani, tanto che la mia vicina, sulla panca, mi sussurrò all’orecchio la storia recente di quella famiglia. Una famiglia da poco orfana di madre, morta da appena un paio di settimane. Non sapeva bene se fosse morta di tifo o di polmonite o di qualche altro male, ma era stata a letto a lungo e speravano di salvarla. Soprattutto, ci avevano provato con tutte le medicine che erano riusciti a comprare. Invece, a dispetto di tutti i soldi che s’erano potuti spendere, la moglie era morta e il marito s’era disperato per quelle bambine che così tanto amava e si dice che, quando fece celebrare il funerale, per non spaventare le creature, chiese al sacrestano di far suonare le campane a festa perché quelle bambine si distraessero e smettessero di piangere. E ora lui si trovava con la bottega dietro la biblioteca, qualche altra bottega in giro per la Sicilia, un giro di ricamatrici importante e prezioso e una casa grande, al centro del paese, abitata ormai dalle bambine e da una balia per la più piccina e da una governante che gli aveva raccomandato Nino e che era anziana e brutta e con la peluria sotto il naso. E quell’uomo, che se ne andava ora con quelle appendici al braccio, era diventato di colpo, in appena due settimane, un buon partito.

Mi girai di soprassalto a queste ultime parole, madonnina mia. Cosa andavano subito a pensare queste pettegole di Contrada Scaleri. Non ero mica in cerca di marito. E scacciai subito quell’immagine dalla mia vista e dai miei pensieri e mi concentrai finalmente sulle parole del prete.

Ed espressamente credo in Te, unico vero Dio, in tre Persone uguali e distinte: Padre; Figlio e Spirito Santo. E credo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato e morto per noi; il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la pena eterna. Conforme a questa Fede voglio sempre vivere. Signore, accresci la mia Fede!

O Gesù d’ amore acceso, non t’avessi mai offeso! O mio caro e buon Gesù, con la tua santa grazia non Ti voglio offender più, mai disgustarti, ma amarti sopra ogni cosa.

Continuai a ricamare bavaglini e scarpette e, più ricamavo, più tutte dicevano che ero brava, che era un peccato che li regalassi e basta. Ma, a me, i bimbi piacevano, e quando uno piangeva o metteva il musetto a panierino a fare il broncio, mi sembrava un peccato mortale. Per la figlia appena nata della comare Rosa avevo pensato di cucirle un pagliaccetto con un ricamo di pulcini sul petto. Una nidiata che si sarebbe dovuta inseguire saltando i fili d’erba, ma mi accadde di aver finito il filo verde del prato. Di solito, i fili, li compravo in gran quantità, di tutti i colori, ed era una scusa per andare con l’amica di sempre a fare due passi a Caltanissetta e spuntare il prezzo migliore. Ma, quella volta, Novella non poteva spostarsi da casa per via della raccolta delle olive e a me pesava salire sulla corriera da sola. La bottega vicino gestita da Nino sembrava una soluzione accettabile, soprattutto considerando che dovevo comprare un solo rocchetto; solo uno me ne serviva per poter finire il lavoro. Mi diressi allora verso quegli infissi di legno scuri ben lucidati, spinsi la porta girevole e appoggiai i gomiti sul bancone dove venivano tagliate le stoffe. Mentre aspettavo che Nino riemergesse dal retrobottega, da sotto il bancone spuntarono due occhietti. Mi guardavano da sotto in su e stavano lì senza dir niente. Quando Nino arrivò mi disse che era la figlia del padrone, la terza, e che l’aveva dovuta tenere lì per quella giornata. La più grande aveva la varicella e l’aveva attaccata alla seconda e la governante era dovuta rimanere chiusa in casa, almeno finché non fossero cadute le croste, così aveva sentenziato il medico. Ma questa terza non l’aveva presa la varicella; e sì che avevano messo a dormire tutte le sorelle nello stesso letto per farle ammalare insieme e togliersi il pensiero. Ma questa niente: non s’era contagiata come le altre due e, dopo una settimana, era stufa di stare in casa e tormentava l’ultima nata e la sua balia. Ed anche la governante e le due sorelle più grandi non sopportavano più che corresse e toccasse tutto. Il padre allora s’era fatto promettere che non avrebbe dato fastidio a Nino, se l’avesse lasciata in negozio a vedere le signore che compravano e lo spicchio di piazza dietro i vetri. E così andò quel giorno: quegli occhi stavano lì, un po’ in disparte ma attenti. E io mi sentivo, d’un tratto, con la responsabilità di essere la distrazione maggiore di quella giornata e non sapevo bene cosa fare. Scacciai quel po’ di disagio distogliendo lo sguardo e rivolgendomi a Nino. Chiesi i fili verdi. Ma, saranno stati quegli occhi piccoli e bassi addosso, sarà stata tutta quella responsabilità degli eventi, sarà stato l’umido della giornata, tant’è che mi sentivo un po’ strana e non riuscivo a ricordare esattamente il punto di verde che mi serviva. Nino mi suggerì di tornare più tardi con il ricamo a metà, in modo che fossi sicura di scegliere il verde più esatto.

Uscii sollevata e, invece di tornare qualche ora più tardi, tornai alla bottega il giorno successivo: aspettai che passasse la mattina e il pomeriggio e mi decisi solo in prima serata, prima dei vespri. Entrai e guardai subito verso il basso e, di nuovo, quei due occhi non impiegarono molto a sbucare da sotto il bancone. In attesa di Nino, chiesi loro se avessero avuto voglia di vedere i pulcini che stavo ricamando e di ascoltare la storia di quei pulcini che se ne andavano a giocare proprio come accadeva a lei e alle sue sorelle. Sorrise, la bimba, e mi sembrò s’illuminasse il negozio; tirai fuori quel pagliaccetto e le feci scorrere il ditino sui punti che avevo già terminato per sentire il contorno e lo spessore di tutti quei pulcini.

Nino mi trovò così: accovacciata sotto il bancone insieme alla bimbetta con gli occhi che le brillavano e sembrava una gemma, tutta contenta di aver ricevuta una favola. Mi alzai in tutta fretta e scelsi il punto di verde insieme a Nino. E lui guardava i ricami, poi guardava le mie mani e poi guardava la bambina e le sue dita aggrappate sul bancone e poi mi disse che era un bel ricamo. Un ricamo bellissimo e mi chiese se potessi tornare a farglielo vedere finito. Mi parve un’attenzione così garbata che accettai. La sera, a casa, mi misi di buona lena e poi non smisi per quasi tutta la notte e le ore che passarono tra la compieta e le lodi mattutine furono proprio poche.

Mio Dio, spero nella tua Bontà, per le tue promesse e i meriti di Gesù Cristo nostro Salvatore, la Vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere che io debbo e voglio fare.

Signore, che io possa goderti in eterno!

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