Luciano Bianciardi o il lavoro culturale dal Boom alla crisi, conversazione tra uno scrittore precario e un critico impuro.
Maggio 25, 2012 3 commenti
di Sonia Caporossi e Simone Ghelli
Sonia: Luciano Bianciardi a me è sempre sembrato un autore in qualche modo esemplare, meritevole di fregiarsi del titolo di “maestro” all’interno del panorama letterario italiano per gli scrittori della nuova generazione. In particolare, la sua opera ha espresso la reazione del giovane intellettuale di provincia di fronte al difficile momento di trapasso dalla letteratura ufficiale ed altisonante del fascismo propagandistico al neorealismo e poi al Boom economico degli Anni Sessanta. Questo perché con la sua stessa vita ha esemplificato la figura di ciò che può essere definito “l’intellettuale disintegrato”.
Simone: Sì, ed oggi sembra che rappresenti, con ritardo (e quindi anticipandola), la condizione di molti…
Sonia: Nel senso della disintegrazione sociale e intellettuale di molti giovani lavoratori culturali?
Simone: Penso più all’aspetto lavorativo, quindi alla disintegrazione, sì… Alla disgregazione. Oltretutto la sto vivendo sulla mia pelle, questa cosa, anche dal punto di vista degli affetti. Fino ad oggi non avrei mai pensato che la mia condizione di intellettuale precario, o di precario tout court, potesse costituire un problema, ma di fatto è così; e Bianciardi, come Piero Ciampi, questa strada piena di scosse e buche l’ha percorsa tutta. Era uno sradicato, in un certo senso, anzi, in tutti i sensi.
Sonia: Già. Ma che cosa significava, negli anni Sessanta, ovvero ai tempi dello svolgimento indefesso del suo “lavoro culturale”, l’integrazione dell’intellettuale? Non rappresentava forse, da un certo punto di vista, un apparente atto di vitalità (o vitalismo) culturale la massiva partecipazione alle ferventi attività dei convegni, delle case editrici, delle università che in realtà sottintendeva un’adesione giocoforza più o meno palese al marcusiano Sistema? Penso ad esempio ad un Calvino, e a quanto in qualche modo Bianciardi, pur essendo anche lui invischiato nelle case editrici, sia differente da lui. Calvino, ad esempio, era parecchio inquadrato nel Sistema. Quando curava i Gettoni con Vittorini faceva da editor e correttore di bozze agli autori che selezionava. Pensiamo alla trilogia vigevanese di Mastronardi, quasi interamente ritoccata da lui… Anche oggi gli editor dettano legge, si sa.
Simone: Bianciardi per un momento ha pensato di poter uscire da quella condizione, di poter trovare un compromesso, di poter stare appunto dentro a un Sistema senza perdere se stesso, ma se lo vedi in certe interviste è come se nell’inquadratura, in quella inquadratura, non ci volesse stare, che ci si sentisse tirato dentro per i capelli. Mi è sempre sembrato triste, in certe riprese, come se avesse accettato di snaturarsi, pur di arrivare a quel popolo (sempre più trasformato in pubblico) che il Boom stava già facendo scoppiare con tutta la sua grande bolla di desideri indotti.
Sonia: Questa tristezza di Bianciardi è l’espressione fisiognomica del suo essere “fuori” o “altro”. Ad esempio, quanto era diversa l’atmosfera culturale della provincia grossetana dal panorama leviatanico che Bianciardi si trovò di fronte al suo trasferimento a Milano per lavorare come traduttore alla Feltrinelli!
Simone: Be’, questa tensione fra la provincia e la città è un’altra cosa che ho vissuto in prima persona, abbandonando prima Piombino per Siena, e poi Siena per Roma. Posso capire il peso di una scelta del genere, e anche l’abbattimento, lo sguardo triste di chi si volta indietro e pensa che forse tutto quel suo sacrificio non sia valso a niente, che la poca celebrità della provincia lo avrebbe almeno fatto vivere in serenità, tra i suoi contadini e minatori…
Sonia: Parli de I minatori della Maremma, che studiò in modo approfondito nella nota collaborazione con Cassola datata 1956 e che tanto aveva antropologicamente e solidalmente a cuore?
Simone: Sì, penso che tutto parta da lì, da quella sua terra di sacrifici, e che Bianciardi si sentisse addosso la responsabilità di tutti loro, di tutta quella terra, andando su nella grigia Milano a soffocare nei salotti dell’editoria.
Sonia: Una fuga dall’immobilismo castrante della provincia, in cui ogni tentativo di “lavoro culturale” rimaneva un atto vitalistico che soccombeva di fronte all’accademismo paludato e stanco dei professoroni detentori della cultura ufficiale? Oppure un’immersione volontaria e nevrotica, dettata dalla disperazione esistenziale, nel marasma conglobante del Boom economico e del consumismo, che tutto sembrava all’epoca fagocitare in un inconsapevole ottimismo generalista da cui Bianciardi però, anarcoide com’era, sapeva che ci si doveva guardar bene?
Simone: Inizialmente sarei portato a pensare più per la prima, e dunque anche in direzione di un iniziale ottimismo di Bianciardi nei confronti della città. È stato così anche per me. Bianciardi pensava forse di riscattare la propria provincia, la propria storia, di portare la propria visione delle cose laddove ci sarebbe stata più gente ad ascoltarlo, gente magari “acculturata”, ma che alla fine era però prigioniera dei ritmi del Boom, di un tempo che era sempre più costituito da una successione di meccanismi come in una catena di montaggio… Una catena del successo la definirei, ed è questo il congegno disgregatore: la macchina che ti tritura per qualsiasi verso, in qualsiasi modo tu c’entri dentro.
Sonia: Lui parte per Milano carico di intenzioni, di promesse a se stesso, forse, come scrive ne La vita agra, per mettere una metaforica “bomba” contro i responsabili della vita miserabile che si svolge nella sua Terra d’origine, contro i capitalisti, i detentori del potere. E poi, invece, finisce per divenire intellettuale “sommerso”, travolto dai meccanismi del Sistema che assimilano ogni singolarità, reificandola. E allora La vita agra, il romanzo che narra lo scempio e la spersonalizzazione nevrotica dell’intellettuale outsider, appare davvero come narrazione ante – litteram, nella società degli anni Sessanta, della precarietà esistenziale del lavoratore culturale, oggi, non più in tempi di Boom ma di crisi; ovvero, narrazione, anche, di me e te.
Simone: Esatto, e per questo può essere visto anche come la continuazione del Lavoro Culturale, come se fosse il tracciato di un percorso: la fuga dall’immobilismo provinciale, dove però sentiva questo senso di apertura, questo ottimismo per il futuro, e quindi lo slancio verso la città, ma non nella Roma salottiera e fanfarona, bensì nella Milano nebbiosa e operosa, laddove si decidevano le sorti dell’editoria.
Sonia: Nel 1960 Bianciardi aveva scritto in soli dieci giorni anche un libello, L’integrazione, che è una sorta di autoconfessione psicologica in questo senso. Liberarsi dal soffocante microcosmo della provincia significa andare nella grande città, ma questo trasferimento solo per illusione può significare un atto di emancipazione. In effetti, Milano assume le forme teratologiche di un contemporaneo leviatano che divora Bianciardi digerendolo e incastonandolo nel conformismo più gretto. Contro di esso, l’individuo non può fare molto; l’unica fuga è nella forza dell’immaginazione e nell’espressione della parola letteraria autonoma, che si svolge quasi in segretezza, nel chiuso della propria stanza, dostoevskijanamente, in mezzo a mille nevrosi e alla stanchezza.
Simone: Sì, sicuramente quello dell’integrazione era un assillo per Bianciardi, e lo è ancora di più oggi. Pensiamo a quanto sia attuale questa condizione, oggi che l’intellettuale lavora sempre più spesso a gratis: perché lo fa? Da una parte questo gli garantisce un margine di libertà (la mia scelta, alla fine, è stata appunto quella di campare di altri lavori e di accettare per quanto possibile questa sorta di lacerazione che mi fa vivere in due dimensioni diverse), ma dall’altra sono convinto che ci sia una sorta di aspirazione a vedersi integrato, a vedersi riconosciuto il valore del proprio lavoro. È questa la disgregazione che caratterizza l’intellettuale di oggi.
Sonia: L’integrazione a me sembra una specie di sehnsucht romantica, un’aspirazione struggente e insoddisfatta per i molti che rimangono fuori dai grossi circuiti editoriali per una sorta di svilente “de vulpe et uva“, ma non per gente come noi, che crede fermamente in quello che fa e che anzi cerca di sviluppare, bianciardianamente, un discorso culturale “dal basso”, coinvolgendo anche il territorio in direzione di una auspicabile emergenza del sommerso; non credi? Bianciardi stesso, quando si ritrovò un contratto in mano presso una “major”, come si dice nell’ambiente musicale a cui pure, come artista, appartengo, avrà strabuzzato gli occhi incredulo, con tutto che presso una “major” editoriale lavorava, «carte su carte di ribaltatura».
Simone: Sì, ma resta sempre il tarlo: e se dovessi in qualche modo entrare nel Sistema? Che cosa faccio? Mi lascio fagocitare? Cerco di cambiarlo dall’interno, sapendo che non sono altro che una rotella sostituibile? Un discorso culturale dal basso, all’epoca di Bianciardi si poteva forse provare…Oggi lo si può tentare con internet, ma il rischio è sempre quello di parlare fra noi altri, proprio come accadeva nel circolo di cinema di Grosseto ai tempi del Lavoro culturale.
Sonia: La platea però si è enormemente allargata; questo, a seconda dei punti di vista, è il bello ma anche il male della rete, perché permette a tutti l’espressione, anche se in questa democraticità si insedia il livellamento verso il basso; ma questo vale per chi si improvvisa critico o scrittore; per il resto hai ragione, crescono ad esempio blog letterari come funghi, e a scriverci sopra, guarda caso, sono (quasi) sempre gli stessi… Ma non era così anche per la partecipazione ai concorsi letterari ai tempi di Bianciardi?
Simone: Non lo so, immagino che i meccanismi fossero gli stessi, ma che oggi si siano ancora di più aggravati, perché la base si è allargata e dunque sono aumentati quelli che da una parte vogliono entrar dentro (c’entra sicuramente la percentuale più alta di persone che hanno studiato e che hanno una certa preparazione), ma d’altra parte sembra che ci sia sempre meno gente disposta a leggere e ascoltare. E dunque quel lettone romano di cui parlava Bianciardi, dove ci stavano in duecento intellettuali, oggi si è semmai ristretto, ma il numero di chi vuole stendercisi è aumentato… Mi pare che oggi la definizione di intellettuale sia svuotata di senso proprio per questo motivo: perché assomiglia a una sorta di status quo senza conseguenze, magari ricercato da chi poi non si interessa minimamente al lavoro degli altri. Un grande letto pieno di onanisti, insomma.
Sonia: Aggravato poi dalla stampa ufficiale, quella stessa che ad esempio ha dato addosso a voi, Scrittori Precari, dandovi dei «precari sì, ma non degli scrittori», e che ha cominciato a remare anche contro la nostra concezione di “critica impura”; come se le competenze e le capacità, in questa società tutto fuorché meritocratica, non contassero nulla. Come fa infatti un autore sconosciuto, oggi, ad arrivare alla pubblicazione immediata (cioè senza mediazione: l’interpretazione è libera) presso la grande editoria? Inoltre, siamo veramente sicuri che tutti coloro che ci sono riusciti abbiano scritto il capolavoro degli anni Duemila?
Simone: Al di là di certi casi, mi pare almeno che alcuni siano tornati a sporcarsi le mani, ed oggi abbiamo la grande responsabilità di non sciupare quest’ultima occasione, perché dopo non so se ce ne saranno altre. Quanto al capolavoro, sappiamo che oggi l’industria culturale non lo cerchi affatto, che gli unici a sperimentare siano alcuni piccoli e medi editori. Ma d’altra parte esce così tanta roba che probabilmente neanche ci accorgeremmo del capolavoro, ed è su questo punto che la critica deve ritrovare il suo ruolo di filtro, ma non pilotato dalle amicizie e dalle convenienza. A me danno fastidio entrambi gli estremi: gli ottimisti e gli scettici, poiché entrambi non sanno di cosa parlano.
Sonia: Hai ragione. La critica letteraria, lo scrivevo in un mio articolo del luglio scorso, ormai si è attestata in tre figure fenomenologiche, due archeologiche ed una in laborante fieri: esistono il critico accademico, il critico militante, che alla fine somiglia in modi e intenzioni talmente tanto all’accademico da non distinguersene poi tanto, e il critico che un poco costruttivisticamente io e Antonella Pierangeli abbiamo definito “impuro”… Il critico accademico, diciamo, è un professore; il critico militante, un professionista, con tutto quello che comporta; il critico impuro, uno che professa la sua fede nella propria istanza critica e nella possibilità di criticare la realtà.
Simone: E il critico ruffiano dove lo metti?
Sonia: Il critico ruffiano appartiene alle prime due categorie. Hai presente quelli che neanche leggono un libro per recensirlo?
Simone: Certo, grazie a loro poi li ricompro scontati del 50 %!
Sonia: E Bianciardi che cosa ne direbbe? Che idea s’era fatta, lassù, nella nebbia padana, in mezzo alle scartoffie feltrinelliane che lo oberavano di lavoro come un gobbo per quattordici ore al giorno, del panorama critico ed editoriale italiano dei suoi tempi? E soprattutto, che ne penserebbe di questi?
Simone: Bianciardi voleva soltanto dimostrare di poter vivere del proprio lavoro, credo, ma non so cosa significhi precisamente questo: forse tenersi a distanza, mantenere un certo pudore, non essere mai sopra le righe, se non tra le proprie righe.
Sonia: Eppure lo investì prepotentemente un umore di nevrosi e ansia che lo perseguitò per anni, fino a definirne l’aspetto caratteriale in senso angiolieriano, forse anche per questa contraddizione interna che andava vivendo, fra l’aspirazione e la realtà, fra le origini e lo spaesamento morale e letterale. Egli più di tanti altri percepiva e comprendeva l’abisso semiotico che vigeva fra la sostanza e la forma dell’Italia del Boom.
Simone: Questo è un punto nodale. Voglio dire: nella Vita agra c’entra anche l’amore, il sogno di poter tenere in piedi una relazione grazie al proprio lavoro, alla propria vocazione; eppure Bianciardi è costretto a soffocare tra bollette e traduzioni, e vive l’impossibilità di conciliare questi due sogni (la scrittura e l’amore)… Si trova ad affrontare un mondo che lo costringe a scegliere per l’uno o l’altra, anche se con Anna si ammazzano di fatica per correre dietro ai tempi degli editori e dei detrattori. Oggi questa condizione si è generalizzata: oggi il lavoro culturale, a parte rare eccezioni, esige come una distanza dal mondo, una sorta di prigione dorata per chi può permettersela, e che in ogni caso non dà quasi mai da vivere. Nel resto dei casi, questa distanza si traduce in una totale immersione, che riduce il lavoro culturale ad essere per lo più informazione, gossip. Altra cosa sono poi i favori fra conventicole, ma quelli penso che siano sempre esistiti, e in fondo non fanno che ripetere certe dinamiche di adattamento che ci portiamo dietro un po’ in tutti gli ambienti che frequentiamo.
Sonia: E poi c’è lo sbattimento indefesso consistente nel tentativo di arrivare al pubblico, di farsi ascoltare quando qualcuno ha qualcosa da dire: organizzare per conto proprio e a spese proprie happenings, convegni, reading letterari, e poi ancora ricercare patrocini, lettori…
Simone: Sì, è una faticosa gara che sembra rivolta al nulla, se non a noi stessi. Forse è questa la grande sconfitta che presagiva Bianciardi, e la peggior cosa che potesse succederci: questo affannarci e rincorrere uno spauracchio, l’illusione di qualche briciola di gloria. E allora dico che è meglio il lavoro manuale, meglio poche manciate di minuti in cui trovare nelle parole qualcosa di scomodo, anche per noi stessi…
Sonia: Per me, infatti, Bianciardi è quasi una figura antitetica a quella dello scrittore di successo: senza gloria anche quando la ottenne, soprattutto col Lavoro Culturale (1957) e La vita agra (1962); scomodo ma in una maniera a-pasoliniana (Pasolini era scomodo per quello che diceva, Bianciardi per come lo diceva e per la sua stessa vita). Che insegnamento potremmo trarne come maestro di resistenza all’oppressione del Sistema oggi?
Simone: Non so se possa farci da maestro oggi, ma di certo ci indica un limite, quello che abbiamo già da tempo superato: un limite oltre il quale i meccanismi schiacciano l’umano. Di Bianciardi bisognerebbe recuperare quel senso di feroce amarezza, quello sperperarsi nonostante tutto e contro ogni cosa. Questa è la scomoda eredità di Bianciardi: la stessa che faceva rifiutare cinquecentomila lire a Piero Ciampi, perché non valevano la soddisfazione di mandare affanculo qualcuno…
Sonia: Ed è la stessa che ci rende solidali e simili nel nostro quotidiano lavoro culturale, di precarietà ed impurezza, in nome delle quali ancora ci affanniamo dietro a quegli strani oggetti d’arte e di significanza che sono le parole; e lo facciamo così, senza chiederci tanti perché, o forse solo perché siamo umani e continueremo ad esserlo per un altro giorno ancora, o per lo meno lo siamo stati, senza cedere agli inganni del Sistema, fino ad oggi.
Bel pezzo, tanto amaro quanto consolatorio, utile per sopravvivere al caos e alla ‘rincorsa’ culturale di questa nostra epoca.
Mi permetto di segnalare un piccolo, insignificante, refuso, a 1/3 circa del testo: “E poi ,invece, ”
Alla prossima. Ciao!
grazie per la segnalazione 😉
Simone
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